N. 145 - Gennaio 2020
(CLXXVI)
Nuovo anno, vecchio business
Il
commercio
di
armi
nel
2018
di
Gian
Marco
Boellisi
Si è
appena
concluso
il
2019
e,
come
è
solito
fare
in
queste
occasioni,
è
tempo
di
bilanci.
Lo è
nella
vita
quotidiana,
in
economia,
in
politica,
ovunque.
È
interessante
vedere
come
molte
cose
cambino
con
il
passare
del
tempo,
si
evolvano,
assumano
diverse
forme.
Altre
cose
invece
non
cambiano
mai.
Nel
contesto
internazionale
un
esempio
di
ciò
è
rappresentato
dal
commercio
internazionale
di
armi
e
armamenti,
in
costante
crescita
da
alcuni
decenni
a
questa
parte
e
senza
alcun
segnale
di
freno.
Anzi,
tutto
il
contrario.
Gli
innumerevoli
scenari
di
crisi
e
instabilità
globali,
le
minacce
asimmetriche
e le
svariate
guerre
di
procura
nel
mondo
hanno
portato
le
nazioni
a
rispondere
alla
crescente
insicurezza
con
l’unica
via
ai
loro
occhi
risolutiva,
ovvero
armarsi.
Sappiamo
benissimo
come
politiche
di
questo
tipo
nei
secoli
passati
abbiano
portato
a
conflitti
estremamente
sanguinosi,
di
cui
la
Prima
Guerra
Mondiale
è
l’esempio
più
eclatante
ma
di
certo
non
l’unico,
senza
che
però
ciò
abbia
insegnato
nulla
ai
governanti
succedutisi
nel
tempo.
Nonostante
dati
aggiornati
riguardanti
il
commercio
di
armi
siano
sempre
di
difficile
reperibilità,
è
interessante
analizzare
quanto
di
dominio
pubblico
per
comprendere
cosa
si
cela
dietro
questo
distruttivo
quanto
vitale
commercio
per
la
sopravvivenza
economica
e
strategica
degli
stati
moderni.
In
attesa
di
un
bilancio
dell’anno
appena
conclusosi,
la
nostra
analisi
si
baserà
su
uno
studio
sul
commercio
internazionale
di
armi
riferito
all’anno
2018
pubblicato
nel
dicembre
2019
dal
SIPRI,
ovvero
lo
Stockholm
International
Peace
Research
Institute
(Istituto
Internazionale
di
Ricerche
sulla
Pace
di
Stoccolma).
Questo
“think
tank”
è un
istituto
internazionale
indipendente
attivo
dal
1966
nel
monitoraggio
dei
conflitti,
del
traffico
legale
e
illegale
di
armi
e in
generale
sulle
politiche
di
disarmo
negli
scenari
di
crisi.
Il
lavoro
pubblicato
dal
SIPRI
raccoglie
le
prime
100
compagnie
al
mondo
per
produzione
di
armi
e ne
analizza
i
trend
e le
dinamiche.
È
importante
premettere
che
molte
di
queste
aziende
hanno
importanti
partecipazioni
statali,
quindi,
nonostante
esse
figurino
come
private,
sono
in
tutto
e
per
tutto
espressione
massima
della
politica
estera
dei
propri
stati
di
appartenenza.
Questa
classifica
raggruppa
società
provenienti
da
ogni
nazione
del
globo
a
esclusione
della
Cina,
della
quale
si
parlerà
più
avanti.
Nel
2018
le
vendite
di
armi
di
queste
100
compagnie
rappresentavano
un
volume
pari
a
420
miliardi
di
dollari,
registrando
un
aumento
del
4,6%
rispetto
al
2017.
Questo
importante
aumento
di
guadagni
è
dovuto
in
particolar
modo
alle
prime
5
classificate,
le
quali
hanno
tutte
sede
negli
Stati
Uniti
e
hanno
registrato
un
importante
incremento
tra
il
2017
e il
2018
a
seguito
delle
politiche
di
Washington
in
tema
di
armamenti.
