N. 73 - Gennaio 2014
(CIV)
TRENT’ANNI DOPO
DA COMISO A NISCEMI
di Giuseppe Tramontana
Quella
fu
la
mia
prima
uscita
pubblica.
Cioè
la
mia
prima
manifestazione.
E fu
indimenticabile.
A
dire
il
vero,
non
volevo
nemmeno
andarci.
Fu
l’insistenza
di
Olga
a
farmi
cedere
e a
convincermi
ad
andare
a
Comiso
dove,
si
diceva,
da
giugno
erano
stati
installati
i
missili
Cruise.
Cruise:
già
il
nome
mi
pareva
qualcosa
di
ostico,
insidioso,
con
quel
“Cru”
che
ostacolava,
trasmetteva
durezza,
opacità,
e
quel
“ise”
che
sibilava,
si
insinuava
subdolo,
traditore
come
un
serpente
velenoso.
Insomma
fu
per
Olga
che
ci
andai.
Era
carina,
Olga,
con
i
suoi
occhialetti
da
intellettuale,
la
figura
minuta,
il
suo
eloquio
pulito
e la
sua
argomentazione
intelligente.
Non
era
di
una
bellezza
travolgente,
ma
mi
incuriosiva;
se
non
affascinarmi,
mi
solleticava.
Anche
perché,
diciamo
la
verità,
eroi
alquanto
a
stecchetto.
Avevo
15
anni,
ero
praticamente
confinato
nel
mio
paesello
natio,
Francofonte,
distante
una
quindicina
di
chilometri
da
Lentini,
sede
del
Liceo
che
frequentavo.
Tutti
i
miei
compagni
e
compagne
di
scuola
erano
dei
paesini
intorno.
Il
grosso
veniva
da
Carlentini,
seguivano
per
numero
i
lentinesi
e
infine
qualcuno
di
Villasmundo.
Io
ero
il
solo
di
Francofonte.
O
meglio,
c’era
una
ragazza,
francofontese
pure
lei,
una
ripetente,
che
non
parlava
mai
–
nemmeno
quando
era
interrogata,
nemmeno
sotto
tortura
– e
che
ricordo
schiva
e
‘retrattile’:
appena
l’avvicinavi
si
ritraeva,
scompariva
alla
vista.
Letteralmente.
Come
una
lumaca
o
una
testuggine.
Non
mi
viene
in
mente
il
suo
nome.
Era
piccolina,
i
capelli
scuri,
gli
occhi
a
palla.
Sarebbe
stata
bocciata
alla
fine
dell’anno
e
non
si
sarebbe
più
iscritta
al
Liceo.
Per
me,
all’epoca,
Lentini,
come
dicevo,
era
a
una
distanza
siderale.
Avevo
solo
con
una
vespina
50
malandata
–
cioè
"benandata":
era
rimasta
come
era
uscita
dalla
fabbrica,
senza
revisioni
o
trucchi,
e
quindi
lentissima
-
con
la
quale
avevo
paura
persino
a
percorrere
la
salita
dell’Oliveto,
in
paese,
figurarsi
avventurarmi
per
la
trafficatissima
Statale
194
Catania-Ragusa,
per
tutti
i
francofontesi
“‘a
strata
di
Lintini”!
Il
giorno
della
manifestazione
a
Comiso,
passarono
a
prendermi
presto.
C’era
un
pullman
e
alcune
auto.
Io
attesi
fin
dalle
sette
di
mattina
alla
rotonda,
quella
grande,
che
annoda
Via
On.
Sebastiano
Franco
e
Via
Emanuele
Filiberto.
Giunsero
dopo
un’oretta.
Mi
caricarono
e...
vamos.
Speravo
che
Olga
mi
avesse
conservato
un
posto
accanto
a
sé,
ma
lei
in
pullman
non
c’era
neppure.
Era
in
una
delle
auto,
insieme
ad
altri
ragazzi
della
FGCI.
Lungo
la
strada,
tra
canti
pacifisti
e
qualche
voluta
di
fumo
che
sui
alzava
dai
sedili
in
fondo,
il
caldo
aumentava.
