N. 26 - Luglio 2007
La Compagnia
Catalana
Vicende di una
compagnia di ventura del XIV secolo
di
Ferdinando Angeletti
Le compagnie di ventura
Il XIV secolo vede la nascita
delle compagnie di ventura. Tali gruppi
armati, che in Europa decaddero ben presto, a
seguito dello sviluppo di eserciti nazionali
permanenti, rimasero invece padroni della
situazione militare italiana per tutto il
secolo successivo.
Forse più delle compagnie di
ventura, vengono ricordati i capitani di
ventura, veri e propri condottieri che
conducevano le proprie truppe al servizio di
chi poteva garantirgli un soldo maggiore.
Si ricordino, solo a puro
titolo informativo, i nomi di Bartolomeo
Colleoni, Giovanni Acuto (italianizzazione del
nome inglese Hawkswood) o Muzio Attendolo
Sforza.
Tuttavia tali comandanti altro
non fecero che cogliere i frutti dello
sviluppo della tecnica di ventura, nota già da
un paio di secoli.
Si è spesso voluto vedere,
soprattutto per l’Italia, la nascita delle
compagnie di ventura a seguito del venir meno
delle milizie comunali che avevano fatto la
fortuna delle città italiane durante il XII e
XIII secolo (la battaglia di Legnano sia di
esempio in tal senso). Tali milizie, però,
erano formate da cittadini e non da persone
che facevano delle armi una professione a
tempo pieno.
A poco a poco, quindi,
iniziarono a nascere un po’ in tutta Europa
milizie autonome, che combattevano per la
città, il principe o lo Stato che le pagava
meglio.
Erano forse qualcosa di più di
semplici mercenari, perché si trattava di
eserciti totalmente autonomi (forti di reparti
di cavalleria, fanteria e, più tardi, anche
artiglieria), subordinati solamente ai propri
capi e molto meno a chi li pagava.
Quella che si vuole raccontare
qui è la storia di una compagnia di ventura
molto particolare, nata per combattere in
certi luoghi ed a certe condizioni e destinata
invece a crearsi uno stato, per quanto
effimero si sia poi rivelato, nell’Oriente
bizantino.
I Vespri Siciliani e la guerra
angioino – aragonese
Con la famosa rivolta detta dei
“Vespri”, la Sicilia tutta si era ribellata al
– recente – dominio degli Angioini francesi,
divenuti nuovi dominatori dopo le battaglie di
Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) e la
fine della dinastia svevo – normanna.
Il nuovo dominio era stato
malvisto dalla popolazione locale ed in
special modo da quella siciliana che aveva
dovuto sopportare, oltre ai soprusi di cui i
nuovi arrivati si erano macchiati un po’ in
tutto il Mezzogiorno, anche l’onta del
trasferimento della capitale del regno da
Palermo a Napoli.
I nuovi dominatori si erano
comportati nel modo peggiore, compiendo
nefandezze e soprusi che avevano esacerbato la
popolazione fino al limite della sua
sopportazione.
Con la rivolta, dunque, i
Siciliani volevano liberarsi dall’oppressione
angioina e inizialmente vi riuscirono,
cacciando tutti i Francesi dall’isola ma poi,
consci del fatto che da soli non sarebbero
riusciti a resistere ad un contrattacco
angioino, pensarono di offrire la corona di
Sicilia al re d’Aragona, Pietro III.
Perché proprio a costui? Il
motivo è più semplice di quanto si possa
credere.
Pietro era imparentato, tramite
la moglie (figlia di Manfredi di Svevia) con
quella casata svevo – normanna che per secoli
era stata sul trono di Palermo ed era quindi
visto come legittimo pretendente alla corona
siciliana.
Così truppe aragonesi
sbarcarono in Sicilia ed iniziarono le
operazioni di difesa dell’isola.
La guerra andò per le lunghe e
si concluse, almeno temporaneamente, nel 1302,
con il trattato di pace di Caltabellotta,
firmato da Carlo II d’Angiò, re di Napoli e
Federico II, re di Trinacria (il titolo di re
di Sicilia rimase appannaggio dell’angioino).
Tra le truppe che il regno
aragonese aveva inviato in Sicilia, vi era una
compagnia di ventura, la cosiddetta “compagnia
catalana” detta anche “degli almogaveri”,
dalle popolazioni che la formavano.
Si trattava di 6500 uomini,
professionisti della guerra, che avevano
contribuito alla difesa di Messina dagli
attacchi del re angioino.
