N. 88 - Aprile 2015
(CXIX)
Le compagnie del riscatto
Una
pagina
dimenticata
del
rapporto
tra
Europa
e
mondo
musulmano
di
Marco
Lenci
Tutta
l’area
mediterranea,
dal
primo
Cinquecento
sino
agli
albori
del
XIX
secolo,
fu
segnata
in
maniera
più
o
meno
marcata
dalle
imprese
predatorie
dei
corsari
barbareschi
che
ebbero
le
loro
principali
basi
operative
nelle
reggenze
di
Tripoli,
Tunisi
e
Algeri,
entità
semistatuali
formalmente
dipendenti
dall’Impero
Ottomano.
Proprio
per
la
sua
collocazione
geografica
al
centro
del
Mediterraneo
fortissimo
fu
il
coinvolgimento
dell’Italia.
Per
più
di
tre
secoli
le
popolazioni
costiere
della
Penisola
dovettero
convivere
con
la
costante
minaccia
di
improvvise
rovinose
incursioni
dal
mare.
Il
pericolo,
comunque,
non
era
limitato
solo
a
coloro
che
vivevano
sul
litorale.
Bastava
infatti
che
un
individuo
avesse
la
necessità
di
viaggiare
per
mare
perché
potesse
divenire,
a
sua
volta,
vittima
di
un
arrembaggio
barbaresco.
A
pagarne
le
conseguenze
furono
decine
di
migliaia
di
uomini
che,
catturati,
vennero
poi
trasferiti
nel
Maghreb
o in
qualche
lontana
località
del
Levante
dove
furono
trattati
non
come
prigionieri
di
guerra
da
liberarsi
alla
fine
di
ogni
conflitto,
ma
come
schiavi
a
vita
in
quanto
provenienti
dal
mondo
degli
“infedeli”.
Insomma,
in
un
quadro
di
una
totale
contrapposizione
religiosa,
il
cristiano
caduto
in
mano
dei
musulmani,
come
specularmente
il
musulmano
imprigionato
dai
cristiani,
non
avrebbe
mai
potuto
tornare
libero
e
ancor
meno
rientrare
in
patria.
In
tale
condizione
come
avrebbe
potuto
un
qualsiasi
suddito
di
uno
Stato
italiano
riconquistare
la
libertà?
Ovviamente
si
poteva
sempre
tentare
la
via
della
fuga
a
rischio
di
crudeli
punizioni
e
finanche
della
vita;
ma
pochi
provarono
ad
evadere
ed
ancor
meno
furono
coloro
che
vi
riuscirono.
Oppure
ci
si
poteva
convertire
al
credo
del
nemico
rinnegando
la
propria
fede.
Parecchi
lo
fecero.
Ma
con
una
tale
opzione
si
rinunciava
in
partenza
ad
ogni
ipotesi
di
rimpatrio
accettando
di
vivere
il
resto
della
propria
vita
come
musulmano
tra
musulmani.
Si
poteva
infine
sperare
di
por
fine
alla
propria
schiavitù
mediante
uno
scambio
di
prigionieri,
cosa
che,
di
quando
in
quando,
effettivamente
avvenne.
Comunque
la
via
più
seguita
per
il
recupero
della
libertà
e il
ritorno
in
patria
fu
quella
del
riscatto.
In
altri
termini
i
barbareschi
erano
disposti
a
rilasciare
lo
schiavo
cristiano
dietro
il
pagamento
di
una
consistente
somma
di
denaro.
Ciò
rispondeva
ad
una
precisa
logica
economica.
In
effetti
i
corsari
maghrebini
(ma
la
cosa
valeva
sostanzialmente
per
tutto
l’Impero
Ottomano)
considerarono
i
cristiani
caduti
nelle
loro
mani
non
tanto
una
forza
di
lavoro
da
sfruttare,
quanto
un
possibile
strumento
di
rapido
e
consistente
arricchimento
monetario.
Non
si
mancò
certo
di
imporre
agli
schiavi,
soprattutto
se
giovani
e
prestanti,
lavori
che
comportavano
un
notevole
logorio
fisico.
Così
moltissimi
furono
impiegati
come
vogatori
sulle
navi;
non
pochi
furono
destinati
alle
miniere,
alle
cave
o
all’attività
edilizia;
altri
ancora
furono
adibiti
alle
fatiche
dei
campi...