Arrivammo
a
Comiso
che
erano
quasi
le
dieci.
Smontammo.
Ero
incuriosito,
ma
anche
terribilmente
spaesato.
Lì
attorno
c’era
gente
di
tutte
le
età.
Bambini,
ragazzi,
ragazze,
quarantenni,
persino
anziani.
Alcuni,
riuniti
in
gruppetti
chiacchieravano,
fumavano,
si
confrontavano.
Altri
leggevano
il
giornale
- di
alcuni
non
avevo
mai
sentito
parlare!
-
altri
ancora
–
tanti
–
distribuivano
volantini,
sistemavano
bandiere
arcobaleno,
della FGCI,
del
PCI,
di
Democrazia
Proletaria…
C’erano
pacifisti,
giunti
da
ogni
parte
d’Italia.
E
non
solo.
C’erano
tedeschi,
francesi,
spagnoli,
greci,
svedesi,
un
tipo
vestito
da
monaco
buddista
che
picchettava
a
ritmi
regolari,
narcotici,
su
tamburello
orientale.
Tutti
per
fare
blocco
davanti
al
cancello
dell’aeroporto
del
Magliocco.
Tra
loro,
avrei
scoperto,
obiettori
di
coscienza
e
pacifisti
storici,
anziani
partigiani
che
avevano
fatto
la
Resistenza,
ex
sessantottini,
ex
settantasettini,
autonomisti,
antagonisti,
compagni
di
strada
e di
partito,
marxisti-leninisti
e
anarchici,
i
trotzkisti
della
Quarta
Internazionale
e i
cattolici
dei
vari
gruppi
ecumenici
e
dialoganti.
C’erano
le
donne,
poi.
Molte
giovanissime,
con
strane
giacche
e
leggeri
vestiti
indiani
di
cotone,
coloratissimi.
Per
la
prima
volta
vidi
di
persona
quella
sorta
di
scialle
a
quadrettoni
bianchi
e
neri
che
chiavano
kefiah,
che
io
avevo
visto
solo
in
televisione,
di
tanto
in
tanto,
quando
parlavano
di
cose
del
mondo
arabo.
Solo
che
lì,
in
tivù,
mi
ricordavo,
erano
usati
come
copricapo,
qui,
in
tutto
o in
parte
ripiegate,
come
foulards
sulle
spalle.
Fu
Carmelo,
un
ragazzo
della
FGCI,
di
un
anno
più
grande
di
me,
che
frequentava
il
mio
stesso
Liceo
che,
mentre
guardavo
incuriosito
quelle
ragazze
allegre
e
indaffarate,
mi
venne
alle
spalle
e mi
raccontò
di
come
quelle
giovani
donne,
qualche
giorno
prima
o,
addirittura
proprio
il
giorno
prima,
avessero
bloccato
i
camion
che
trasportavano
i
missili,
infilandocisi
sotto,
fra
ruota
e
ruota.
E
così
i
Cruise
non
erano
entrati
nella
base.
Alcune
di
loro,
poi,
continuava
Carmelo,
avevano
usato
un
modo
originale
per
contrapporsi
pacificamente
alle
forze
dell’ordine
poliziotti:
davanti
alla
base,
avevano
srotolato
enormi
gomitoli
di
lana
colorata
e,
facendo
il
girotondo,
avevano
‘legato’
se
stesse
ed i
poliziotti
al
cancello
della
base:
ne
era
nata
una
“ragnatela”
colorata,
che
avevano
ribattezzato
pace.
E di
poliziotti
ce
n’erano
poliziotti
ce
n’erano
tantissimi
anche
quel
giorno.
Tantissimi...
Schierati,
come
un
muro
umano,
come
gli
Spartani
di
Leonida
alle
Termopili,
a
protezione
del
cancello,
con
i
pacifisti
accovacciati
a
semicerchio,
per
terra,
davanti
a
loro.