Al loro comando era stato
posto, da qualche anno, il nobile italo –
tedesco Ruggero de Flor (il vero nome è Rutger
Von Blum), già cavaliere templare in Oriente
poi cacciato dall’ordine con l’accusa di
essersi impadronito di beni dell’Ordine
stesso.
Con la fine delle ostilità, la
compagnia catalana aveva visto svanire la
possibilità di combattere ancora, con tutte le
conseguenze (saccheggi e bottini relativamente
semplici) che sarebbero derivate.
D’altra parte, il novello
sovrano di Trinacria, Federico III, mal vedeva
la presenza di queste milizie, infide per
natura, nel suo regno.
Decise così di proporre
all’imperatore bizantino Andronico II
Paleologo l’ingaggio di questa milizia.
Mai proposta fu meglio accolta
alla corte di Bisanzio.
La Compagnia a Bisanzio –
Andronico II Paleologo
L’invio del contingente
catalano a Bisanzio era una vera manna dal
cielo, per gli orientali ed in special modo
per l’imperatore bizantino, Andronico II
Paleologo. Costui, privo di qualità politiche
e militari, aveva finito per compromettere la
già gravissima situazione in cui l’impero
versava.
Oltre ad aver perso territori
nei Balcani, a vantaggio del regno di Serbia e
dell’impero di Bulgaria, era stato costretto a
cedere all’avanzata turca in Asia Minore,
cedendo loro le ultime piazzeforti rimaste in
mano all’Impero.
In un ultimo e disperato
tentativo di risollevare le sue sorti, aveva
finito per accettare la proposta della
popolazione degli Alani che, in cambio del
loro aiuto militare, chiedevano di potersi
stabilire all’interno delle frontiere
dell’Impero.
Le orde alane, sotto la guida
del figlio di Andronico nonché co –
imperatore, Michele IX, erano passate in
Anatolia ma erano state completamente spazzate
via dalle truppe turche e lo stesso Michele si
era a stento salvato.
In quella situazione, quindi,
in cui non vi erano truppe né per difendere
l’Impero, né tanto meno per passare
all’offensiva, l’offerta di Federico III
d’Aragona fu accettata immediatamente.
Andronico si limitò (secondo
quanto ci dice lo storico Pachymero) a
richiedere cinquecento cavalieri e mille
fanti, quanti sarebbero stati necessari,
secondo lo stato maggiore imperiale, per
difendere l’Impero.
Tuttavia Ruggero di Flor fece
imbarcare tutta la compagnia (quindi 6500
uomini) a Messina su 39 navi messe a
disposizione dal re di Trinacria e, qualche
settimana più tardi, sbarcò a Costantinopoli,
accolto trionfalmente dall’imperatore ma non,
e questo è un dato piuttosto eloquente, dalla
popolazione.
È chiaro che Ruggero ed i suoi
non erano venuti fino a Costantinopoli per
compiere un’opera buona, anzi. La loro paga
era stata stabilita in modo tale che fosse
dieci volte quella di un normale soldato
bizantino, una cifra enorme.
Oltre a tutto, appena giunto a
Costantinopoli, Andronico II versò, non si sa
quanto di sua spontanea volontà, sei mesi di
paga anticipata e a questo si aggiunse la
nomina a megadux (Granduca, cioè generale
supremo) per Ruggero di Flor nonché la mano
della figlia Maria.
In questo modo Ruggero diveniva
anche potenziale erede al trono bizantino, ma
il titolo di Cesare, che lo avrebbe
definitivamente reso tale, non gli venne per
ora attribuito.
Abbiamo già detto come la
popolazione non avesse visto di buon occhio
l’arrivo degli stranieri in città.
Il ricordo del sacco del 1204,
oltre all’antipatia reciproca che da secoli
divideva Greci e Latini, era ancora troppo
fresco.
In particolare furono i
Genovesi, titolari di un intero quartiere
della città, il quartiere di Galata, o Pera, a
sentirsi minacciati, con il timore – piuttosto
infondato per la verità – di vedersi tolti i
propri privilegi commerciali.
Le tensioni che già avevano
accompagnato l’arrivo dei Catalani a Bisanzio
esplosero nelle settimane successive quando vi
furono scontri e tafferugli tra le truppe
straniere ed i cittadini.
Andronico decise così di
utilizzare le milizie catalane in ciò che
meglio sapevano fare: combattere.
Ordinò così a Ruggero de Flor
di entrare in Anatolia per combattere contro i
Turchi.
Le truppe catalane, ben armate,
ben pagate e molto ben agguerrite, obbedirono,
iniziando una marcia trionfale in Anatolia.