Ma
il
loro
utilizzo
concreto
venne
sempre
considerato
temporaneo,
giacché
nell’ottica
barbaresca
i
prigionieri
cristiani
dovevano
in
primo
luogo
essere
trattati
essenzialmente
come
una
merce
da
cui
trarre
con
il
massimo
profitto
possibile
favorendone,
per
l’appunto,
il
rientro
in
patria
attraverso
il
versamento
di
un
cospicuo
riscatto.
All’atto
pratico
però,
di
fronte
alla
concreta
ipotesi
di
poter
essere
liberati
mediante
il
pagamento
di
un
riscatto,
la
sorte
non
era
comunque
eguale
per
tutti
gli
schiavi
cristiani.
I
ricchi
potevano
infatti
riscattarsi
da
soli,
con
relativa
facilità,
pagando
di
tasca
propria
alla
controparte
cifre
spesso
spropositate.
Ben
più
problematica
la
situazione
dei
più,
che
ricchi
non
erano,
ai
quali
non
rimaneva
che
sperare
in
un
qualche
intervento
della
carità
pubblica.
Proprio
per
rispondere
ad
una
simile
stringente
necessità
in
Italia
(ma
il
fenomeno
interessò
più
o
meno
tutta
l’Europa)
furono
fondate
e si
svilupparono
numerose
compagnie
dette
“del
riscatto”
in
quanto
finalizzate
alla
raccolta
di
denaro
da
impiegarsi
per
la
liberazione
a
pagamento
di
coloro
che
il
linguaggio
del
tempo
indicava
come
“prigioni
del
Turco
infedele”.
Tali
associazioni
costituirono
la
principale
risposta
solidaristica
che
l’occidente
cristiano
seppe
approntare
a
fronte
della
deportazione
coatta
in
terra
islamica
di
svariate
migliaia
di
persone
predate
per
mare
o
catturate
sulla
terraferma
dal
nemico
ottomano
e
barbaresco.
Fu
infatti
per
merito
della
generosità
caritativa
delle
compagnie
del
riscatto
che
tantissimi
schiavi
cristiani
poterono
terminare
-
dietro
il
versamento
di
una
congrua
somma
di
denaro
- la
propria
prigionia
e
far
ritorno
in
patria.
In
Italia
tali
istituzioni
vennero
a
costituirsi
a
partire
dal
Cinquecento
conoscendo
poi
un
incremento
eccezionale
tra
il
Sei
ed
il
Settecento
in
connessione
con
il
massimo
esplicarsi
dell’attività
predatoria
barbaresca.
Solitamente
legate
ai
Mercedari
o ai
Trinitari
(i
due
grandi
ordini
religiosi
preposti
statutariamente
all’assistenza
dei
cristiani
caduti
prigionieri
“in
mano
degli
infedeli”)
e
sostenute
attivamente
dalle
autorità
ecclesiastiche,
le
varie
compagnie
del
riscatto
godettero
di
un
largo
seguito
popolare
anche
in
virtù
delle
numerose
indulgenze
e
grazie
spirituali
di
cui
i
loro
membri
poterono
via
via
giovarsi.
Attraverso
la
raccolta
di
un’ingente
quantità
di
denaro
(frutto
di
collette,
elemosine,
donativi
e
lasciti
testamentari),
tali
istituzioni
costituirono
così
un
anello
rilevante
per
l’approntamento
di
quello
scambio
denaro/uomo
su
cui
si
fondava
buona
parte
dell’impianto
economico
della
corsa
barbaresca.
Ciò
spiega
la
loro
capillare
diffusione
in
tutte
le
regioni
italiane.
Una
delle
più
precoci
fu
la
confraternita
di
Santa
Maria
del
Gesù
della
Redenzione
dei
Cattivi
(ove
il
termine
“cattivi”,
derivato
dal
latino
captivi,
è da
intendersi
come
“schiavi”),
fondata
a
Napoli
nel
1548.
A
Roma
papa
Gregorio
XIII,
nel
1581,
affidò
all’Arciconfraternita
del
Gonfalone
la
raccolta
di
denaro
per
il
riscatto
dei
sudditi
pontifici
prigionieri
in
mano
musulmani.
