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N. 7 - Luglio 2008 (XXXVIII)

Storia del concetto di cittadinanza
italia: Evoluzione e prospettive

di Michele Strazza

 

Dalla realizzazione dell’unità d’Italia sino alla Costituzione repubblica, il concetto giuridico di “cittadinanza”ha giocato un ruolo importantissimo nella definizione dei rapporti tra cittadino e Stato e nell’allargamento dei diritti civili, politici e sociali degli individui.

All’origine della fattispecie giuridica nel nostro ordinamento post unitario vi fu l’elaborazione della scuola italiana del diritto internazionale facente capo a Pasquale Stanislao Mancini. Questi giuristi di impronta liberale crearono la c.d. teoria del “principio di nazionalità” come fondamento del “diritto delle genti”, sviluppando, poi, il concetto di “cittadinanza nazionale” su cui fondare il riconoscimento della “nazione italica”. Successivamente altri giuristi, in primis Santi Romano e Vittorio Emanuele Orlando, utilizzarono “la teoria manciniana della cittadinanza nazionale per positivizzare la definizione di status civitatis, e per rimodellare su di essa i rapporti tra Stato e individuo”.

Ma, come ha messo in evidenza Enrico Grosso, tale principio di nazionalità, su cui ancora oggi si fonda il concetto di “cittadinanza nazionale”, conduce ad una ambiguità di fondo, operando, nella legislazione e nella cultura giuridica, “una sostanziale equiparazione del concetto di cittadinanza con quello di nazionalità, attraverso la riduzione della prima alla seconda”, rendendo così più difficile “percepire la ricchezza concettuale che da sempre il termine cittadinanza si porta dietro”.
Procediamo con ordine. Il Mancini parla della sua teoria per la prima volta nella prolusione del corso di diritto internazionale e marittimo da lui tenuto presso l’Università di Torino nel 1851, sostenendo che è la nazionalità a collegare l’individuo allo Stato, rappresentando anche lo strumento per distinguere i soggetti sulla base dello Stato di cui sono cittadini e il criterio per il riconoscimento dei diritti individuali. In tal modo cittadinanza e nazionalità diventavano un tutt’uno, attribuendosi l’una sulla base del possesso dell’altra ed entrambe con la stessa funzione di integrare l’individuo nello Stato: “l’unico elemento che oggi pare caratteristico della cittadinanza e che Mancini lascia invece da parte, come non essenziale, è la sua valenza politica”, poiché i diritti riconosciuti sulla base della nazionalità sono solo quelli civili mentre il diritto di voto e la partecipazione alla politica non sono elementi essenziali della cittadinanza in quanto non utili a identificare un popolo e a distinguerlo dagli altri.

La dottrina manciniana, pur non essendo del tutto nuova poiché presente in giuristi come Gian Domenico Romagnosi e il lucano Mario Pagano, ha indubbiamente il merito di reinterpretare il concetto di nazionalità per fornire una base ideologico-giuridica alla lotta risorgimentale per l’unità d’Italia.
Secondo Mancini l’elemento costitutivo della nazione consiste nella “coscienza della nazionalità”, cioè nel “sentimento che ella acquista di sé medesima”, senza la quale gli altri elementi, di natura naturalistica, sarebbero solo “inerte materia”.
Ecco perché gli italiani, avendo preso coscienza della propria nazionalità italiana, dell’identità nazionale, riconoscendosi reciprocamente come parte di una stessa comunità, avevano tutto il diritto di combattere per realizzare la nazione di cui sentivano l’esistenza, aldilà di una semplice comunanza etnica o linguistica. E’, dunque, per dirla in altri termini, il diritto di una “Nazione” di diventare uno “Stato”. Quest’ultimo non sarebbe altro che l’espressione istituzionale della prima, venendo a coincidere territorialmente con essa.

Ad ogni nazione, dunque, dovrebbe essere riconosciuto il diritto alla indipendenza dalle altre e di organizzarsi internamente. Il principio di nazionalità diventa perciò “lo strumento di giustificazione della sovranità statale e la base del suo riconoscimento da parte degli altri Stati”. Ma è allo stesso tempo “la radice e il fondamento del rapporto tra cittadino e autorità”. Si è cittadini di una nazione e, quindi, “si appartiene a uno Stato e si è soggetti alla sua autorità”.
Ma l’effetto di tale teoria doveva essere un altro. Pur riconoscendosi un aspetto duplice al concetto di nazionalità, cioè fondamento del rapporto di autorità tra Stato e individuo nonché riconoscimento reciproco dei cittadini tra loro a causa della coscienza della nazionalità, tale differenziazione si perdeva proprio per la riduzione, nella sostanza, del concetto di cittadinanza a quello di nazionalità.