Sul
muro
sovrastato
dal
filo
spinato,
dietro
una
lunghissima
fila
di
eucalipti,
era
stato
issato
un
enorme
striscione:
“Vogliamo
vivere,
vogliamo
amare,
diciamo
no
alla
guerra
nucleare”,
c’era
scritto.
Io,
da
parte
mia,
non
sapevo
bene
come
stavano
le
cose,
ma
volevo
saperne
di
più.
Scoprii
(ma
di
alcune
cose,
di
quelle,almeno
sentite,
seppur
di
sfuggita
al
telegiornale)
che
quella
manifestazione
era
stata
preceduta
da
polemiche
e
contrapposizioni.
Che
la
Dc,
il
Psi
di
Craxi
e i
partiti
laici
minori
(in
particolare
il
Partito
repubblicano
di
Spadolini)
si
erano
schierati
compatti
a
difesa
delle
decisioni
del
governo
e
della
fedele
alleanza
con
gli
USA.
Il
Pci
e la
FGCI
siciliani
–
questo
me
lo
disse
Olga,
sulla
via
del
ritorno,
giacché
il
ritorno
lo
facemmo
insieme,
sul
pullman,
a
contato
di
gomito
-
avevano
aderito
alla
protesta
anti-nucleare,
(non
mi
disse
-
forse
perché
non
lo
sapeva
nemmeno
lei
-
che
da
Roma
era
arrivato
l’ordine
fare
tutto
con
calma
e di
non
esporsi
eccessivamente).
A
margine,
poi,
mi
raccontava
sempre
Olga,
facendo
saettare
i
suoi
occhi
vividi
dietro
le
lenti
rotonde,
c’era
la
questione
dei
comisani,
molti
dei
quali
erano
favorevoli
all’apertura
della
base
perché,
così,
sarebbero
arrivati
anche
gli
americani
con
i
loro
dollari
da
spendere.
Cosa,
che,
a
dire
il
vero,
si
rivelerà
errata:
gli
americani
si
costruiranno
tutto,
dalle
botteghe
di
barbiere
ai
negozi
–
dentro
la
base
e di
dollari
i
comisani
ne
vedranno
circolare
ben
pochi.
D’altra
parte,
mi
informava
sempre
Olga,
c’erano
molte
preoccupazioni
da
parte
del
movimento
antimafia:
l’arrivo
di
un
fiume
di
denaro
per
la
costruzione
della
base
aveva
attirato
continuava
ad
attirare
la
criminalità
organizzata,
come
le
mosche
al
miele.
E
già
il
segretario
regionale
del
PCI,
Pio
La
Torre
(era
la
prima
volta
che
sentivo
quel
nome)
aveva
pagato
con
la
vita.
Tra
gli
uomini
delle
istituzioni,
solo
Sandro
Pertini,
se
ben
ricordo,
aveva
appoggiato
il
movimento.
Berlinguer,
invece,
aveva
fatto
notare
che
forse
sarebbe
stato
opportuno
non
far
arrivare
i
missili
a
ridosso
degli
anniversari
di
Hiroshima
e
Nagasaki.
In
ogni
caso,
quel
giorno,fino
ad
un
certo
punto,
filò
tutto
liscio.
Nel
pomeriggio,
però,
quando
noi
eravamo
sul
punto
di
rimetterci
in
marcia
per
il
ritorno,
accadde
qualcosa
di
strano,
incomprensibile.
La
manifestazione
si
stava
svolgendo
in
modo
non
solo
pacifico,
ma
gioioso,
stimolante
persino,
con
dibattiti
e
discussioni
che
mettevano
a
confronto
sindacalisti
lombardi
e
disoccupati
calabresi,
pacifisti
tedeschi
e
anarchici
catanesi,
autonomi
veneti
e
trotzkisti
francesi.
Ad
un
certo
punto,
però,
accadde
qualcosa.
Un
gruppo
di
ragazzi
cominciarono
ad
urlare,
lanciando
improperi
ed
insulti
contro
i
politici.
Alcuni
agenti
–
così
mi
dissero
-
impauriti
da
quella
aggressività
– ma
solo
verbale,
eh
-,
caricarono.