Nel
mercato
delle
armi
esistono
dei
veri
e
propri
colossi
industriali,
rappresentati
dalle
prime
10
società
raggruppate
dalla
classifica
del
SIPRI.
Per
dare
un’idea
dei
volumi
di
affari
di
queste
10
società,
esse
hanno
dei
ricavi
pari
a
210
miliardi
di
dollari
su
un
totale
di
420
dell’intera
classifica.
In
pratica
il
monopolio
applicato
alla
guerra.
Come
accennato
in
precedenza,
tutte
queste
società
appartengono
ai
più
disparati
paesi.
Come
ci
si
può
aspettare,
il
primato
per
numero
va
agli
Stati
Uniti,
i
quali
detengono
43
compagnie
su
100.
Da
sole
esse
detengono
il
59%
del
mercato
delle
armi
e
della
guerra
nell’anno
2018,
a
testimonianza
del
fatto
che,
per
quanto
l’America
sia
un
egemone
in
declino,
essa
è
ben
lontana
dal
cedere
il
proprio
trono
di
paese
più
potente
al
mondo
ancora
per
svariati
anni
a
venire.
Fatturando
246
miliardi
di
dollari,
le
aziende
americane
hanno
aumentato
le
proprie
vendite
del
7,2%
rispetto
all’anno
precedente.
La
più
grande
tra
esse,
ovvero
la
celeberrima
Lockheed
Martin,
non
solo
è la
più
grande
compagnia
americana
ma è
anche
la
prima
venditrice
di
armi
e
armamenti
al
mondo.
Da
sola
la
Lockheed
costituisce
l’11%
delle
armi
vendute
nel
mondo
nel
2018,
con
una
crescita
del
5,2%
rispetto
all’anno
precedente.
Giusto
per
rendere
l’idea
di
quanto
sia
grande
questo
titano
degli
armamenti,
la
Lockheed
Martin
è la
prima
produttrice
di
armamenti
al
mondo
in
termini
di
guadagni
in
miliardi
di
dollari
dal
2009
a
oggi
senza
mai
essere
stata
scalzata
da
nessuno.
In
attività
sin
dagli
anni
della
Seconda
Guerra
Mondiale,
inaugurò
il
proprio
successo
proprio
durante
questo
conflitto
con
la
produzione
in
massa
con
aerei
di
grande
successo,
quali
i
P-38
Lightning.
Da
allora
la
Lockheed
ha
visto
una
costante
crescita
fino
ad
arrivare
alla
vetta
dell’industria
degli
armamenti
al
giorno
d’oggi.
Tra
le
cause
che
hanno
portato
a un
aumento
dei
guadagni
in
questi
anni
sicuramente
ha
inciso
in
maniera
significativa
l’aumento
degli
ordini
dei
caccia
bombardieri
stealth
F-35.
Questi,
nonostante
le
critiche
di
alcuni
paesi,
incluso
l’Italia,
risulta
essere
probabilmente
il
più
avanzato
velivolo
che
a
oggi
l’essere
umano
sia
mai
riuscito
a
far
librare
da
terra.
Il
Dipartimento
della
Difesa
statunitense
ha
dichiarato
che
l’aumento
generale
delle
spese
militari
delle
compagnie
americane
è
stato
necessario
come
contromisura
per
contrastare
i
propri
avversari
strategici
nel
globo,
ovvero
Cina
e
Russia.
Un’altra
causa
concomitante,
al
momento
di
peso
minoritario,
ma
negli
anni
di
certo
non
più,
è
stata
probabilmente
la
revisione
della
strategia
missilistica
statunitense
a
seguito
dello
scioglimento
del
trattato
INF,
ovvero
l’Intermediate-Range
Nuclear
Forces
Treaty.
Questo
trattato
è
stato
abbandonato
da
Stati
Uniti
e
Russia,
riportando
i
due
paesi
a
effettuare
grossi
investimenti
sui
missili
a
media
gittata.