Andiamo ora a vedere come è oggi intesa la cittadinanza in Italia. Essa è intesa come lo “status” giuridico del cittadino riconosciuto dall’ordinamento giuridico. E’, dunque, cittadino colui che è riconosciuto dalla legge nazionale come “appartenente allo Stato”. Di conseguenza a lui sono riconosciuti tutta una serie di diritti e doveri stabiti innanzitutto dalla Costituzione.
E’ così lo Stato stesso che identifica i propri cittadini, stabilisce, con legge, le regole per l’acquisto e la perdita della cittadinanza, individua le conseguenze giuridiche di tale status. La cittadinanza diventa perciò un’attribuzione di diritto positivo che divide i presenti sul territorio in cittadini e stranieri.

Tutto questo comporta: a) l’impossibilità di prescindere dalle singole legislazioni degli Stati quando si vuol parlare di cittadinanza; b) la storicizzazione del concetto utilizzato nelle varie fasi storiche diversamente per allargare o restringere il godimento di determinati diritti e doveri; c) la maggiore o minore considerazione data a determinati elementi costitutivi dello status. Ciò che ne viene fuori è l’assoluta relatività del contenuto della cittadinanza: non interessa cosa è ma la sua disciplina positiva, il suo modo di acquisto, le sue conseguenze giuridiche.

Ad una diversa conclusione arriviamo considerando, seppur brevemente, il cammino storico del concetto, da quello collegato alla “Polis” greca a quello ancorato alla “Civitas” romana, espressione di appartenenza alla comunità politica e fonte di particolari prerogative oltre che di doveri contributivi e militari. Sarà poi la filosofia illuminista e la Rivoluzione francese a riprendere, dopo il Medioevo e l’assolutismo monarchico, quei concetti. Il cittadino è tale perché appartenente al nuovo Stato rivoluzionario, condividendone gli alti ideali di libertà, uguaglianza e fraternità.

Una cittadinanza, quella della Francia rivoluzionaria, obbligatoriamente “generale”, in quanto estesa a tutti, e “astratta”, riconosciuta al di là della appartenenza a ceti o ad altri gruppi sociali. E’, inoltre, non solo verticale (rapporto individuo-Stato), ma anche orizzontale (rapporto cittadini-cittadino). Una nozione, questa, fortemente “politica” che qualifica il particolare ruolo del cittadino nello Stato, fonte di diritti e doveri, in contrapposizione a quello che era “l’ancien régime” con i suoi privilegi e vincoli feudali. Gli individui sono ormai uguali in quanto cittadini ed hanno il diritto di essere rappresentati politicamente in una Assemblea Nazionale.

Nella fase giacobina della Rivoluzione questa visione “sostanzialista e politica” del concetto di cittadinanza si allarga ancor di più: la cittadinanza è l’identità collettiva della comunità politica, cittadini possono essere tutti ma lo sono solo coloro che hanno questo spirito, chi condivide gli scopi dello Stato e i suoi valori. Al contrario, coloro che non accettano tutto questo sono i controrivoluzionari, i nemici interni della Patria che devono essere esclusi dalla cittadinanza e, se del caso, messi in condizione di non nuocere.
Qui, dunque, la cittadinanza sembra avere un suo contenuto, una sua sostanza politica, in contrapposizione alla precedente configurazione formalistica del diritto positivo. Sarà proprio la dottrina del Mancini, con l’elaborazione del “principio di nazionalità”, a convogliare le due tesi a mezzo della trasformazione della cittadinanza “politica” in cittadinanza “nazionale”.

Naturalmente questa conclusione era stata preceduta dall’abbandono della filosofia illuminista e dall’approdo a quella romantica ottocentesca che privilegiava una impostazione fondata sull’elemento “valoriale” della “Nazione”. Di qui l’allontanamento da connotazioni più “politiche” e l’avvicinamento al requisito del “territorio”, in linea con le istanze indipendentistiche delle lotte del tempo. Importante diventa il “popolo”, un soggetto collettivo che, stanziato su un territorio, caratterizza la Nazione.

