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N. 136 - Aprile 2019 (CLXVII)

I colpi di stato non finiscono mai
Il caso del Sudan

di Gian Marco Boellisi

 

Nonostante ci troviamo nel ventunesimo secolo, le trasformazioni politiche al giorno d’oggi possono ancora assumere un carattere violento e repentino. Anzi, in certe parti del globo questa tipologia di meccanismi risulta predominante rispetto a quel processo democratico che noi comunemente riteniamo normale. Un caso tra i più recenti risulta essere quello del Sudan, paese a lungo dominato da una dittatura militare e dilaniato per quasi vent’anni da una sanguinosa guerra civile. Nelle ultime settimane si è assistito all’ennesimo colpo di stato africano proprio in questo paese deponendo definitivamente il precedente dittatore, Ahmad al-Bashir. Nonostante per alcuni questo possa essere sembrato un ultimo battito di coda delle cosiddette “primavere”, a causa soprattutto dei larghi movimenti popolari di protesta che hanno preceduto il golpe, non c’è da illudersi. Sembra infatti che la lezione di quelle rivolte sia stata imparata a fondo, dati i terribili risultati che ancora oggi il mondo sta faticando a gestire. Prova ne sia che il corso degli eventi in Sudan ha preso tutta un’altra piega. Risulta quindi interessante analizzare in che maniera si è arrivati alla catena di eventi che potrebbe segnare la vita politica (e non solo) del Sudan per i prossimi decenni.


Prima di analizzare i fatti odierni, vale la pena dare un’occhiata più approfondita al contesto storico all’interno del quale il Sudan si trovava fino a poche settimane fa. Paese da sempre diviso tra identità africana e identità araba, questo stato sahariano è stato a lungo preda di sanguinosi conflitti e lotte intestine. Il paese negli ultimi 30 anni è stato dominato da un’unica personalità politica: quella di Ahmad al-Bashir. Nato nel lontano 1944, al-Bashir ha intrapreso la carriera militare sin da giovane formandosi all’Accademia Militare del Cairo. Finito il suo percorso accademico, prese parte alla guerra del Kippur del 1973 contro Israele. Alla fine delle ostilità al-Bashir tornò in patria e, proseguendo la carriera militare, arrivò a ricoprire la carica di generale. Accumulando potere militare e anche politico nel corso degli anni, nel 1989 al-Bashir decise di tentare il salto di qualità e mise in atto un colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto Sadiq al-Mahdi. Da allora la situazione politica del paese è stata dominata solo ed esclusivamente dalla sua personalità.


Sin da quel lontano giugno del 1989, al-Bashir ha sempre avuto un controllo capillare del proprio paese, tanto da impiegare ogni mezzo repressivo a sua disposizione per poterlo mettere in atto. Come ogni dittatore degno di tal nome, bandì immediatamente ogni forma di partitismo politico eccetto la propria e chiuse diverse testate giornalistiche indipendenti. La sua ostentazione del potere arrivò al paradosso, essendosi al-Bashir auto-nominato Capo di Stato, Primo Ministro, Capo di Stato Maggiore, ministro della Difesa e infine Feldmaresciallo. Il numero e la qualità dei titoli ricordano vagamente quelli che si conferì Ottaviano all’indomani della proclamazione a imperatore. Solamente i titoli però.


Durante gli anni ’90 al-Bashir si avvicinò molto a Hasan al-Turabi, leader del Fronte Islamico Nazionale, la quale fu un’organizzazione politica radicale legata all’ambiente dei Fratelli Musulmani. Sin da subito questo avvicinamento mise in tavola il progetto politico del nuovo presidente sudanese. In brevissimo tempo tuttavia si passò dai pensieri ai fatti. Nel 1991 infatti fu emanato un nuovo codice penale e nel nord del paese, a maggioranza araba, venne messa in atto la Shari’a, la legge islamica. Nonostante l’alleanza con al-Turabi sembrò dare in un primo momento un tornaconto politico, sul lungo termine ciò non si dimostrò vero. Infatti al-Turabi palesò molto presto i suoi legami con Al-Qaeda e Osama bin Laden, il quale risiedette peraltro per svariati anni all’interno dei confini sudanesi. Col deteriorarsi dei rapporti con le varie cancellerie estere a causa di questa sua alleanza, verso la fine degli anni ‘90 al-Bashir allontanò dalla vita politica forzatamente il leader del Fronte Islamico Nazionale. Tuttavia il danno era stato fatto.