Le
conseguenze
della
fine
di
questo
importante
trattato
al
momento
non
sono
percettibili
nel
contesto
internazionale,
ma
questa
situazione
di
equilibrio
instabile
per
certo
non
si
manterrà
a
lungo.
Dal
2017
in
poi,
gli
Stati
Uniti
hanno
iniziato
a
perseguire
una
politica
generale
di
ammodernamento
dei
propri
armamenti:
dalle
ricerche
per
adottare
un
nuovo
fucile
d’assalto
con
calibro
maggiore
alla
classica
cartuccia
5.56x45
mm
N.A.T.O.
agli
investimenti
in
ambito
missilistico,
dallo
sviluppo
di
componenti
Hi-Tech
oggigiorno
sempre
più
vitali
in
un
campo
di
battaglia
agli
studi
di
fattibilità
per
realizzare
un
nuovo
carro
armato
in
sostituzione
ai
vecchi
M1
Abrams.
Washington
è
ben
conscia
che
la
sua
posizione
in
ambito
internazionale,
se
vuole
essere
mantenuta,
è
fortemente
dipendente
dalla
componente
militare.
Qualora
questa
venisse
a
mancare,
o
anche
solo
si
indebolisse
rispetto
alla
forza
preponderante
che
ha
in
questo
momento,
le
conseguenze
politiche
per
gli
Stati
Uniti
sarebbero
difficilmente
quantificabili.
Questo
tipo
di
politica
da
parte
del
governo
ha
portato
i
grossi
colossi
dell’industria
bellica
a
muoversi
rapidamente.
Essi
infatti
hanno
letteralmente
fagocitato
molte
piccole
realtà
del
settore
pur
di
acquisire
il
più
vasto
know-how
possibile
nonché
la
più
grossa
fetta
di
mercato
prima
dei
competitor.
Tali
dinamiche
ci
portano
anche
a
dedurre
che
vi è
una
profonda
riorganizzazione
nelle
politiche
strategiche
di
Washington.
Basti
pensare
che
l’ultima
volta
che
si
assistette
a
sviluppi
simili
fu a
metà
degli
anni
’90,
poco
dopo
la
fine
della
Guerra
Fredda,
proprio
quando
gli
Stati
Uniti
cercarono
di
diventare
egemoni
dell’intero
contesto
internazionale,
fallendo
il
loro
progetto
solo
qualche
anno
più
tardi.
Passando
ora
dall’altro
lato
dell’oceano,
il
Vecchio
Continente
si
difende
egregiamente
quando
si
tratta
di
commercio
di
armi,
come
dimostrato
innumerevoli
volte
nel
corso
della
storia.
Tra
le
prime
100
società
d’armi,
27
sono
europee
con
guadagni
per
102
miliardi
di
dollari,
registrando
un
aumento
dello
0,7%
rispetto
al
2017
e
una
fetta
del
24%
del
commercio
di
armi
mondiale.
Di
queste
27
compagnie,
8
sono
inglesi,
6
francesi,
4
tedesche,
2
italiane,
1
polacca,
1
spagnola,
1
svedese,
1
svizzera
e 1
ucraina.
Le
ultime
2 da
enumerare,
ovvero
Airbus
Group
and
MBDA,
sono
considerate
trans-europee
poiché
aventi
sedi
in
più
paesi
dell’Unione
Europea.
Tra
tutti
gli
stati
europei,
è la
Gran
Bretagna
a
ritagliarsi
la
fetta
maggiore
di
mercato.
Le
vendite
inglesi
da
sole
registrano
guadagni
per
35,1
miliardi
di
dollari,
costituendo
l’8,4%
del
mercato
mondiale
di
armamenti.
Nonostante
questi
valori
siano
estremamente
alti
per
un
singolo
stato
come
la
Gran
Bretagna,
le
compagnie
inglesi
hanno
subito
un
calo
importante
nel
2018
rispetto
all’anno
precedente,
ricalcando
un
trend
generale
europeo.
