LA PRIGIONE DEI VINTI
SUL CAMPO DI CONCENTRAMENTO
DI COLTANO
di Marco
Fossati
Tra l’8 e il 9 luglio 1943 le truppe
angloamericane sbarcano in Sicilia.
Inizia, nell’ambito della Seconda
Guerra Mondiale, la cosiddetta
“campagna d’Italia” che ha come
obiettivo l’occupazione della
Penisola. Lo sbarco contribuisce in
modo essenziale alla caduta del
governo di Benito Mussolini, alla
dissoluzione del regime fascista (25
luglio) e, soprattutto, alla
successiva resa italiana. Eventi che
determinano l’inizio di un periodo
estremamente confuso e drammatico
per l’Italia.
Il re e il nuovo capo del governo il
maresciallo Pietro Badoglio, dopo
l’annuncio dell’armistizio (8
settembre), fuggono nelle regioni
meridionali, già occupate dagli
angloamericani, proclamando la
continuità dello Stato italiano e
ricevendo, in un secondo tempo,
anche l’appoggio di tutti i partiti
antifascisti che si erano
ricostituiti nel Comitato di
Liberazione Nazionale. Di fatto si
forma una nuova entità politica (a
livello storico spesso denominata
Regno del Sud) sebbene con una
sovranità concessa e molto limitata,
dagli anglo americani. Il Governo
dell’Italia meridionale quindi,
dichiara formalmente guerra al
vecchio alleato, la Germania e
rientra nel conflitto al fianco
degli eserciti angloamericani a cui
si era appena arreso (mediante
l’inedita formula della
cobelligeranza).
Il Centro-nord Italia è invece
velocemente occupato dall’esercito
tedesco e, con la liberazione di
Benito Mussolini (agli arresti da
luglio), si costituisce la
Repubblica Sociale Italiana (RSI),
il cui governo risiederà a Salò.
Anche qui una nuova entità politica
nella quale il regime fascista cerca
di ricostruirsi e recuperare le idee
delle origini; in realtà diventerà
poco più che uno stato fantoccio
controllato dai tedeschi, al cui
fianco proseguirà la guerra.
Tutto ciò comporta che nelle regioni
centro-settentrionali del Paese,
si
organizzi
e si diffonda un
movimento
di opposizione al rinnovato regime e
all’occupante tedesco, ovvero la
Resistenza, nello stesso
momento in cui
la RSI andava assumendo
una propria struttura istituzionale.
«La
credibilità di un’istituzione
statale in tempo di guerra dipende
dalla disponibilità di una forza
armata efficiente e combattiva»,
inoltre, «un vero esercito
permetterebbe di riacquistare un
ruolo militare all’interno
dell’alleanza e di riscattare agli
occhi dell’alleato il tradimento del
re e di Badoglio» (Oliva
2023). Su queste basi viene
avviata
la
creazione delle forze armate
repubblicane. I bandi di
arruolamento (8
e 9 novembre), chiamano alle armi le
classi del 1924 e 1925 mentre un
ulteriore bando, in cui sono
richiamate anche le classi 1922,
1923 e dove è prevista la pena di
morte per renitenti e disertori,
viene emanato nel febbraio del 1944.
Prende così forma un esercito di
leva che affianca le numerose
milizie di volontari legate al
Partito fascista. Si stima che
complessivamente le forze armate
repubblicane ammontassero a oltre
mezzo milione di effettivi. Benché
non fossero forze trascurabili non
incontrarono i favori dell’alleato
germanico.
Le
autorità militari tedesche, che ne
avevano di fatto il comando, erano
piuttosto diffidenti circa la
ricomposizione di un vero e proprio
esercito italiano; pesava
l’impreparazione e forse temevano un
nuovo tradimento. Pertanto le armate
di Salò non furono quasi mai
impiegate sulla linea del fronte per
contrastare l’avanzata
angloamericana ma vennero adibite
alla lotta contro i partigiani.
Aspetto questo che aggiungerà un
sovrappiù di tensione e quindi di
violenza nel quadro della guerra
civile di cui anche i comandi
alleati dovranno tenere conto
all’indomani del crollo della
Repubblica sociale (25 aprile
1945).
Infatti, «è facile immaginare che
la parte più consistente degli
armati di Salò cercherà di
consegnarsi agli angloamericani per
evitare la resa dei conti con le
formazioni partigiane» (Oliva
2023).