Nel 1998 al-Bashir promulgò una riforma della costituzione che permetteva la formazione di partiti politici minoritari, cercando di mostrare così la sua indole democratica al mondo. Inutile dirlo, nessuna di queste formazioni riuscì mai ad affermarsi. Tuttavia, se vogliamo anticipare un’analisi sul lungo periodo, proprio questa riforma può essere considerata il germe iniziale degli avvenimenti di questo aprile.
Passando gli anni e aumentando la stretta sul Sudan, il presidente è stato accusato svariate volte di genocidio e crimini di guerra per il tristemente celebre conflitto in Darfur, il quale secondo una stima delle Nazioni Unite ha avuto più di 300 mila morti. Nel 2009 la Corte Penale Internazionale arrivò addirittura a emettere un mandato d’arresto per al-Bashir. Questa è stata la prima volta nella storia in cui è stato emesso un mandato di cattura per un presidente di uno stato sovrano ancora in carica. Nonostante tale disposizione, le tensioni e i conflitti in Sudan continuarono ancora per qualche anno, fino a quando il 9 luglio 2011 si concluse il processo di secessione del sud che portò alla nascita dello stato del Sud Sudan, a oggi ancora uno degli stati più giovani del globo. Così 19 anni di guerra civile si conclusero in un processo politico, ma ancora oggi la stabilità della regione è più che lontana.


Questo è il contesto dal quale proviene il presidente al-Bashir, o forse sarebbe meglio dire l’ex-presidente. Infatti da dicembre 2018 a questa parte l’intero paese è stato investito da un’ondata di proteste generali che ha coinvolto tutte le fasce della popolazione, compresi ceti meno abbienti, studenti, ceto medio e infine categorie professionali, le quali potrebbero essere considerate il vero motore di questo movimento. Proprio nello scorso dicembre si è assistiti a una rapida quanto drastica svalutazione della sterlina sudanese, la quale ha causato la crescita dei prezzi di tutti i beni di prima necessità. Questo aumento ha causato a sua volta a stretto giro la carenza di cibo e carburante nella maggior parte del paese. Una protesta da parte di tutta la popolazione sudanese è seguita quasi immediatamente. La situazione ha raggiunto livelli di criticità tali che il governo ha dovuto imporre una limitazione sul prelievo del denaro contante a tutti i cittadini sudanesi. Il movimento di protesta è proseguito, sebbene a intervalli irregolari, da dicembre fino ad aprile 2019. Ed è stato proprio in quest’ultimo mese che la partita è cambiata.


Mentre nei primi mesi di protesta tutto l’apparato militare, costituito da generali da sempre fedeli ad al-Bashir, ha represso spesso e volentieri mediante l’uso della violenza le proteste di piazza, nelle manifestazioni di aprile si è assistito a una neutralità dei militari. Anzi in alcuni casi i soldati hanno imbracciato le armi contro altre forze governative a favore dei protestanti. Questo cambio di approccio ha testimoniato chiaramente una spaccatura all’interno dei vertici militari, i quali con il passare dei mesi hanno optato per approfittare della marea e volgersi contro il governo di al-Bashir. Questo corso di eventi ha portato nella notte tra il 10 e l’11 aprile alla mobilitazione di truppe sudanesi verso la capitale. L’obiettivo principale delle prime ore è stato l’aeroporto di Khartum. Assicurato il controllo di questa importante via di comunicazione internazionale, i militari hanno proceduto a occupare gli snodi e le arterie principali della capitale. Sin dalla mattina televisioni e radio sono state oscurate e testimoni hanno riferito di carri armati presenti nelle strade. Tuttavia l’attenzione dei generali è stata particolarmente diretta verso il palazzo presidenziale, il quale è stato occupato da soldati e carri armati dei golpisti. Inutile dirlo, dopo poche ore al-Bashir ha firmato le dimissioni da presidente, le quali sono state trasmesse attraverso i principali canali di comunicazioni statali. D’altronde si sa, con un cannone puntato contro la propria finestra certe decisioni risultano essere di gran lunga più facili.


Alle dimissioni di al-Bashir sono seguiti immediatamente arresti in tutta la capitale dei fedelissimi del vecchio regime, i quali hanno perso la propria utilità nell’arco di una notte. A poche ore da questa vera e propria tabula rasa, i militari hanno istituito un Consiglio di Transizione formato dai generali stessi e presieduto da Awad Ibn Ouf, vice di al-Bashir e ministro della difesa. Quest’ultima carica spiega più di mille parole la casualità dell’incarico affidatogli dall’unione dei militari rivoltosi.