La
Francia
è al
secondo
posto
in
Europa
e
raggiunge
i
23,1
miliardi
di
dollari,
soddisfacendo
da
sola
il
5,5%
del
mercato
mondiale.
Anch’essa
tuttavia
ha
subito
una
flessione
nel
corso
del
2018.
Stesso
destino
per
la
Germania,
la
quale
con
8,4
miliardi
rappresenta
il
2,0%
del
valore
mondiale
del
mercato.
Per
non
dimenticare
nessuno,
come
non
poter
parlare
dell’Italia,
all’apparenza
sempre
defilata
quando
si
parla
del
business
della
difesa,
ma
storicamente
tra
i
più
grossi
produttori
di
armi
nel
mondo.
Basti
pensare
che
la
celeberrima
Beretta,
compagnia
leader
nella
produzione
di
pistole
e
fucili
d’assalto
con
sede
a
Brescia,
è
l’azienda
di
armi
più
vecchia
nel
mondo.
Risale
infatti
al
1526
il
primo
contratto
in
cui
Mastro
Bartolomeo
Beretta
ricevette
una
commessa
per
185
canne
di
fucile
da
parte
della
Serenissima
Repubblica
di
Venezia.
L’industria
bellica
in
Italia
ha
registrato
guadagni
per
11,7
miliardi
di
dollari,
corrispondenti
al
2,8%
del
totale
del
mercato
globale.
Leonardo,
da
anni
fiore
all’occhiello
dell’industria
italiana
nel
mondo,
è
l’ottava
società
produttrice
di
armi
nel
mondo,
registrando
vendite
per
9,8
miliardi
nel
2018
con
un
aumento
del
4,4%
rispetto
al
2017.
La
seconda
società
italiana
tra
le
prime
100
è
Fincantieri,
la
quale
ha
registrato
un
fatturato
di
1,9
miliardi
di
dollari,
aumentato
rispetto
al
2017
dell’8%.
La
grandezza
di
questi
numeri
testimonia
ampiamente
quanto
gli
italiani
non
siano
solo
“pizza
e
mandolino”
agli
occhi
dei
nostri
partner
internazionali.
Nonostante
l’importanza
delle
cifre
finora
riportate,
i
veri
colossi
europei
degli
armamenti
sono
rappresenti
dalle
cosiddette
società
trans-europee,
le
quali
insieme
hanno
avuto
ricavi
per
15,5
miliardi
nel
2018.
La
prima
è
Airbus
Group,
compagnia
classificatasi
settima
tra
100,
la
quale
ha
venduto
armamenti
e
tecnologie
militari
per
11,7
miliardi,
il
9%
in
più
rispetto
al
2017.
Questo
importante
incremento
è
stato
dovuto
per
lo
più
alla
vendita
di
svariati
elicotteri
da
guerra
e di
aerei
da
trasporto
A400M.
La
seconda
invece
è
MBDA,
la
quale
è
impegnata
prevalentemente
nella
produzione
di
missili.
Questa
compagnia
ha
avuto
guadagni
per
3,8
miliardi
di
dollari,
il
4,4%
in
più
rispetto
al
2017.
Spostandoci
ancora
più
a
est
incontriamo
la
Russia,
la
quale
risulta
essere
un
contesto
che
merita
di
essere
trattato
a
parte
proprio
come
gli
Stati
Uniti.
Tra
le
100
maggiori
compagnie
di
produzione
di
armi,
10
sono
russe
con
un
volume
di
ricavi
totale
di
36,2
miliardi
di
dollari,
in
leggera
flessione
del
0,4%
rispetto
al
2017.
Con
queste
cifre
la
Russia
costituisce
da
sola
l’8,6%
del
fabbisogno
mondiale
di
armamenti.
Per
quanto
le
cifre
siano
elevate,
non
sono
neanche
lontanamente
comparabili
con
quelle
degli
Stati
Uniti,
sia
in
termini
qualitativi
che
quantitativi.