Le
autorità alleate, occupato anche il
Nord Italia e controllando quindi
l’intera Penisola, avevano la
necessità di mantenere l’ordine
pubblico e pertanto dovevano in
qualche modo gestire (e spesso
sostituire) la giustizia
insurrezionale delle formazioni
partigiane, evitando che si
tramutasse in giustizia sommaria o
semplice vendetta; cosa che avrebbe
creato chiaramente, oltre a un bagno
di sangue, una situazione
difficilmente controllabile. C’era
poi la diatriba in atto da mesi con
il Governo
italiano (dal 1944 guidato da Ivanoe
Bonomi) riguardante lo status
giuridico degli appartenenti alla
Repubblica Sociale. Il Regno del Sud
non aveva ovviamente riconosciuto la
RSI e si riteneva l’unico Stato
italiano legittimo; di conseguenza i
cittadini che avevano aderito alla
Repubblica sociale rispondendo ai
bandi di arruolamento, oltre
ovviamente ai volontari, erano da
considerarsi traditori e, se
catturati, non potevano ricadere
nella categoria dei prigionieri di
guerra, tutelata dalla Convenzione
di Ginevra. Gli Alleati pur con
qualche perplessità la pensarono
diversamente ed equipararono le
forze repubblicane ai soldati
tedeschi catturati, considerandoli
appunto prigionieri di guerra.
Di conseguenza,
tenuto conto di tutti questi
elementi, le autorità angloamericane
decisero di costruire un unico campo
di detenzione nel quale concentrare
tutti i militi della RSI catturati o
arresisi dopo il 25 aprile e fino
allora detenuti in campi provvisori
sparsi in tutto il Nord Italia,
molti dei quali controllati dalle
formazioni partigiane. Il
mantenimento dell’ordine pubblico e
l’accertamento delle responsabilità
individuali erano i principali
obiettivi. «Da un lato fermare
chi è stato nemico sino alla resa e
verificarne eventuali responsabilità
in eccidi e rastrellamenti;
dall’altro sottrarre chi ha
combattuto a Salò alla giustizia
sommaria» (Oliva
2023).
Con un campo di grandi dimensioni si
poteva inoltre non disperdere troppi
uomini e risorse nelle attività di
sorveglianza. Vi era poi un
ulteriore intento, sottaciuto, che
guardava già agli equilibri
geopolitici del Dopoguerra: «Reintegrare
nella futura vita politica
dell’Italia liberata gli ex
fascisti, utilizzandone le
convinzioni profondamente
anticomuniste» (Oliva
2023). Presa la decisione fu
individuata una grande area
pianeggiante di campi coltivati,
appartenente all’Opera Nazionale
Combattenti, situata nella frazione
di Coltano nel comune di Pisa;
relativamente vicino al Nord Italia
ovvero alle regioni dove era stata
maggiormente presente la Repubblica
Sociale ma allo stesso tempo lontano
dai territori dove la guerra civile
era stata più aspra. Il comando
alleato il 17 maggio emanò l’ordine
di requisizione delle terre e ai
primi di giugno l’area fu pronta per
accogliere i primi prigionieri; la
sorveglianza venne affidata ai
soldati americani della 92°
divisione Buffalo.
In pratica il campo di
concentramento era costituito da tre
strutture distinte che coprivano una
superficie totale di circa un
milione e duecentomila metri
quadrati. I campi denominati (Prisoner
War) PWE 336 e PWE 338, furono
destinati ai soldati tedeschi e di
altre nazionalità, sempre inquadrati
nella Wehrmacht (l’esercito
germanico). Gli italiani furono
invece tutti rinchiusi nel PWE 337,
che era il campo più piccolo per
dimensioni e in cui il trattamento
dei prigionieri sarà decisamente
peggiore rispetto agli altri due.
Dati ufficiali che si riferiscono
alla fine di settembre del 1945,
quando il campo (PWE 337) era già da
qualche tempo passato sotto la
giurisdizione delle autorità
italiane, parlano di 32.220
internati italiani. In realtà non vi
è certezza dei numeri soprattutto
per il periodo in cui il campo fu
gestito dagli americani, anche
perché sulla storia di Coltano non
vi sono molti studi.
Pochi sono i lavori di taglio
scientifico e di ricerca su fonti
documentali, che abbiano affrontato
il tema. Vi sono diverse
autobiografie e scritti di memorie
da parte di ex internati sul cui
contenuto però bisogna ragionare.
Negli ultimi anni del secolo scorso
la memorialistica si è arricchita di
contributi anche grazie alle
testimonianze, rese pubbliche in
modo più o meno esplicito, di
numerosi reduci della prigionia che
nel Dopoguerra diventarono
personaggi noti nel mondo dello
spettacolo, dello sport e della
cultura italiana. Furono detenuti a
Coltano attori e presentatori molto
famosi come Raimondo Vianello,
Walter Chiari o Enrico Maria
Salerno, i popolari giornalisti
Enrico Ameri e Mauro De Mauro, il
marciatore Pino Dordoni, medaglia
d’oro alle Olimpiadi di Helsinki del
1952, il musicista e compositore
Gorni Kramer.