I
militari
davanti
al
cancello,
ad
effetto
domino,
si
avventarono
contro
altri
ragazzi,
che
non
ebbero
neppure
il
tempo
di
scappare.
Circondati,
furono
oggetto
di
manganellate,
calci,
pugni.
Dapprima
si
udirono
urla
e
lamenti,
poi
si
alzò
un
grande
polverone.
Alcuni
finalmente
tagliarono
la
corda
verso
i
campi,
mentre
piovevano
i
primi
lacrimogeni
sparati
dalle
forze
dell’ordine.
Poi
si
scatenò
una
sorta
di
caccia
all’uomo,
con
i
militi,
inviperiti,
che
inseguirono
i
ragazzi
e le
ragazze
che,
nel
tentativo
di
sottrarsi
alla
carica,
investivano
e
coinvolgevano,
loro
malgrado,
anche
quelli,come
noi,
che
non
eravamo
in
prima
fila.
Non
solo,
vennero
risucchiati
e
colpiti
anche
quei
medici,
infermieri,
preti,
giornalisti
che
stavano
tentando
di
placare
gli
animi
ed
evitare
nuova
violenza.
Alla
fine
della
giornata,
lessi
successivamente,
i
fermati
furono
una
ventina
ed
un
centinaio
i
feriti,
di
cui
alcuni
abbastanza
seriamente.
Tornai
a
casa
felice,
galvanizzato.
Avevo
davvero
la
sensazione
di
aver
vissuto
qualcosa
di
importante.
Magari
di
storico
no,
ma
qualcosa
che
valeva
la
pena
raccontare
sì.
Ero
sudatissimo,
puzzavo
di
sudore
e
polvere
come
un
minatore
cileno,
la
maglietta,un
tempo
bianca,
diventata
ormai
color
pozzanghera,
il
colletto
slabbrato,
una
manica
lacerata
sotto
l’ascella,
una
scarpa
sfondata.
I
jeans
luridi,
ma
con
una
scritta
appena
sopra
al
ginocchio:
“felice
perché
sei
venuto
–
Comiso,
8/8/83.
Olga”.
Me
l’aveva
vergata
lei,
Olga,
sul
bus,
con
una
bic
nera.
Felice
lei
e
felice
io.
Ma,
tra
noi,
non
successe
altro.
Almeno
quel
giorno.
Ma
questa
è
un’altra
storia.
Oggi,
a
trent’anni
esatti
di
distanza,
siamo
ancora
qui,
ad
affrontare
gli
americani
e i
governi
italiani
compiacenti.
Oggi,
la
manifestazione
è a
Niscemi,
27
mila
e
rotti
abitanti
in
provincia
di
Caltanissetta,
dove
è in
piena
costruzione
il
MUOS,
acronimo
da
cartone
animato
che
sta
per
Mobile User
Object
System.
In
soldoni,
due
torri
radar
alte
149
metri,
munite
di
parabole
e
sensori,
in
collegamento
con
i
satelliti
statunitensi
che
informeranno
l’esercito
a
stelle
e
strisce
in
tempo
reale
con
immagini,
suoni,
messaggi,
files,
ecc…
La
guerra
è
guerra.
E la
Sicilia
è il
luogo
ideale
per,
se
non
altro,
condurla.
Come
quello
di
Niscemi
ce
ne
sono
solo
altri
tre
in
tutto
il
mondo:
uno
alle
Hawaii,
uno
in
Virginia
e
uno
in
Australia.
Sono
quattro
quanto
i
quarti
del
pianeta
da
controllare.
Quello
che
si
presenta
davanti
al
visitatore
–
dicono
– è
un
paesaggio
da
incubo.
La
collina
stuprata,
sventrata.
Voragini
ampie
come
crateri
di
un
vulcano.
Il
terreno
lacerato
dal
transito
dei
mezzi
pesanti,
ruspe,
betoniere,
camion.
Recinzioni
di
filo
spinato,
tralicci
di
acciaio.