Basti
pensare
che
tra
le
prime
10
società
al
mondo
ve
ne è
solamente
una
russa.
Già
solo
questo
dato
ci
porta
a
capire
quanto
la
vera
competizione
odierna
nello
scenario
internazionale
non
sia
più
tra
Mosca
e
Washington,
come
invece
siamo
ogni
tanto
indotti
a
pensare,
ma
si
sia
spostata
verso
altri
epicentri.
Per
quanto
ridotto
enormemente
dopo
la
fine
della
Guerra
Fredda,
l’apparato
industriale
russo
rimane
ancora
oggi
uno
dei
maggiori
al
mondo,
specialmente
quello
orientato
verso
le
tecnologie
belliche.
Questo
retaggio,
insieme
ad
alcune
politiche
dell’amministrazione
Putin
degli
ultimi
anni,
fanno
sì
che
la
Russia
risulti
essere
il
secondo
esportatore
di
armi
al
mondo
subito
dietro
gli
Stati
Uniti.
In
generale
si
può
notare
un
forte
trend
crescente
nell’export
della
difesa
russo
nel
periodo
che
va
dal
2009
al
2018.
Ciò
prevalentemente
a
causa
del
piano
di
ammodernamento
delle
forze
armate
russe
previsto
nell’intervallo
di
tempo
2001-2020,
il
quale
si
traduce
in
una
forte
richiesta
interna
di
armamenti,
e in
misura
minore
anche
all’export
verso
compratori
esteri.
Nonostante
i
rosei
propositi,
questo
progetto
ventennale
ha
dovuto
subire
dei
forti
ritardi
dal
2014
in
avanti
a
causa
delle
sanzioni
internazionali
contro
la
Russia
a
seguito
dell’annessione
della
Crimea.
Ciò
ha
portato
a
una
riduzione
generale
dei
budget
d’investimento,
causando
anche
ritardi
nella
produzione
di
alcuni
componenti
che
altrimenti
sarebbero
già
da
tempo
in
dotazione
diffusa
a
tutto
l’esercito
russo
o
anche
nella
semplice
manutenzione
di
asset
ormai
datati
(un
esempio
fra
tutti
la
portaerei
Admiral
Kuznetsov).
Tra
le
10
società
russe
classificate
tra
le
prime
100,
Almaz-Antey
è la
maggiore.
Essa
ricopre
la
nona
posizione
all’interno
della
classifica,
con
guadagni
pari
a
9,6
miliardi
di
dollari
nel
2018
e un
incremento
degli
utili
del
18%
rispetto
al
2017.
Questo
vertiginoso
consolidamento
è
spiegabile
sicuramente
con
un
aumento
della
domanda
interna
russa
di
armamenti
di
nuova
generazione,
ma
anche
con
un
contributo
importante
da
parte
dell’export.
In
particolare,
la
vendita
dei
sistemi
missilistici
terra-aria
S-400
ha
un
grande
peso
all’interno
della
società.
Per
dare
un’idea
della
crescita
esponenziale
che
ha
avuto
questa
importante
compagnia,
dal
2009
al
2018
Almaz-Antey
è
passata
dal
24°
al
9°
posto
nella
classifica
delle
prime
100
società
al
mondo,
aumentando
ogni
anno
sempre
maggiormente
i
propri
guadagni.
È
però
doveroso
ricordare
che
tutte
le
compagnie
russe
presenti
nella
lista
sono
di
proprietà
esclusiva
dello
stato
e
perciò
risultano
essere
dipendenti
dalle
politiche
del
Cremlino,
sia
per
quanto
riguarda
il
fabbisogno
dell’esercito
russo
stesso
di
armi
sia
per
quanto
riguarda
i
contratti
esteri
verso
gli
alleati
della
Russia.