In
Sicilia
fu
attivissima,
sin
dal
1595,
la
palermitana
Arciconfraternita
per
la
Redenzione
dei
Poveri
Captivi.
Nei
decenni
successivi
confraternite
per
il
riscatto
si
costituirono
anche
in
tutta
l’Italia
centro-settentrionale
da
Trento
a
Bologna,
da
Ferrara
a
Milano,
da
Torino
a
Parma
ecc.
Nel
Granducato
di
Toscana,
alla
metà
del
Seicento,
ad
una
prima
compagnia
redentrice,
sorta
a
Firenze
nel
1598,
si
affiancò
per
impulso
dei
Trinitari
una
fitta
rete
di
sodalizi
che
operarono
a
Livorno,
Pisa,
Pistoia,
Carrara
ed
in
varie
altre
località,
e
tale
indirizzo
fu
seguito
anche
nella
Repubblica
di
Lucca.
Del
tutto
particolare
fu
il
caso
della
Repubblica
di
Genova
dove,
preso
atto
del
drammatico
moltiplicarsi
del
numero
dei
sudditi
prigionieri
in
Africa
Settentrionale,
nel
1597
si
decise
di
affidare
ad
un’apposita
istituzione
governativa
(il
Magistrato
del
Riscatto)
ogni
pratica
finalizzata
alla
loro
liberazione.
Anche
a
Venezia
la
gestione
dei
riscatti
fu
affidata
ad
un
ente
governativo
(i
Provveditori
sopra
ospedali)
affiancato
dall’importante
Scuola
della
Santissima
Trinità,
istituita
nel
1604
nella
chiesa
di
Santa
Maria
Formosa.
Vi
furono
però
periodi,
nella
prima
metà
del
Settecento,
in
cui
la
Serenissima
delegò
esclusivamente
all’Ordine
Trinitario
il
compito
di
provvedere
al
riscatto
dei
propri
sudditi.
Al
di
là
della
loro
varia
natura,
tutte
le
istituzioni
sopra
ricordate
operarono
più
o
meno
secondo
uno
stesso
modulo.
Primo
loro
compito
fu
l’approntamento
di
liste
di
concittadini
prigionieri
in
terra
musulmana
per
i
quali
si
sarebbe
potuto
organizzare
il
riscatto.
Su
ogni
nominativo
si
avviava
poi
un’indagine
preliminare
per
conoscerne
le
reali
condizioni
economiche
e
patrimoniali
sicché,
se
del
caso,
la
famiglia
dell’interessato
veniva
poi
invitata
a
versare
una
certa
somma
da
aggiungersi
allo
stanziamento
già
predisposto
dall’istituzione
redentrice.
La
pratica
del
riscatto
entrava
poi
nella
sua
fase
esecutiva.
Alcuni
sodalizi
ebbero
la
capacità
di
organizzare
dei
grandi
riscatti
collettivi
inviando
a
Tripoli,
Algeri
e
Tunisi
proprie
specifiche
missioni.
Però
assai
più
di
frequente
si
preferì
appoggiarsi
sull’esperienza
e
sulla
disponibilità
dei
già
ricordati
Trinitari
e
Mercedari.
Comunque
il
compito
di
chi
materialmente
doveva
poi
intavolare
le
trattative
con
la
controparte
non
fu
mai
facile.
I
criteri
e le
priorità
seguiti
dalle
autorità
barbaresche
non
erano
infatti
sempre
conciliabili
con
i
programmi
dei
redentori.
Ad
esempio
di
sovente
i
barbareschi
cercavano
di
imporre
il
riscatto
di
elementi
vecchi
o
inabili
rifiutandosi
al
contempo
di
soddisfare
richieste
concernenti
persone
che,
per
età
o
per
professione,
risultassero
non
cedibili
dai
loro
proprietari.
Talvolta,
proprio
perché
i
loro
programmi
iniziali
non
si
potevano
realizzare
a
pieno
per
l’opposizione
della
controparte,
i
redentori
si
trovarono
nella
condizione
di
poter
disporre
liberamente
di
parte
del
denaro
loro
affidato.
Essi
dovettero
quindi
decidere
sul
posto
quale
prigioniero
riscattare
e,
in
simili
circostanze,
si
può
ben
immaginare
le
molteplici
pressioni
a
cui
furono
sottoposti
giacché
ogni
schiavo
non
avrà
certo
mancato
di
lamentare
le
proprie
misere
condizioni
e di
esporre
i
vari
motivi
per
i
quali
riteneva
di
dover
essere
anteposto
agli
altri.