Mentre di molti altri la presenza
nel campo è stata messa in
discussione. Se alcuni reduci
ricordano Coltano come un posto
terribile di maltrattamenti e
violenze, altri
lo
ricordano solo come luogo di
riflessione su scelte giovanili
sbagliate. Comunque l’analisi delle
testimonianze,
porta ad affermare che le condizioni
di prigionia non fossero
paragonabili a quelle dei campi di
concentramento giapponesi in Asia,
ai gulag sovietici e men che
meno ai lager nazisti. Allo
stesso tempo emerge però come il
regime di detenzione fosse piuttosto
rigido e la vita degli internati
molto dura, non mancando soprusi e
maltrattamenti.
Il PWE 337 era formato da una doppia
fila di reti metalliche che ne
costituivano il perimetro, nel
corridoio tra le due reti erano
posizionate torrette di osservazione
munite di riflettori e
mitragliatrici con sentinelle di
guardia, mentre all’esterno, oltre
le reti, si aggiravano pattuglie di
soldati armati. Una strada
attraversava il campo dividendolo in
due parti uguali; al loro interno
c’erano dei recinti realizzati
mediante rotoli di filo spinato,
dove stavano i prigionieri che, per
ricovero, avevano solo delle tendine
canadesi da sei o quattro posti. Uno
di questi settori o recinti venne
adibito a ospedale da campo mentre
un altro era riservato a prigionieri
tedeschi considerati affidabili che
svolgevano la funzione di guardiani.
Vicino al cancello d’ingresso, in
baracche di legno, erano invece
dislocati il comando, l’ufficio
matricola e i magazzini.
I vari settori erano tutti più o
meno uguali; «Ognuno aveva, a
ridosso della rete confinante con lo
stradone, una grande tenda per il
comando americano-tedesco, [...]
mentre sulla destra erano sistemate
le baracche del magazzino viveri e
materiali vari. [...] Nei pressi
della tenda comando una tendina
canadese fungeva da ambulatorio
accudito da un medico prigioniero,
mentre in altre due tendine venivano
ricoverati i malati in osservazione.
[...] Sempre davanti alla tenda
comando erano in bella vista il palo
di punizione e la gabbia e poi dopo
un largo spiazzo per le adunate o le
conte erano allineate le tendine
canadesi intervallate tra loro per
lasciare il posto agli scoli
dell’acqua. [...] Le file delle
capanne latrine era in fondo quasi
alla rete di recinzione» (Ciabattini
1995). In ogni recinto (tranne
quello adibito a ospedale) vi erano
tra i tremila e i quattromila
prigionieri.
Un aspetto che ricorre nelle
testimonianze è quello riguardante
il traumatico arrivo al campo. I
prigionieri per giungere a Coltano
erano trasportati su camion militari
e nell’attraversare le città
toscane, incontravano spesso gruppi
di persone che inveivano, sputavano
e lanciavano pietre e bastoni contro
di loro (identificandoli come i
responsabili della guerra e delle
tragedie appena trascorse),
nell’indifferenza dei soldati
americani che li conducevano e
scortavano. Questo, secondo alcune
testimonianze, è solo l’inizio
dell’ostilità e della durezza che
gli internati subiscono da parte dei
soldati americani e dei guardiani
tedeschi.
Il fatto poi che gli alleati di ieri
fossero diventati i propri
carcerieri, per di più godendo di un
trattamento di favore, era motivo di
rabbia e sconforto in molti detenuti
che vivevano questa situazione quasi
come una tortura psicologica.
Inoltre: «A rendere più aspra la
vita dei prigionieri, contribuiva
molto la natura» (Ciabattini
1995). L’unico ricovero erano le
tende canadesi dallo spazio limitato
e nelle quali non si poteva sostare
durante il giorno, ciò costringeva
gli uomini a essere completamente
esposti alle condizioni climatiche;
gli agenti atmosferici erano i veri
aguzzini. Altro elemento comune in
tutte le memorie è la sofferenza
causata dalla fame, soprattutto
dalla fine di luglio quando le
razioni alimentari iniziano a
diventare di pessima qualità e
sempre più scarse, diffondendo
malattie e casi di denutrizione.