Inutile
dirlo,
questo
risulta
essere
un
fattore
di
intrinseca
debolezza
da
parte
del
settore
della
difesa
russo,
motivo
per
cui
il
governo
sta
tentando
da
alcuni
anni
a
questa
parte
di
differenziare
la
produzione
bellica
delle
industrie,
cercando
di
coinvolgerle
attivamente
anche
nel
settore
civile.
Un
caso
a
parte
nella
nostra
analisi
è
costituito
dalla
Cina,
la
quale
non
presenta
alcuna
società
tra
le
100
compagnie
produttrici
di
armi
classificate
dal
SIPRI.
Ciò
tuttavia
non
perché
la
Repubblica
Popolare
non
sia
una
produttrice
di
armi,
ma
perché
non
vi
sono
dati
sufficienti
affinché
si
possa
fare
una
stima
delle
vendite
di
armamenti
da
parte
delle
società
di
Pechino.
Questo
delinea
una
precisa
strategia
del
governo
cinese
di
non
rendere
pubblica
la
propria
capacità
produttiva
militare
e
quindi
il
suo
potenziale
effettivo.
Grande
o
piccolo
che
questo
sia,
è
sicuramente
una
mossa
scaltra
da
parte
della
Cina
poiché
qui
tutte
le
aziende
sono
di
proprietà
dello
stato.
Quindi
sapere
la
capacità
di
produzione
di
armi
delle
società
cinesi
equivale
a
conoscere
le
capacità
reali
di
Pechino.
Nonostante
questa
assenza
di
informazioni,
si
possono
effettuare
delle
stime
su 3
compagnie
di
armamenti
cinesi
in
particolare,
che
risulterebbero
tra
le
più
grandi
esistenti
al
mondo.
Tutte
e 3
queste
società
infatti
rientrerebbero
facilmente
tra
le
prime
10
al
mondo
per
produzione
di
armamenti.
Esse
sono
AVIC,
NORINCO
e
CETC.
Almeno
altre
7
società
cinesi
rientrerebbero
probabilmente
tra
le
prime
100
società
al
mondo
di
produzione
di
armi,
tuttavia
essendo
i
dati
in
merito
insufficienti
è
impossibile
stabilirlo
con
certezza.
Per
quanto
riguarda
il
resto
del
mondo,
alcuni
altri
grandi
produttori
di
armi
sono
Giappone,
Israele,
India,
Sud
Corea
e
anche
Turchia.
Escludendo
dai
conti
Stati
Uniti,
Russia
ed
Europa,
le
vendite
di
armi
da
parte
degli
altri
attori
globali
ammontano
a
36,2
miliardi
di
dollari,
rappresentando
l’8,6%
del
commercio
mondiale.
Da
questo
semplice
dato
si
può
dedurre
come
i
“big
players”
nel
campo
degli
armamenti
siano
anche
i
principali
attori
della
scena
politica
internazionale.
Seguire
il
flusso
di
armi
ormai
equivale
a
osservare
i
veri
interessi
politici
e
strategici
degli
stati
moderni,
motivo
per
il
quale
non
sempre
vi è
chiarezza
dei
dati
a
riguardo.
In
generale
il
trend
che
si
evince
da
questa
lunga
analisi
è
che
il
commercio
di
armi
a
livello
mondiale
è in
costante
crescita.
Alcuni
stati
più
di
altri
stanno
osservando
un’importante
e
costante
sviluppo
in
questo
settore,
soprattutto
in
virtù
di
determinate
scelte
politiche
avvenute
negli
ultimi
20
anni.
Basti
pensare
che
delle
100
società
considerate
in
questo
studio,
70
sono
situate
tra
Stati
Uniti
ed
Europa,
pesando
per
un
83%
del
totale
commercio
di
armi
mondiale.
I
ricavi
sono
enormi,
pari
a
348
miliardi
di
dollari,
il
5,2%
in
più
rispetto
al
2017.
