N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
La
“leggerezza”
Riflessioni
tra
filosofia
e
letteratura
di
Guglielmo
Montuori
Se
c’è
un
contesto
in
cui
per
la
prima
volta
si
può
individuare
qualcosa
di
assimilabile
all’accezione
del
termine
“leggerezza”
utilizzato
in
questo
contesto,
è
senza
dubbio
quello
rappresentato
dal
mondo
della
filosofia.
Tralasciando
interpretazioni
del
termine
più
vicine
a
noi,
come
quella
dello
scrittore
Milan
Kundera,
resa
celebre
anche
da
una
trasposizione
cinematografica,
sono
i
filosofi
greci
a
sentire
per
primi
il
bisogno
di
elevarsi:
l’uomo
greco
parte
da
questo
mondo
per
dimenticarlo
e
per
forgiarne
un
altro.
Il
dualismo
metafisico
tra
Essere
e
Divenire,
tra
Natura
e
Intelligibile,
tra
Relativo
e
Assoluto,
può
essere
inquadrato
alla
luce
di
questa
esigenza
di
sollevarsi
dalla
banalità
quotidiana,
dal
peso
della
vita
di
tutti
i
giorni,
tentando
nuove
vie.
“Tentanda
via”:
questo
potrebbe
essere
il
motto
di
Parmenide,
Socrate,
Platone,
Aristotele
e
Plotino.
Uomini
che
si
sono
sforzati
di
dare
un
significato
profondo
e
superiore
al
cosmo
naturale
e
umano
facendolo
tendere
verso
l’Essere;
operazione
che
modernamente
potrebbe
tradursi
e
definirsi
nel
tentativo
di
superare
la
banalità
e la
ripetitività
del
quotidiano
per
arrivare
al
senso
superiore
e
profondo
dell’esistenza.
E la
filosofia,
in
quanto
ricerca
autonoma
del
principio
di
verità,
è
guida
in
tal
senso.
La
“leggerezza”
sarà
quindi
data
dal
tentativo
di
superare
la
pesantezza,
l’inerzia
e
l’opacità
del
mondo.
Nella
teoresi
di
alcuni
filosofi
la
tensione
verso
l’oltrepassamento
della
realtà
è
molto
forte:
basti
pensare
all’ekstasis
di
Plotino
e
allo
Streben
degli
Idealisti.
In
letteratura
spesso
viene
realizzata
mediante
il
linguaggio
adoperato
e in
questa
maniera
si
assiste
a un
vero
e
proprio
slancio
verso
il
sogno,
l’indefinito
e
l’infinito.
La
leggerezza
conduce
l’uomo
verso
orizzonti
nuovi,
che
si
staccano
dal
passato
nel
desiderio
di
qualcosa
di
più
grande,
di
più
profondo,
per
affondare
nel
significato
più
complesso
e
nascosto
della
vita.
Così,
l’uomo
si
spinge
verso
forme
di
vita
più
alte
e
verso
una
riflessione
nitida
e
acuta
sul
senso
del
vivere
e
sulla
sua
complessità.
Ecco
quindi
una
leggerezza
che
definisco
“dell’interiorità”,
diversa
dalle
altre
forme
di
leggerezza,
ad
esempio
dalla
frivolezza,
facendole
apparire
espressione
del
nulla.
La
leggerezza
dell’interiorità
si
basa
su
linearità
e
chiarificazione
ed è
essenzialmente
un
alleggerimento
del
pensiero
e
del
linguaggio
che
comporta
un
alto
grado
di
astrazione,
seguito
da
intuizioni
cui
attribuire
valori
emblematici.
Di
conseguenza,
l’interpretazione
in
chiave
filosofico-letteraria
dell’archetipo
della
leggerezza
produce
chiarezza,
ma
anche
analisi
lucida,
determinata,
rivolta
a
intuire
e
comprendere
nella
sua
essenzialità
la
complessa
vicenda
dell’esistenza
umana
nel
cosmo
infinito.
Se
guardiamo
per
un
attimo
all’antichità
greco-latina,
domina
una
tensione
dell’uomo
verso
la
leggerezza,
intesa
come
ricerca
in
chiave
leggera,
ma
profonda
del
senso
delle
cose,
nel
tentativo
di
non
lasciarsi
dissolvere
come
sogni
dalla
realtà
del
presente
e
dall’attesa
del
futuro.
Le
Metamorfosi
di
Ovidio
sono
esemplari
in
tal
senso:
una
sostanza
può
assumere
nuove
forme,
mantenendo
una
qualche
continuità
nel
passaggio
da
una
forma
all’altra.
Altro
esempio
al
confine
tra
letteratura
e
filosofia
è il
De
rerum
natura
di
Lucrezio,
la
prima
grande
opera
di
poesia
in
cui
la
conoscenza
del
mondo
diviene
frantumazione
della
sua
compattezza
e
conseguente
percezione
di
ciò
che
è
infinitamente
piccolo
e
leggero.
Questo
concetto
trova
la
sua
espressione
quando
l’autore
afferma
che
“il
vuoto
è
altrettanto
concreto
che
i
corpi
solidi”.