La cittadinanza non è altro, allora, che lo strumento per differenziare gli appartenenti ad una nazione, cioè la “nazionalità”. Essa non ha più alcun collegamento con il godimento dei diritti politici, a tal punto che l’essere cittadini connota solo un rapporto verticale, cittadino-Stato, per cui non tutti i cittadini hanno la pienezza del godimento dei diritti politici. Pensiamo al suffragio che, in quest’epoca, è limitato soltanto ad alcune categorie di cittadini: tutti, in quanto cittadini, sono soggetti all’autorità statale ma non tutti possono votare né essere eletti o accedere agli incarichi pubblici.
Certo, questa tendenza era stata presente anche in Istituzioni derivanti dall’esperienza francese come i Consigli Generali della Provincia del Regno di Napoli durante il “decennio francese”, dove i consiglieri non erano eletti ma nominati dal Re tra coloro che avevano un certo imponibile, ma è nell’Ottocento inoltrato che questo distacco tra cittadinanza e diritti politici assume un risvolto generale.

Le ragioni, per così dire, sociologiche di tale approdo devono essere individuate nell’ascesa della borghesia, come nuova classe sociale su cui ogni Regime fonderà il proprio sostegno, una classe che, uscita dalla Rivoluzione, chiede, insieme al riconoscimento del proprio ruolo, anche la esclusione dalla partecipazione politica degli altri ceti, considerati subalterni.
Compito dello Stato è garantire i diritti borghesi e solo quelli, rompendosi il legame tra cittadinanza e pienezza dei diritti politici, tra cittadinanza e partecipazione politica. Ciò che accomuna i cittadini, dunque, non è più il condividere gli obiettivi statali ma l’appartenenza alla nazione, caratterizzando un rapporto verticale con l’autorità statale e, quindi, l’eguaglianza solo formale di fronte alla legge.

E’ nato lo Stato liberale ottocentesco, garante delle c.d. “libertà negative”, lontano da ogni ingerenza nei rapporti sociali, difensore dell’equilibrio borghese. Così, infatti, recitava l’art 24 dello Statuto Albertino: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”.
Il cittadino è “il regnicolo”, cioè “il suddito”, colui che è soggetto all’autorità del Re, dello Stato. Gode dei diritti civili e politici ma con le eccezioni, piuttosto ampie, ammesse dalla legge.
E’, dunque, alla legge che è affidato il compito di regolare la cittadinanza. Rotto il legame tra cittadinanza e diritti politici, essa non ha più alcun rilievo costituzionale come era nella Rivoluzione francese e, quindi, la sua disciplina viene demandata alla legge ordinaria, cioè al codice civile.

Ma il fatto singolare è che tale identificazione tra cittadinanza e nazionalità, tipica degli ordinamenti giuridici ottocenteschi, è rimasta anche oggi nelle moderne Costituzioni dove, ad una nuova visione del rapporto tra Stato e cittadino, non è corrisposta il ribaltamento concettuale di tali due termini.
In altre parole, se oggi i diritti politici, civili e sociali hanno avuto ampia estensione anche nella nostra Costituzione, di pari passo non si è avuta una nuova elaborazione del concetto di cittadinanza che, almeno giuridicamente, è rimasta ancorata ai confini nazionali dello Stato, l’unico che ne stabilisce i modi di acquisizione e la disciplina. Nonostante una maggiore connotazione politica del termine la legge ha continuato ad esprimere una impostazione formalistica, aliena ed avulsa dalla ricerca di una visione più ontologica e contenutistica.

Se si vanno a leggere gli atti preparatori della Costituzione italiana, infatti, appare chiaro come i padri costituenti non vollero mettere in discussione il modello concettuale liberale della cittadinanza, pur essendo convinti che questa non costituisse più “il momento centrale della partecipazione del singolo alla vita dello Stato”.
Diventa allora necessario accedere ad una impostazione evolutiva del concetto giuridico di cittadinanza, superando la visione troppo formalistica qui evidenziata. Tale metodologia è stimolata dalle novità della normativa europea che sembra, in qualche modo, incrinare il monolitismo della concezione delineata.
L’art 8, comma 1, del Trattato di Maastrich del 1992, infatti, istituì la “cittadinanza dell’Unione”, stabilendo che è cittadino dell’Unione Europea “chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro”.

Ma le novità maggiori, ai fini del nostro discorso, sono evidenziati dall’art. 8 B, comma 1, il quale così recita: “ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato”. In tal modo veniva rotto, seppur limitatamente alle elezioni locali, il collegamento nazionalità-cittadinanza-diritto di voto, rinfocolando il dibattito giuridico sulla divisione del concetto di appartenenza nazionale da quello di partecipazione politica.