La
cosa
interessante
è
che,
indipendentemente
dallo
schieramento
politico
delle
amministrazioni
che
si
susseguono
negli
anni
all’interno
dei
vari
paesi,
la
tendenza
di
tutti
i
grandi
attori
internazionali
è
quella
di
investire
sempre
maggiori
risorse
negli
armamenti
e
nella
tecnologia
militare
in
generale,
sia
per
esercitare
una
certa
deterrenza
nei
confronti
dei
propri
competitor
sia
per
ottenere
un
vantaggio
preponderante
in
zone
di
crisi
e
conflitto
ove
le
proprie
forze
nazionali
o
quelle
supportate
indirettamente
sono
coinvolte.
L’unica
nota
in
controtendenza
è
rappresentata
dalla
Cina,
la
quale
non
vuole
far
trapelare
dati
riguardo
alle
proprie
capacità
reali
in
modo
da
non
scoprire
le
proprie
carte
prima
del
tempo.
Essendo
Pechino
impegnata
nel
raggiungere
importanti
traguardi
sia
sul
fronte
interno
che
su
quello
estero,
questo
tipo
di
movimento
rispecchia
perfettamente
il
modus
operandi
discreto,
silenzioso
ma
allo
stesso
tempo
inarrestabile
del
dragone
cinese.
Un
altro
andamento
estremamente
interessante
che
si
può
notare
è la
leggera
flessione
delle
aziende
con
sede
in
Europa.
A
parte
l’italiana
Leonardo
che
costituisce
nel
mondo
un
vero
e
proprio
colosso
tecnologico,
in
generale
le
compagnie
europee
hanno
registrato
una
diminuzione
dei
propri
guadagni
a
favore
invece
dei
propri
competitor
esteri.
Questo
è un
interessante
parallelismo
con
lo
scenario
politico
globale.
Infatti
l’Europa
risulta
sempre
meno
protagonista
a
livello
internazionale
rispetto
ad
altri
attori,
quali
Russia,
Cina
e
Stati
Uniti.
A
detta
di
molti
studiosi
infatti
la
vicenda
portante
del
Novecento
è
stata
la
fine
della
centralità
dell’Europa
all’interno
del
contesto
internazionale,
e in
questi
20
anni
del
nuovo
secolo
ne
abbiamo
avuto
sempre
più
la
prova.
Nonostante
queste
considerazioni,
la
conclusione
principale
che
può
essere
tratta
da
quest’analisi
è
che
la
guerra
risulta
essere
uno
tra
i
business
più
proficui
esistenti
oggi
sul
pianeta
e le
nazioni
tutte
ne
sono
pienamente
consce.
Per
quanto
siamo
abituati
a
vedere
sempre
più
spesso
le
immagini
strazianti
dei
conflitti
in
giro
per
il
mondo,
ciò
che
spesso
dimentichiamo
è
che
svariati
attori
internazionali
sono
più
che
interessati
a
mantenere
questo
status
quo
di
costante
tensione.
Considerando
che
questa
analisi
non
ha
minimamente
tenuto
conto
del
traffico
illegale
di
armi,
vera
e
propria
economia
ombra
nascosta
agli
occhi
di
tutti,
possiamo
solo
immaginare
quanto
questi
traffici
influenzino
le
nostre
vite
direttamente
e
indirettamente.
Fiumi
di
parole
vengono
spese
tutti
i
giorni
dalle
grandi
potenze
per
limitare
le
violenze
in
questa
piuttosto
che
quell’altra
area
del
mondo.
Tuttavia
è
doveroso
ricordare
che
i 5
membri
permanenti
del
Consiglio
di
Sicurezza
dell’ONU,
che
teoricamente
dovrebbero
essere
gli
stati
impegnati
in
prima
linea
per
il
mantenimento
della
pace
nel
globo,
sono
anche
i 5
stati
maggior
produttori
ed
esportatori
di
armi
al
mondo.
Per
loro
la
guerra
non
è
una
tragedia
da
scongiurare,
ma
solo
un
business
da
alimentare,
rendendo
quanto
mai
attuale
e
sfruttando
a
proprio
vantaggio
l’antico
detto
romano
“si
vis
pacem,
para
bellum”.