Liberarono la città di
Filadelfia, una delle ultime piazzeforti
bizantine situate in territorio asiatico,
assediata dall’esercito turco.
In due diverse battaglie, poi,
la compagnia catalana, coadiuvata da soldati
bizantini, sconfisse gli eserciti dei vari
emirati turchi (l’unificazione dei Turchi ad
opera di Othman doveva ancora venire)
provocando perdite quantificate dalle fonti in
30.000 uomini.
A Costantinopoli vi furono
imponenti festeggiamenti per celebrare le
vittorie delle armi di Bisanzio e Andronico
concesse finalmente il titolo di Cesare a
Ruggero di Flor assieme a quello, ben più
altisonante ma di nessuna valenza politica, di
“Salvatore dell’Asia”.
I soldati catalani, però,
iniziarono a spadroneggiare nella zona da essi
liberata. Come dice il Gibbon, infatti “Questi
[I Catalani nda] consideravano come loro
proprietà le vite e le sostanze di coloro che
avevano salvato”. Le rapine ed i saccheggi
erano all’ordine del giorno, e la situazione
divenne insostenibile per le popolazioni che
fecero appello direttamente all’imperatore
Andronico.
Costui protestò con Ruggero di
Flor e gli altri capi catalani per le angherie
compiute dai loro uomini ma, per mancanza di
mezzi o per paura (o per entrambe le cose) si
fermò lì.
I Catalani imperterriti
continuarono a tiranneggiare la popolazione ed
a spogliare i territori di ogni qualsiasi
ricchezza giungendo al paradosso di assediare
e conquistare con la forza Magnesia, città
imperiale, che aveva avuto l’ardire di
chiudere le porte di fronte all’arrivo dei
Catalani.
La totale assenza di
contromisure prese da Bisanzio instillò nella
mente delle milizie straniere la
consapevolezza della loro potenza di fronte
alla quale Bisanzio poco o nulla poteva.
Nell’inverno del 1304, comunque
le truppe almogavere furono richiamate in
Europa da Andronico ed essi trascorsero tale
periodo (fino alla primavera dell’anno
successivo) a Gallipoli anche perché,
probabilmente, in Asia non c’era più nulla da
saccheggiare.
Durante i mesi trascorsi a
Gallipoli, le spade tacquero, ma non così le
beghe della corte imperiale.
Visto il susseguirsi di
prepotenze ed abusi da parte dei Catalani, in
seno alla Corte bizantina si formò un partito
che voleva la cacciata, o quanto meno la
riduzione, di quell’armata straniera, nonché
la sua subordinazione a comandanti bizantini
di provata fede imperiale.
A capo di questo partito si
pose il figlio di Andronico II, quel Michele
IX di cui si è già parlato precedentemente.
L’imperatore, preso tra la
necessità di salvaguardare l’impero
(mantenendo quindi una milizia forte) e
quella, forse ancor più impellente, di far
cessare le vessazioni, mediante la riduzione
degli effettivi (accettando in questo la tesi
del figlio), optò per una via di mezzo.
Tra il gennaio ed il marzo 1305
convocò Ruggero a Costantinopoli e gli propose
il governatorato dell’Asia, a condizione che
riducesse il numero dei suoi effettivi a
tremila uomini.
Ruggero, conscio della
posizione di forza che gli derivava dal
comando di un’armata indispensabile a Bisanzio,
ovviamente rifiutò.
Allora, visto che le trattative
languivano e che la primavera (e con essa
l’inizio delle campagne militari) stava
velocemente sopraggiungendo, alla corte si
decise di impiegare un’arma abbastanza
consueta: l’omicidio.
Nell’aprile del 1305 Ruggero de
Flor fu invitato ad un banchetto ad
Adrianopoli, assieme ad altri generali
almogaveri, da Michele IX.
Il 5 aprile un gruppo di Alani,
che costituivano la guardia personale del
Paleologo, uccise Ruggero e gli altri
comandanti.
È plausibile, se non
addirittura probabile, che l’azione non fosse
stata decisa dal solo Michele, ma concordata
con il padre e con tutto l’establishment
bizantino. Tuttavia, almeno inizialmente,
l’azione venne fatta passare come un colpo di
mano autonomo delle milizie alane, invidiose
del trattamento economico migliore riservato
agli Europei.
Rimaneva comunque un ulteriore
interrogativo: cosa avrebbero fatto ora le
milizie concentrate a Gallipoli?
Andronico, d’accordo con
Michele, emanò immediatamente decreti di
espulsione per tutti i Catalani che si
trovassero nel territorio imperiale.