Una
selva
di
antenne.
E
poi
ancora
antenne
ed
antenne.
Terrazzamenti,
gli
uni
sugli
altri,
per
centinaia
e
centinaia
di
metri.
In
cima,
tre
piattaforme
in
cemento
armato.
E un
primo
blocco
di
casermette,
container
in
alluminio
e i
box
per
i
generatori
di
potenza.
Il
tutto
all’interno
di
una
zona
ambientale
protetta:
la
riserva
naturale
“Sughereta”
di
Niscemi.
Scempi
che
richiamano
scempi,
sconquassamenti
a
sconquassamenti,
l’elogio
della
follia
della
guerra,
l’estrema
profanazione
del
paesaggio
e
dell’ambiente.
Oltre
che
della
dignità.
Ma i
niscemesi,
e
tutti
i
siciliani
della
zona
Sud-orientale,
non
vogliono
saperne
di
radar
e
compagnia
bella.
Perché?
A
parte
il
fatto, come
abbiamo
detto,
che
l’impianto
sta
sorgendo
nel
bel
mezzo
di
una
zona
protetta,
i
cittadini
hanno
paura
di
alcune
cosette.
Che
vanno
sotto
il
nome
di
radiazioni
elettromagnetiche.
Pare
che
provochino
un
surriscaldamento
delle
cellule
con
gravi
danni
per
il
sistema
linfatico
e
sanguigno.
Insomma,
possibili
tumori
e
leucemie.
I
più
esposti
sarebbero,
poi,
i
maschi
poiché
gli
organi
più
colpiti
risulterebbero
i
testicoli.
E,
fatti
fuori
quelli,
si
sa,
fatte
fuori
le
generazioni
future.
Oggi,
a
ben
guardare
il
pericolo,appare
molto
più
reale
e
concreto
che
trent’anni
fa,
quando
il
pericolo
c’era,
ma
era
come
qualcosa
di
più
eventuale,
più
lontano.
Ora
non
si
ha
paura
dello
scoppio
(sempre
eventuale)
di
una
guerra
nucleare,
non
di
un
ipotetico
attacco
nemico
(e
infatti
non
ci
furono:
né
l’attacco
né
la
guerra),
ma
di
una
cosa
molto
più
semplice:
della
messa
in
funzione
delle
antenne.
Appena
entrano
in
attività,
emetteranno
le
radiazioni
elettromagnetiche.
Senza
nessuna
ipoteticità
o
eventualità
a
cui
essere
subordinate.
Sarà
così,
punto
e
basta.
Purtroppo,
alla
manifestazione
tenutasi
a
Niscemi
qualche
tempo
fa
non
ho
potuto
esserci,
invischiato
come
sono
nella
calura
e
tra
le
necessità
famigliari
padovane.
Avrei
voluto
essere
a
Niscemi,
insieme
ai
miei
amici
siciliani,
a
quelli
che
ancora
ci
sperano,
in
un
mondo
di
pace
e
convivenza
tra
popoli
e
culture.
E,
chissà?,
magari,
a
distanza
di
tanti
anni,
avrei
potuto
rivedere
Olga.
L’avrei
riconosciuta?
Mi
piace
pensare
di
sì.
Entrambi
più
vecchi
di
trent’anni,
entrambi
con
figli,
ma
con
ancora
la
voglia
di
esporci
e di
batterci
per
qualcosa
di
grande,
di
enorme,
che
può
essere
fermato
solo
dalla
nostra
determinazione
e
dal
nostro
ideale.
Avremmo
ricordato
i
vecchi
tempi,
l’acerbo
periodo
passato
insieme,
le
risate
e le
preoccupazioni
per
le
interrogazioni,
i
sogni
e le
scazzature
politiche
(lei
restò
alla
FGCI,
io
mi
iscrissi
a
DP).
E mi
sarei
fatto
scrivere
“felice
per
averti
rivisto.
Niscemi,
9/8/2013.
NO MUOS”.
Ma
non
sui
jeans:
questa
volta
sarei
andato
in
bermuda!