Lucrezio,
nel
De
rerum
natura,
parte
dalla
realtà
fisica
e,
facendo
proprie
le
visioni
di
Democrito
ed
Epicuro,
avverte
l’esigenza
di
prevedere
per
gli
atomi
delle
deviazioni
imprevedibili
dalla
linea
retta
con
il
concetto
di
clinamen,
tali
da
garantire
la
libertà
tanto
alla
materia
quanto
agli
esseri
umani.
Di
conseguenza,
vi è
uno
stretto
rapporto
che
collega
la
leggerezza
alla
descrizione
della
natura
e
alla
contemplazione
delle
forme
semplici
ed
essenziali
che
di
essa
sono
parte;
l’interpretazione
delle
sue
componenti
in
chiave
simbolica
determina
già
una
smaterializzazione
del
mondo
per
smascherarne
la
felicità
illusoria,
al
fine
di
sollevare
l’uomo
verso
qualcosa
di
più
grande.
Se
procediamo
sulla
linea
del
tempo
e ci
avviciniamo
all’uomo
della
modernità,
figure
esemplari
hanno
operato
in
tal
senso.
Tra
Ottocento
e
Novecento
Leopardi,
Svevo
e
Pirandello
si
sono
confrontati
con
il
tema
della
leggerezza,
che
si
accompagna
alla
consapevolezza
con
cui
essi
hanno
espresso
la
propria
riflessione
sulla
vita:
dall’estrema
razionalità
e
tragicità
del
Leopardi
con
la
visione
di
un
mondo
in
cui
regna
solo
la
sofferenza,
allo
scandaglio
psicoanalitico
della
coscienza
da
parte
di
Svevo,
alle
filosofiche,
quasi
cerebrali
considerazioni
sull’uomo
e
sulla
vita
di
Pirandello.
Colpisce
anche
in
questi
autori
la
specularità
con
filosofi
e
scienziati
che
hanno
segnato
la
cultura
a
loro
coeva:
basti
pensare
a
Schopenhauer
e al
tema
del
dolore,
a
Freud
e
allo
studio
dell’inconscio,
a
Einstein
e al
legame
spazio-temporale
con
tutte
le
implicazioni
che
ciò
ha
comportato
e
continua
a
comportare
anche
ai
nostri
giorni.
La
scrittura
leopardiana,
sveviana
e
pirandelliana
è
“leggera”,
innovativa
perché
è
animata
da
una
volontà
di
andare
oltre
il
significato
apparente
delle
cose,
al
di
là
del
dato
illusorio,
nel
tentativo
di
aprire
un
varco
verso
la
verità.
Una
verità
che
non
è la
datità
immediata,
ma
ciò
che
deve
essere
ricercato,
scoperto
e
custodito.
Immediato
il
richiamo
all’aletheia
di
Parmenide
e al
viaggio
del
filosofo
al
di
là
della
Porta
rosa
di
Elea,
e
alla
Wahrheit
di
Heidegger,
anche
se
il
termine
“verità”
della
nostra
lingua
non
rende
i
concetti
prima
esposti.
L’etimo
del
sostantivo
“verità”
fa
riferimento
al
credere
e
non
al
disvelamento
e al
custodire,
concetti
invece
ben
espressi
dal
tedesco
e
dal
greco
antico.
Leopardi,
Svevo
e
Pirandello
rifiutano
il
tecnicismo
narrativo
e
purificano
la
loro
scrittura
dal
culto
della
parola,
dall’estetismo
e
dalle
forme
linguistiche
più
esasperate.
Questi
scrittori
cercano
di
superare
la
“gravità”
e
l’irrazionalità
della
vicenda
umana:
nonostante
dolore
e
sofferenza,
elaborano
una
“teoresi”
del
reale
che
non
rinuncia
a
elevarsi
al
piano
dell’interpretazione,
pur
nell’estrema
difficoltà
dell’abbandono
della
concretezza.
I
loro
voli
pindarici
e i
loro
sogni
sono
costruttivi
poiché
definiscono
una
linea
teorica
che
si
pone
in
maniera
critica
di
fronte
all’esistente
e
costruiscono
un
ponte,
ponte
da
sempre
immagine
figurale
dell’oltrepassamento.
La
loro
Weltanschauung
è il
frutto
di
un’intensa
capacità
critica
filtrata
attraverso
la
dimensione
esistenziale:
la
dolorosa
vita
del
Leopardi,
la
difficile
condizione
di
Svevo
e la
sua
introspezione,
la
pazzia
della
moglie
di
Pirandello,
li
accomuna
e li
rende
consapevoli
del
vuoto
che
regna
nel
mondo
e
che
spesso
“riempie”
le
nostre
coscienze.
Ne
consegue
che
essi
adottano
una
visione
nichilistica
delle
cose
e
percepiscono
la
voragine,
l’abisso
nel
quale
l’uomo
può
sprofondare
se
non
cerca
una
ragione
di
vita,
un
fine
ultimo
in
grado
di
rispondere
alla
ricerca
di
senso.
È
pregevole
in
questi
scrittori
la
continua,
infinita
ricerca
di
una
ragion
d’essere
e la
scoperta
di
una
vita
troppo
spesso
celata
da
detriti
che
altro
non
sono
se
non
una
non-vita.