Se alcuni soldati, posti di
guarnigione in altre cittadine e piazzeforti
dell’impero, si imbarcarono quasi subito, la
guarnigione di Gallipoli si rifiutò di
accettare il decreto e si rivoltò.
Per diversi mesi le truppe
lealiste, al comando di Michele, tentarono di
espellere i Catalani dalla città, ma
inutilmente.
Anzi, da ogni parte dell’Impero
giungevano nuovi volontari e ritornavano quei
(pochi) Almogaveri che avevano ottemperato al
decreto di espulsione di Andronico II.
Sotto il comando di Berenguer
d’Entenza, le truppe catalane si diedero al
saccheggio selvaggio di Tracia e Macedonia,
riducendo il territorio praticamente in rovina
(dagli storici tale evento viene definito
“Vendetta catalana”).
La posizione di Gallipoli era
strategicamente vitale per l’impero bizantino:
situata all’entrata dei Dardanelli, era in
grado di bloccare potenzialmente qualsiasi
collegamento commerciale da e per il Mar Nero,
con grave danno per l’economia bizantina.
Le scorrerie degli Almogaveri
si intensificarono durante i due anni
successivi, sia sulla sponda asiatica che
europea dell’impero, mettendo a sacco anche i
territori attorno alla capitale.
Tuttavia, con grande sollievo
della corte bizantina, all’interno della
Compagnia iniziarono a sorgere dei contrasti.
In primo luogo la mancanza di
un vero leader, prima personificato da Ruggero
di Flor, poi da Berenguer (morto in una delle
scorrerie), si faceva sentire, ed i vari capi
delle milizie litigavano di continuo tra di
loro.
Inoltre il saccheggio
sistematico delle zone limitrofe a Gallipoli
aveva portato ad una grave carestia e, quindi,
a carenza di viveri per gli stessi soldati.
Fu così che, nel 1307, i
comandanti almogaveri, per una volta tutti
d’accordo, decisero di abbandonare la
posizione di Gallipoli e di muoversi verso la
Tessaglia e la Macedonia.
Bisanzio
era salva, il resto dell’impero un po’ meno.
Dalla Tessaglia al Ducato di
Atene – fine della Compagnia
Verso la fine del 1307, i
comandanti della Compagnia Catalana si
insediarono a Kassandra, una città posta su
una delle tre lingue di terra che formano,
tutte assieme, la penisola calcidica.
La posizione era ottima per i
saccheggi che da lì potevano partire.
L’abilità marinara degli Almogaveri, infatti,
permetteva loro di poter spadroneggiare in una
vastissima zona, che da Costantinopoli
giungeva fino all’Eubea.
Le spoliazioni ebbero inizio e
nemmeno i monasteri del Monte Athos si
salvarono.
Imbaldanziti dai facili
successi, i Catalani cercarono di stabilirsi
in quella ricca zona, e per fare questo
avevano bisogno di conquistare delle
piazzeforti.
La capitale della Tessaglia,
nonché seconda città dell’impero per
importanza e grandezza, era Tessalonica (o
Salonicco), che, fino a una ventina d’anni
prima era stata capitale di uno degli effimeri
stati crociati nati a seguito della spedizione
del 1204.
I Catalani, però, non avevano
fatto i conti con la combattività dei
Tessalonicesi nonché con le imprendibili
fortificazioni che la circondavano.
Dopo mesi di inutili tentativi,
decisero dunque di abbandonare l’assedio e di
continuare a guidare le loro scorrerie da
Kassandra.
Tra il 1308 ed il 1309 si
verificò poi un avvenimento imprevisto.
A Kassandra giunsero undici
navi veneziane che trasportavano un nobile
francese, plenipotenziario di Carlo di Valois,
fratello del re di Francia.
Costui aveva sposato Caterina
di Courtenay, erede legittima dell’impero
latino d’Oriente, e pertanto stava
organizzando una spedizione per impossessarsi
dei domini che considerava suoi di diritto.
Il plenipotenziario era dunque
venuto a proporre ai Catalani di essere
assunti da Carlo e di combattere per la sua
causa.
I Catalani, attirati dalla
paga, nonché dalla lontananza del principe
(“Padroni della situazione, i Catalani erano
in condizione di giurare oggi per divenire
spergiuri domani” dice il De Lavigny)
accettarono e giurarono fedeltà al fratello
del Re di Francia.
Secondo i piani, i Catalani
avrebbero dovuto ritornare verso
Costantinopoli devastando tutti i territori
circostanti e ponendo da terra l’assedio alla
stessa capitale bizantina, mentre Carlo, al
comando di una flotta messa a disposizione dai
Veneziani, avrebbe fatto altrettanto dal mare.