Non
è
qui
il
caso
di
soffermarci
sul
variare
delle
somme
che
da
parte
barbaresca
vennero
richieste
per
la
liberazione
degli
schiavi.
Merita
segnalare
invece
che,
per
ogni
prigioniero
riscattato,
i
redentori
dovevano
pagare
anche
tutta
una
serie
di
diritti
fissi
e di
tasse
accessorie
che
facevano
inevitabilmente
lievitare
il
prezzo
finale.
A
conti
fatti,
la
somma
delle
spese
aggiuntive
poteva
equivalere
addirittura
ad
un
terzo
del
totale
effettivamente
versato
per
un
riscatto.
Si
può
facilmente
capire
come,
in
un
simile
quadro,
le
trattative
non
fossero
quasi
mai
brevi
e
semplici.
Talvolta
sul
prezzo
di
uno
schiavo
o di
un
gruppo
di
schiavi
si
apriva
una
sorta
di
tira
e
molla
destinato
a
protrarsi
per
mesi
e
perfino
per
anni.
Né
mancarono
casi,
davvero
sfortunati,
in
cui
il
negoziato
si
interruppe
del
tutto.
Né
le
difficoltà
terminavano
con
la
conclusione
positiva
dell’affare
giacché
altro
gravoso
impegno
richiedeva
il
viaggio
di
ritorno.
L’organizzazione
dei
passaggi
marittimi
sicuri
per
i
redenti
necessitavano
di
nuovi
permessi
e di
altre
spese.
In
definitiva
solo
quando
la
nave
che
trasportava
gli
schiavi
riscattati
approdava
in
un
porto
italiano
l’operazione
poteva
dirsi
davvero
conclusa.
I
prigionieri
liberati,
trascorso
in
isolamento
il
necessario
periodo
di
quarantena
sanitaria,
venivano
alla
fine
accolti
trionfalmente
nella
loro
città
da
cui
mancavano
da
anni
e
talvolta
da
decenni.
In
loro
onore
le
compagnie
del
riscatto
organizzavano
solenni
cerimonie
consistenti
per
lo
più
in
lunghe
processioni
a
cui
concorreva
una
folla
strabocchevole
desiderosa
di
rivedere
e di
salutare
concittadini
la
cui
liberazione
dalla
tremenda
prigionia
in
terra
islamica
aveva
i
contorni
del
miracoloso.
Il
corteo
per
solito
si
concludeva
nella
sede
stessa
della
confraternita
redentrice
che,
per
l’occasione,
poteva
raccogliere
tra
il
folto
pubblico
consistenti
donazioni
ed
elemosine
proprio
sulla
scia
del
riscatto
felicemente
concluso.
Riferimenti
bibliografici
G.
Bonaffini,
La
Sicilia
e i
Barbareschi.
Incursioni
corsare
e
riscatto
degli
schiavi
(1570-1606),
Palermo
1983.
S.
Bono,
I
corsari
barbareschi,
Torino
1964.
R.C.
Davis,
Christian
Slaves,
Muslim
Masters.
White
Slavery
in
the
Mediterranean,
the
Barbary
Coast,
and
Italy,
1500-1800,
New
York
2004.
M.
Lenci,
Lucchesi
nel
Maghreb.
Storie
di
schiavi,
mercanti
e
missionari,
Lucca
1994.
M.
Lenci,
Corsari.
Guerra,
schiavi,
rinnegati
nel
Mediterraneo,
Roma
2006.
E.
Lucchini,
La
merce
umana.
Schiavitù
e
riscatto
dei
liguri
nel
Seicento,
Roma
1990.
C.
Manca,
Il
modello
di
sviluppo
economico
delle
città
marittime
barbaresche
dopo
Lepanto,
Napoli
1982.
A.
Pelizza,
Riammessi
a
respirare
l'aria
tranquilla.
Venezia
e il
riscatto
degli
schiavi
in
età
moderna,
Venezia
2014.
G.
Ricci,
Ossessione
turca.
In
una
retrovia
cristiana
dell’Europa
moderna,
Bologna
2002.