Nonostante l’iniziale euforia della popolazione sudanese, la quale alle prime avvisaglie del colpo di stato è scesa quasi interamente in piazza, essa ha subito intuito le dinamiche che si stavano svolgendo nei palazzi di Khartum. Infatti non stava avvenendo un vero e proprio cambiamento, ma più che altro una sostituzione, un passaggio di testimone da un militare verso altri militari. Poco dopo la deposizione di al-Bashir, Sadiq al-Mahdi, ovvero il leader dei partiti di opposizione, ha affermato che era disposto a una collaborazione proattiva e propositiva con il consiglio militare appena insediatosi, senza tuttavia essere disposto a farsi guidare da una giunta militare nei prossimi anni senza alcun termine del mandato. Nonostante la soluzione di scambio “un militare per un militare” sia quella meno auspicata dalle varie forze politiche presenti in Sudan, escludere dalle dinamiche politiche e sociali l’unico organismo che può garantire una parziale stabilità e sicurezza al paese è praticamente impossibile. Nei prossimi mesi si dovrà trovare un compromesso tra la volontà ferrea dei militari di mantenere il potere e il desiderio irrefrenabile dei sudanesi di avere un briciolo di voce in capitolo nella propria vita politica. Una sfida non da poco.


Come sempre accade quando avviene un colpo di stato in qualche nazione del globo, anche questo evento ha suscitato diverse reazioni presso le cancellerie straniere. È doveroso ricordare che il Sudan è un paese di fondamentale importanza strategica, essendo la sua posizione geografica crocevia tra il Sahel e il corno d’Africa e la sua terra ricca di risorse naturali. Nonostante questi fattori di grande importanza, la diplomazia occidentale non si è pronunciata molto a riguardo. Basti ricordare che il Sudan è stato inserito nei primi anni 2000 nella lista degli “stati canaglia” stilata da George Bush, essendo uno stato che in passato aveva supportato il fondamentalismo islamico. Durante l’ultimo decennio si è registrato un rinnovato avvicinamento tra due stati, anche se i rapporti sono sempre rimasti altalenanti. Basti dire che al momento il Sudan non rientra tra le priorità dell’agenda africana statunitense. Seguendo questa falsa riga, anche in Europa si è assistito a un silenzio generale riguardo la faccenda, se non per qualche leader politico isolato che ha voluto dare un proprio personale contributo. Ciò a dimostrare ancora una volta, qualora ci fosse ancora bisogno di ulteriori dimostrazioni, di come l’agenda dei paesi europei non includa mai questioni o problematiche inerenti al continente nero che non siano avvertite come una minaccia diretta o come un interesse strategico e geopolitico immediato. Alla cecità, a quanto pare, non vi è mai fine.


Al contrario altri attori presenti sullo scacchiere globale non sono rimasti con le mani in mano e osservano la situazione a Khartum con estremo interesse. Questi non sono altri che Cina e Russia, le quali si stanno rendendo sempre più protagoniste delle vicende africane degli ultimi anni. La Cina ha effettuato grandi investimenti in Sudan nell’ultimo decennio. In questo momento possiede de facto il porto di Port Sudan, il quale affaccia sul Mar Rosso, e tutta una serie di infrastrutture strategiche che ha intenzione di inquadrare nella sua nuova Via della Seta. La Russia invece ha firmato nel 2017 un accordo per portare avanti la costruzione della prima centrale nucleare in Sudan. Questa mossa rientra nella cosiddetta “diplomazia nucleare”, la quale si pone come obiettivo di stabilire relazioni con paesi esteri esportando la tecnologia nucleare della Federazione Russa nel mondo. Sia Cina che Russia hanno mantenuto toni molto cauti in merito al colpo di stato, affermando entrambe che le vicende in atto in Sudan sono delle “questioni interne di cui si aspetta al più presto la risoluzione”. Ciò a dimostrare che probabilmente l’interesse di queste due nazioni per chi si trova ai vertici del Sudan o per chi vincerà la lotta per il potere è abbastanza irrilevante. L’unica cosa che conta è continuare a fare affari sulla scia degli accordi presi con il regime di al-Bashir. Nella maniera più spietata possibile, “business is always business”.


In conclusione, il colpo di stato in Sudan testimonia come sempre più i regimi costituitisi nel secolo scorso stiano diventando più fragili con il passare del tempo. Purtroppo però la sostituzione del dittatore di turno non sempre garantisce stabilità per il paese in questione. Per il Sudan è ancora troppo presto per trarre delle conclusioni, tuttavia ciò che si è visto finora ha più sapore del vecchio regime di quanto si voglia ammettere. Il capo del Consiglio di Transizione ha dichiarato lo stato d’emergenza da qui a 2 mesi e ha autorizzato il Consiglio stesso a guidare il paese stesso per i prossimi 2 anni. Nel 2020 infatti sono previste elezioni in Sudan, tuttavia bisognerà capire che tipo di elezioni si avranno. Se si avranno. Nel frattempo la comunità internazionale farebbe bene a svegliarsi e a tenere d’occhio la situazione in Sudan con maggiore attenzione. Questo soprattutto per evitare che tra qualche anno ci si debba confrontare con l’ennesima polveriera internazionale di cui nessuno riuscirà a trovare la soluzione e di cui, purtroppo, nessuno ricorderà l’origine.



 

 

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