In spregio al giuramento
recentemente fatto, i Catalani preferirono
trasferirsi in Tessaglia, regione che si
trovava in uno stato di anarchia endemica,
perché troppo lontana dai centri di potere (Bisanzio
– la Serbia – la Bulgaria) per essere
controllata.
Qui poterono continuare
indisturbati la loro azione di saccheggio e di
sfruttamento su una regione che era stata
toccata solo superficialmente dai precedenti
conflitti e quindi molto ricca.
Alla perenne ricerca di un
luogo ove stabilirsi definitivamente, i
Catalani agli inizi del 1310, accettarono un
ingaggio dal Duca di Atene, Gualtieri V di
Brienne, alla guida del Ducato dal 1308.
Costui, stretto tra il
Principato d’Acaia (di cui era vassallo), il
despotato d’Epiro e l’impero bizantino, aveva
bisogno di truppe sia per difendersi da
eventuali attacchi esterni sia per avviare
quella politica offensiva che aveva in mente.
Troppo tardi si accorse che la
Compagnia Catalana, su cui faceva grande
affidamento, guardava più agli interessi
propri che a quelli del Ducato.
Nel 1311 decise, timoroso di un
loro tradimento (Carlo di Valois docet), di
agire per primo e li scacciò dal Ducato.
I Catalani, per nulla
intenzionati ad andare via, lo affrontarono
sul campo di battaglia sconfiggendolo ed
uccidendolo nella battaglia di Halmyros.
I Catalani scacciarono il
figlio omonimo di Gualtieri (erede legittimo)
e presero essi stessi il comando del Ducato,
lasciandogli la signoria di Argos e Nauplia.
Si posero sotto la protezione del Re di
Trinacria (d’altra parte da lì venivano no?)
il quale, da quel momento, potè liberamente
usufruire del titolo di Duca d’Atene, che
veniva affidato ad un cadetto della famiglia;
poiché i duchi titolari di Atene preferivano
rimanere in Sicilia, iniziarono ad inviare un
loro vicario per la gestione del Ducato e
raramente lo gestirono di persona.
Elenco dei Duchi di Atene e dei
loro vicari (1311 – 1381):
Duchi di Atene |
Vicari |
Ruggero d’Eslaur (1311 – 1312) |
Senza vicario |
Manfredi d’Aragona (1312 – 1317) |
Berenguer Estanyol (1312 – 1317) |
Guglielmo II d’Aragona
(1317 – 1338) |
Alfonso Federico di
Sicilia signore di Negroponte (1317 –
1338) |
Giovanni II d’Aragona
marchese di Randazzo (1338 – 1348) |
Senza vicario |
Federico I d’Atene (1348 – 1355) |
Senza vicario |
Federico III il Semplice di Sicilia
(Federico II di Atene) (1355 – 1377) |
Ruggero de Flor (1362 – 1370) |
Maria di Sicilia (1377 – 1388) – dal
1381 con Pietro IV d’Aragona |
Luigi Federico conte di
Salona (1375 – 1381) |
Con Federico III il semplice,
re di Sicilia (Federico II di Atene), il
titolo passò definitivamente nelle mani del
sovrano di Sicilia.
La legislazione, di stampo
bizantino – francese, fu abolita e sostituita
con quella del Regno di Trinacria, così come
la lingua ufficiale, fino a quel momento il
francese ed il greco, divenne il catalano
(alcune fonti datano questo cambiamento al
1318).
Da quel momento,
effettivamente, non si può più parlare
dell’esistenza della Compagnia Catalana, visto
che le sue milizie furono inglobate in quelle
del Ducato.
Tuttavia, può essere ricordata,
come ultima campagna da loro condotta, quella
del 1318 – 19 con la quale conquistarono la
Tessaglia meridionale nonché la città di
Siderocastro, creando così il Ducato di
Neopatria. Il Duca di Atene ottenne così il
doppio titolo di Duca di Atene e di Neopatria.
Il dominio catalano sul ducato,
durò fino al 1388, quando il re d’Aragona e di
Trinacria (nel 1381 i regni erano stati uniti)
Pietro IV, lo vendette alla famiglia
fiorentina degli Acciaioli.
Bisogna tuttavia ricordare
come, nel corso dei decenni, il territorio in
mano catalana era andato via via diminuendo,
con la perdita della Tessaglia nel 1337 (ad
opera dei Serbi) e di gran parte del Ducato di
Neopatria nel 1379 (ad opera di mercenari
della Navarra). |