Il concetto di “cittadinanza” sembrerebbe riempirsi, così, di contenuti tipicamente politici, caratterizzanti l’appartenenza anche non formale ad una comunità. Si potrebbe quasi parlare di una “cittadinanza locale” distinta da quella nazionale, con alcune prerogative specifiche come il diritto di voto. Insomma, per dirla in altre parole, tale tipo di cittadinanza attribuirebbe dei diritti sulla base del vivere in una certa comunità, pur avendo un’altra nazionalità.
Questo nuovo approccio alla questione della cittadinanza è confermato dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 il quale ha stabilito che “la cittadinanza dell’Unione completa la cittadinanza nazionale, e non la sostituisce”, riconoscendo, implicitamente, l’insufficienza di quella nazionale, bisognosa di essere completata anche “dalla sfera di imputazioni soggettive attinenti ai rapporti tra il singolo e l’Unione”.

Su questa linea innovativa rientrano anche i tentativi messi in atto nel Parlamento italiano da varie parti, compresa quella governativa, per estendere anche agli “extracomunitari” il diritto elettorale attivo e passivo nelle elezioni comunali. Del resto è quanto contenuto nella Convenzione n. 144 del Consiglio d’Europa del novembre 1991 e ratificata parzialmente dall’Italia nel 1994. In essa, infatti, gli Stati membri si impegnavano a promuovere l’estensione di tale diritto elettorale locale nei confronti dei residenti stranieri che avessero soggiornato, legalmente e abitualmente, almeno cinque anni nello Stato.

La cittadinanza, nella visione europea, trova poi ulteriori specificazioni nel Trattato costituzionale, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, nel quale vengono previsti alcuni dei diritti che la compongono. Il Titolo V della Parte II è, infatti, intestato proprio alla cittadinanza, pur trattandosi, ad onor del vero, di una semplice trasposizione del Capo V della Carta di Nizza del 2001.
In definitiva, spetterebbero ai “cittadini europei”: i diritti di elettorato attivo e passivo nelle elezioni del Parlamento Europeo (art. II-99) e del Comune di residenza (art. II-100), il diritto alla libertà di circolazione e soggiorno il quale, peraltro, può anche essere accordato ai cittadini di Paesi terzi con residenza legale nel territorio di uno Stato membro (art. 105), il diritto alla tutela diplomatica e consolare da parte di qualsiasi Stato membro negli Stati terzi dove lo Stato di cui si sia cittadini sia privo di rappresentanza (art. II-106). Ad ogni cittadino (ma anche ad ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro) sono riconosciuti i diritti di accesso ai documenti (art. II-102), di rivolgersi al mediatore europeo nei casi di cattiva amministrazione (art. II-103) e di presentare petizioni al Parlamento europeo (art. II-104).

Da ultimo, il 4 agosto 2006 il Consiglio dei Ministri approvava, su proposta del Ministro dell’Interno, un Disegno di Legge, con l’intento di aggiornare la normativa italiana sulla cittadinanza contenuta nella Legge n. 91/1992 dopo la direttiva europea 2003/109/CE istitutiva del “permesso di soggiorno CE”. Il provvedimento governativo proposto nella scorsa Legislatura, prendendo in considerazione le varie situazioni che contraddistinguevano la presenza degli stranieri in Italia, intendeva stabilire la possibilità di acquisire la cittadinanza da parte di chi era nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui uno almeno fosse legalmente residente in Italia, senza interruzione, da cinque anni al momento della nascita, oltre che in possesso del requisito reddituale previsto per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

Anche se quest’ultima iniziativa restava nell’alveo della impostazione tradizionale, è indubbio che qualcosa si sta muovendo all’interno del dibattito politico e giuridico.
Si sta, dunque, andando verso un progressivo abbandono del concetto unitario e monolitico della cittadinanza nazionale, aprendo almeno a tutti coloro che risiedono in una certa comunità il godimento di diritti che, sino a poco tempo prima, era impossibile attribuire, con l’obiettivo di una maggiore integrazione nel tessuto sociale.

La stessa integrazione politica sovranazionale è la dimostrazione del superamento “di quella esclusività e del correlato sentimento collettivo di appartenenza esclusiva che hanno costituito nel loro complesso carattere tipico del concetto di cittadinanza”, rendendo “claudicante” il controllo degli Stati sul contenuto della cittadinanza e dei diritti, sentenziando l’esaurimento della “dimensione statalistica” della cittadinanza: così se già la doppia cittadinanza costituiva “un dato spurio e di difficile configurazione”, la “cittadinanza duale” dell’Unione Europea, impietosamente, rivela come i “segni del tempo” marchino il concetto tradizionale della cittadinanza elaborato dalla dottrina dello Stato.

 

 

 

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