Questo sarà uno dei fattori
principali che, nell’autunno del
1945, porteranno alla chiusura del
campo. Comunque il 28 agosto i
comandi alleati decidono di
trasferire Coltano sotto la
giurisdizione italiana. Se da un
lato migliorano i rapporti tra
carcerieri e internati dall’altro
peggiorano le condizioni generali;
la mancanza di cibo diventa una
costante e probabilmente aumenta
anche il numero dei decessi (anche
in questo caso mancano dati
ufficiali: le stime per l’intero
periodo di attività del campo, sei
mesi, oscillano tra i 300 e i 600
decessi). In una nazione appena
uscita dalla guerra non vi sono le
risorse per mantenere migliaia di
uomini e creare strutture per
l’inverno, in legno o muratura, che
prevengano centinaia di decessi.
«Alle ragioni logistiche si
aggiungono quelle giuridiche: i
prigionieri di Coltano sono
combattenti di Salò di cui va
accertato il comportamento e le
eventuali responsabilità in atti
criminosi, ma non soggetti rispetto
ai quali sono state mosse accuse
specifiche; di molti anzi non è
stata neppure accertata la vera
identità» (Oliva
2023). Iniziava anche a sorgere un
problema di ordine pubblico con
migliaia di parenti dei detenuti che
giungevano a Coltano per cercare i
propri famigliari, dei quali spesso
non avevano notizie da mesi o anni
(il caso di molti ex militari fatti
prigionieri all’estero) e che si
accampavano all’aperto, nei pressi
del campo e nelle frazioni vicine.
Inoltre pesava, in prospettiva del
ritorno a libere elezioni, anche il
nuovo quadro politico italiano con
la riproposizione del tema
dell’anticomunismo in funzione
antisovietica, che stava diventando
il programma centrale di molte forze
politiche; «migliaia di combattenti
che hanno scelto Salò, costituiscono
un serbatoio ragguardevole di
probabili simpatie conservatrici» (Oliva
2023).
Considerati
tutti questi aspetti, la
chiusura del campo entrò decisamente
nell’agenda della classe dirigente
italiana e
già alla fine di settembre, il
governo Parri, decise per la
chiusura;
che
doveva avvenire entro la metà di
ottobre dopo aver verificato le
posizioni dei prigionieri. A tale
proposito vennero istituite trentuno
commissioni che esaminavano gli
internati mediante interrogatori,
cercando di appurare se avessero
commesso crimini, reati politici o
partecipato a rastrellamenti ed
esecuzioni di partigiani. Gli
interrogatori furono ovviamente
rapidi e sommari, non c’era tempo di
raccogliere prove.
«Il
risultato è che al 10 di ottobre, su
28.070 soggetti esaminati, 26.402
sono giudicati liberabili: gli altri
1.668, per i quali esistono elementi
indiziari, vengono traferiti a
Laterina» (Oliva
2023); un campo di concentramento
più piccolo, in provincia di Arezzo,
creato dalle autorità italiane nel
settembre
1945 proprio per accogliere ex
fascisti. Il
PWE 337 verrà smobilitato solo il 1°
novembre e l’intera struttura
smantellata nel
gennaio 1946. La linea politica
della riconciliazione nazionale si
era ormai consolidata tra le
principali
forze politiche.
Nel giugno del 1946 il governo De
Gasperi emanava il Decreto
presidenziale di amnistia e indulto
per i reati comuni, politici e
militari (la cosiddetta
amnistia Togliatti, seguita poi
da altri provvedimenti). Molti degli
ex combattenti della RSI ricadevano
nelle fattispecie previste dalla
norma, pertanto nel giro di un anno
gran parte di essi verrà rilasciato.
Anche il campo di Laterina così come
altri campi e prigioni minori ancora
in funzione, che detenevano reduci
di Salò, verranno progressivamente
smantellati entro la primavera del
1947.
Si conclude così la vicenda dei
campi di concentramento per fascisti
in Italia; argomento del quale si è
sempre parlato poco, cercando di
rimuoverlo anche dall’indagine
storica. In effetti non era molto
incoraggiante occuparsi di coloro
che avevano perso la guerra e che
oltretutto erano dalla parte
sbagliata della Storia. Inoltre sui
campi di prigionia per fascisti
pesava l’aspetto del trattamento dei
prigionieri e questo poteva
coinvolgere chi li aveva
materialmente gestiti; dalle
formazioni partigiane ai governi
italiani ma soprattutto i comandi
alleati.
Tutti rischiavano di essere messi in
cattiva luce; era meglio evitare
tali argomenti, dimenticarli. «In
realtà non c’è nulla da nascondere.
Semplicemente c’è da indagare una
ulteriore pagina della stagione
tormentata e contraddittoria che ha
travolto la generazione cresciuta
nella guerra 1940-45: per capire ciò
che è accaduto, per capire come è
potuto accadere» (Oliva
2023).
Riferimenti bibliografici: