N. 3 - Marzo 2008
(XXXIV)
IL COLORE DEL CAMALEONTE
Viaggio nel mondo
dell’informazione che ha raccontato la
seconda repubblica
di Cristiano Zepponi
Penso
da diverso tempo a questo tema, con una certa intensità;
è diventato, devo ammetterlo, una sorta di chiodo fisso.
Innanzi tutto, mi riservo il diritto di non considerare
questa inchiesta (o comunque la si voglia definire) un
articolo, nel senso letterale del termine, ma
piuttosto un esperimento. Ciò, naturalmente, se
non assopisce i miei doveri di completezza, chiarezza e
dimostrazione di ogni tesi, ed ogni polemica,
sottintende la necessità di godere di una certa dose di
pazienza, eventualmente concessa da parte del
lettore.
Solitamente, temi così imponenti necessitano di
schematizzazioni, scalette, divagazioni misurate e
percorsi lineari, né dubito della razionalizzazione e
semplificazione che da ciò deriverebbe, ai Vostri occhi.
Tuttavia, ho scelto consapevolmente (accettando in pieno
la possibilità di sbagliare) la formula di un “viaggio”,
per così dire, improvvisato, che trascenda i luoghi ed i
tempi, per mostrare come alcune dinamiche rimangano
stabili, pur alterando la messa a fuoco (e l’obiettivo)
dell’indagine.
Ho
scelto questa via perché ritengo che queste variabili,
comunque le si giudichino, siano diventate
strutturali, in un mondo comunque (e come sempre)
variegato e strabiliante.
Ritengo, come molti, che l’informazione sia il “cane da
guardia” del potere, come si usa dire negli States; che
non possa esserci democrazia, né politica senza di essa,
tanto è profondo il legame tra i rappresentanti del
popolo (i quali, checché ne dicano i benpensanti,
mentono per mestiere) ed i giornalisti (i quali, checché
ne pensino molti di loro, esercitano un mestiere rivolto
a contraddire, criticare e svelare retroscena,
ambiguità, manchevolezze e malefatte dei primi); e che
la sola responsabilità di un giornalista, sotto
qualunque governo o editore, sia costituita dal dovere
di informare (lettori o ascoltatori,
indifferenziatamente) diffondendo notizie accertate e
provate. Immagino che molti si ritroveranno in questi
precetti generici (ovvietà?); ma presto vedremo come
siano rimasti a languire nel registro delle buone
intenzioni, abbandonati dalla gran parte di coloro che
conoscono l’onore di esercitare il mestiere.
“Il
camaleonte ha il colore del camaleonte solo quando si
posa su un altro camaleonte”, ironizzava Groucho Marx:
e la maggioranza di loro si concentra, purtroppo, nelle
colorite redazioni di questo sfortunato Paese.
In
questa sede ho ritenuto corretto affrontare il periodo
recente, senza dilungarmi estesamente sul periodo
democristiano. L’ho fatto perché credo di poter
individuare una boa, intorno alla quale ruotò l’intero
sistema mediatico italiano.
Non
che i “vecchi” partiti non avessero colto le possibilità
offerte dal mondo dell’informazione, e della tv in
particolare; ma generalmente si contentavano di piegarle
a fini tradizionali, coprendo le gambe delle ballerine,
censurando la satira di Dario Fo e mostrando
un’interminabile panoplia di paesaggi regionali e
sceneggiati storico/letterari. La rai esercitava una
funzione morale e pedagogica fondamentale, oltre che
pienamente riconosciuta: “tra trent’anni gli italiani
non saranno come li hanno voluti i partiti ma come li
avrà fatti la televisione”, profetizzò infatti in tempi
non sospetti Ennio Flaiano.
Ma
sarebbe stato impossibile prevedere una deriva di questo
genere, e l’avvio di una fase caratterizzata da una
criminale regia nella gestione dell’idrante delle
notizie: aperto a dismisura quando la decenza e
l’umanità imporrebbero tatto, simil-desertico quando la
deontologia, il senso del dovere e l’amore per il
proprio mestiere imporrebbero inchieste, dibattiti,
accuse.
Ma
soprattutto fatti.
Curzio
Maltese (“Modesta proposta di sopravvivenza al
declino della nazione”) contrappone, all’uso
criminoso della televisione imputato a Luttazzi, Biagi e
Santoro dall’allora presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi, due casi simbolici e interessanti (oltre
che decisamente più meritori di tale definizione):
quello di Alfredo Rampi e del dr. Di Bella.
Noi,
avendo a disposizione più tempo e spazio, crediamo di
poterne individuare qualcun altro; in questa prima
parte, in particolare, volgeremo lo sguardo a Bruno
Vespa. Ma è bene partire da qui: dal bambino e dal
vecchietto, e dalle loro tristi vicende.
PARTE PRIMA
L’insostenibile leggerezza del dramma: quando nacque la
tv del dolore.
La
sera del 10 giugno 1981 un bambino, Alfredo Rampi,
che stava passando qualche giorno con i suoi genitori
nella casa di campagna della Borghesiana, cadde in un
pozzo artesiano situato in località Selvotta, vicino
alla Via di Vermicino. Fu individuato abbastanza
rapidamente, e subito il comandante provinciale di Roma,
Elveno Pastorelli, cominciò ad organizzare i soccorsi.
Il bambino, 6 anni e una malformazione cardiaca,
stazionava a trentasei metri sotto terra: tuttavia fu
possibile parlarci, attraverso un microfono tenuto ad un
capo dal Vigile del Fuoco Nando Broglio.
Nel
corso del primo tentativo di salvataggio si calò nel
pozzo una tavoletta di legno per far aggrappare il
bambino, ma il pezzo restò incastrato a 22 metri di
profondità, e si trasformò così in un ostacolo
determinante per tutte le mosse successive, limitando di
fatto le possibilità di intervento. Tullio Bernabei,
speleologo del soccorso alpino, tra i primi ad arrivare
sul posto, provò a calarsi nel pozzo alle prime luci
dell'alba di giovedì 11 giugno; raggiunse la tavoletta e
provò a segarla, ma un tubo nel pozzo glielo impedì,
mentre si cercava una trivella per scavarne un altro,
parallelo. Questa arrivò nelle prime ore della mattina
di giovedì 11 giugno; si decise allora di scendere a 38
metri e intercettare il bimbo grazie ad un tunnel di
raccordo.
Il 12
giugno le operazioni di scavo rallentarono: arrivò
un'altra trivella, più grande e potente, mentre il
Vigile Nando continuava a parlare col bambino e cadeva
anche l'ultimo diaframma che separava il pozzo scavato
dai soccorritori da quello dove era incastrato
“Alfredino”. Ma il piccolo nel frattempo era scivolato
ancora più giù, a 61 metri di profondità. La situazione
andò progressivamente peggiorando, e nel caos
generalizzato si ricorse a misure improvvisate e
disperate, pescando disperatamente nel quadro di un
circo colorito di nani, giocolieri, speleologi ed
esperti di pozzi.
Tra
questi c'era Angelo Licheni, che riuscì ad eludere i
controlli dei carabinieri e superare la bolgia dei
curiosi: insieme a Donato Caruso furono gli ultimi due
volontari riusciti a toccare il piccolo. Licheri, un
tipografo che non aveva nessuna esperienza di pozzi, si
calò quindi a testa in giù nella strettoia di 25 cm.
Alle
23,50 di venerdì 12 giugno Angelo Licheri riuscì a
raggiungere il piccolo, che respirava ancora ma era
pieno di fango, e quindi dopo vari tentativi di
afferrarlo Licheri rinunciò per riemergere visibilmente
stordito e sanguinante. Poi toccò a Donato Caruso, che
però non ottenne risultati migliori, perché "se tiravo
lo portavo su a pezzi, è intrappolato nel fango."
La
mattina del sabato, dal microfono, non si sentiva più
alcun suono; il dott. Fava confermò che il piccolo era
spirato. Le operazioni di recupero del corpo durarono un
mese, ed il pozzo venne sigillato.
Il
funerale di Alfredino Rampi si tenne il 17 luglio del
1981 nella Basilica di San Lorenzo Fuori Le Mura.
Come
si vede, e come la maggioranza degli italiani ben sanno,
fu una storia drammatica, sofferta e struggente,
associata ad alcuni topoi inconsci ma decisamente
diffusi (del giovane morto anzitempo, della discesa
nell’oltretomba). La vicenda del bambino che perse
un’identità personale per acquisirne una collettiva (da
Alfredo ad “Alfredino”), protagonista di un evento in
cui non comparve mai direttamente ma catalizzò il gioco
dell’ansia che si svolgeva in superficie, tra presenti e
telespettatori, racchiuso in un’inaccessibile oscurità a
contatto con la morte, richiamava troppi istinti
primordiali nel pubblico, e non solo.
Intervenne il presidente della Repubblica, Sandro
Pertini; e soprattutto intervenne il servizio pubblico:
il vicedirettore del Tg1, Emilio Fede, decise
infatti di inviare una troupe per seguire in diretta le
varie fasi di quello che Furio Colombo chiamò “il gioco
dell’orrore”.
La
criminale diretta a reti unificate scandalizzò i più, ma
incollò l'Italia intera davanti al video: dalle 14.00
alle 20.00 del giorno 12 venne registrata una media di
12 milioni di telespettatori. La Rai intraprese una
campagna mediatica senza precedenti nella storia del
Paese, moltiplicando e amplificando la presenza sul
posto dell'agguerrita compagine delle tv private. La
placida campagna della Borghesiana si trasformò in un
teatro all'aperto, il pozzo di Vermicino divenne
l'ombelico d'Italia: sembrava che tutte le storture del
Paese, il terrorismo, la corruzione, la crescita
stagnante dipendessero dalla storia di Alfredo; sembrava
che un filo invisibile legasse la salvezza del bambino a
quella della nazione, e che dopo averlo estratto dal
tugurio tutto si sarebbe sistemato, come per incanto.
“La
diretta paralizza l’Italia davanti al piccolo schermo”,
scrisse Aldo Grasso (“Enciclopedia della
televisione”, 1996), “[…] e solleva inquietanti
interrogativi sul ruolo del mezzo televisivo, sul senso
della sua presenza, sul significato della messa in
scena”.
Nacque
allora un genere destinato ad un radioso futuro, e che
in molti chiamano, efficacemente, “la tv del dolore”.
Il
cancro come prosecuzione della politica con altri mezzi:
la vicenda Di Bella.
La
parabola Di Bella è tipica di un Paese abituato ad
improvvisare, dimentico di alcuni precetti illuministici
e insieme incapace di distinguere l’aspetto dalla
sostanza, e la persona dal personaggio, fiero e convinto
di poter sopravvivere al declino affidandosi unicamente
alla propria inventiva. Così, nel 1998, un anziano
oncologo osò l’impronunciabile, e rivelò al mondo
nientemeno che la scoperta di una cura contro il cancro:
un mix di medicine già usate per alleviare le sofferenze
dei pazienti (vitamine, ricostituenti) che prometteva di
seppellire il ricorso a chirurgia, radio e
chemioterapia. Un fulmine nel deserto.
Sbucarono alcuni pazienti pronti ad assicurare che nei
loro casi il tumore era regredito, o scomparso, e mentre
la vicenda avrebbe potuto concludersi con attendibili
test scientifici (niente di più, niente di meno)
prevalse la mozione del sentimento, e della psicosi
collettiva.
Partiti, organizzazioni ma soprattutto cittadini comuni
scesero in strada, reclamando rumorosamente il diritto
alla cura, e lo stesso accadde al mondo
dell’informazione, risucchiato senza resistenze nel
circolo dell’ossessione: su Di Bella fioccarono speciali
ed approfondimenti, consessi di colleghi e ricostruzioni
biografiche, improvvisate esaltazioni ed accesi
dibattiti.
Come
spiegato da Maltese, “piaceva tanto l’immagine di questo
medico con l’aria di mastro Geppetto che, zitto zitto,
nel suo laboratorio di provincia, fa fessi i
professoroni americani e i Nobel di mezzo mondo
scoprendo quasi per caso nell’alambicco spumante la cura
del secolo. Piaceva alla destra cialtrona che mobilitò
le piazze per ottenere il finanziamento statale alla
cura Di Bella. E incredibilmente lo ottenne.”
Vespa,
di cui tratteremo più avanti, è il conduttore del più
importante programma d’informazione politica della sesta
o settima potenza mondiale, e in quei giorni mostrò
perché. Evidentemente accecato dall’ imperdibile
opportunità si precipitò ad invitare il figlio
dell’attempato ricercatore (è incredibile constatare
come i nostri aspiranti eroi nazionali si distinguano in
genere per un’agghiacciante mediocrità), che a sua volta
rassicurò sul carattere del genitore: “in tutta la vita
papà non ha guadagnato una lira, i suoi colleghi
compravano le barche e noi non potevamo permetterci le
vacanze”.
Non
abbiamo motivi per dubitarne, ma allora nessun test
aveva ancora dimostrato la veridicità di quanto
affermato dall’oncologo. E invece oggi sappiamo,
purtroppo, che i pazienti-cavie della terapia morirono
tutti, nonostante l’ex ministro della Sanità Storace
continuasse ad illudere i malati, promettendo una
ripresa della sperimentazione, e a sperperare denaro di
una Nazione che per la ricerca sui tumori spende “una
cifra inferiore al valore di due centravanti come Vieri”
(per usare le parole di Umberto Veronesi).
Di
fronte al fallimento, nessuna marcia indietro. Il
fulmine ingranò la retromarcia e scomparve dai
palinsesti, veloce com’era venuto.
La
ricerca invece restò lì a marcire, in silenzio.
Imparate il mestiere, e fate il contrario: l’esempio
Vespa.
L’arte
di “parlar d’altro”, per dirla alla Travaglio, è una
nota caratteristica dell’informazione italiana, come i
campanili, le valli e il mare per il paesaggio.
E’
comprensibilmente arduo, ma spesso gratificante: non si
rischiano richiami dall’Ordine dei giornalisti, né
polemiche dal pubblico, che naturalmente, in genere, non
conosce la verità, mentre in compenso si scalano
velocemente scalini e posizioni di notevole attrattiva
professionale.
Le
cause scatenanti possono essere molteplici,
diversificate, combinate o casuali:
“C’è
chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante,
impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di
informarsi, di aggiornarsi.
C’è
chi nasconde i fatti perché trovare le notizie costa
fatica e si rischia persino di sudare.
C’è
chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e tira a
campare galleggiando, barcamenandosi, slalomando.
C’è
chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele,
delle cause civili, delle richieste di risarcimento
miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e
attirano i fulmini dell’editore stufo di pagare gli
avvocati per qualche rompicoglioni in redazione.
C’è
chi nasconde i fatti perché si sente embedded, fa
il tifo per un partito o una coalizione, non vuole
disturbare il manovratore.
C’è
chi nasconde i fatti perché sennò lo attaccano e vuole
vivere in pace.
C’è
chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano
più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di
destra e leader di sinistra, controllori e controllati,
guardie e ladri, puttane e cardinali, principi e
rivoluzionari, fascisti ed ex-lottatori continui, dove
tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare
nessuno.
C’è
chi nasconde i fatti perché confonde l’equidistanza con
l’equivicinanza.
C’è
chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del
giornale.
C’è
chi nasconde i fatti perché l’editore preferisce così.
C’è
chi nasconde i fatti perché aspetta la promozione.
C’è
chi nasconde i fatti perché fra poco ci sono le
elezioni.
C’è
chi nasconde i fatti perché quelli che li raccontano se
la passano male.
C’è
chi nasconde i fatti perché certe cose non si possono
dire.
C’è
chi nasconde i fatti perché “hai visto che fine hanno
fatto Biagi e Santoro”.
C’è
chi nasconde i fatti perché è politicamente scorretto
affondare le mani nella melma, si rischia di spettinarsi
e di guastarsi l’abbronzatura, molto meglio attenersi al
politically correct.
C’è
chi nasconde i fatti perché altrimenti diventa
inaffidabile e incontrollabile e non lo invitano più in
televisione.
C’è
chi nasconde i fatti perché fa più fine così: si passa
per anticonformisti, si viene citati, si crea il
“dibattito”.
C’è
chi nasconde i fatti anche a se stesso, perché ha paura
di dover cambiare opinione.
C’è
chi nasconde i fatti per solidarietà con Giuliano
Ferrara, che è molto intelligente e magari poi si sente
solo.
C’è
chi nasconde i fatti perché i servizi segreti lo pagano
apposta.
C’è
chi nasconde i fatti anche se non lo pagano, ma magari
un giorno pagheranno anche lui.
C’è
chi nasconde i fatti perché il coraggio uno non se lo
può dare.
C’è
chi nasconde i fatti perché nessuno gliel’ha ancora
chiesto, ma magari, prima o poi, qualcuno glie lo
chiede.
C’è
chi nasconde i fatti perché così poi qualcuno lo
ringrazia.
C’è
chi nasconde i fatti perché spesso sono tristi,
spiacevoli, urticanti, e non bisogna spaventare troppo
la gente che vuole ridere e divertirsi.
C’è
chi nasconde i fatti perché altrimenti poi tolgono la
pubblicità al giornale.
C’è
chi nasconde i fatti perché sennò poi non lo candida più
nessuno.
C’è
chi nasconde i fatti perché così, poi, magari ci scappa
una consulenza col governo o con la Rai o con la Regione
o con il Comune o con la Provincia o con la Camera di
commercio o con l’Unione industriali o col sindacato o
con la banca dietro l’angolo.
C’è
chi nasconde i fatti perché deve tutto a quella persona
e non vuole deluderla.
C’è
chi nasconde i fatti perché altrimenti è più difficile
volare gabbana quando gira il vento.
C’è
chi nasconde i fatti perché altrimenti poi la gente
capisce tutto.
C’è
chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva
Victor Hugo, ‘c’è gente che pagherebbe pur di vendersi’“.
(M.Travaglio, la scomparsa dei fatti, pag. 9).
La
lunga citazione (me ne scuso, ma chiarisce perfettamente
i termini del problema) ci consente di tornare a Vespa &
co.
Per
sdrammatizzare, ognuno valuti per un minuto gli
argomenti sopracitati, in silenzio, e poi consideri se è
possibile applicarli ai principali e riconosciuti
professionisti (?) dell’informazione.
Io,
modestamente, credo di sì.
L’uomo
ha un certo talento, devo riconoscerlo - innanzitutto
nella genuflessione. D’altro canto, ammetto di aver
provato a leggere una delle sue (celebrate) produzioni
letterarie, ma purtroppo, causa evidenti limiti
personali (di noia, pazienza, tempo ed abitudini
libresche) ho desistito. Ciononostante, ammiro
visceralmente la sua istrionica capacità di tacere.
A
Porta a porta, il simpatico teatrino in onda
sulla rete ammiraglia del servizio pubblico, si dibatte,
si discute, si parla e si consuma ossigeno. Di fatti,
nemmeno l’ombra: ognuno ha eguale diritto alla parola,
ma nessuno ha diritto alla confutazione, e così voci su
voci, opinioni su opinioni, pareri su pareri, e non si
arriva mai ad una soluzione definitiva. E’ la casa delle
libertà di Nientologi (e la mente va alla
definizione di Balzac nel pamphlet “I giornalisti”:
colui “da cui sgorga una spaventosa mistura
filosofico-letteraria. La pagina ha l’aria di essere
piena, ha l’aria di contenere idee, ma quando l’uomo
istruito vi mette il naso sente l’odore delle cantine
vuote. E’ profondo e non c’è niente, l’intelligenza vi
si spegne come una candela in un sotterraneo senz’aria”)
attualmente rinominati Tuttologi, pervicacemente
impegnati a pontificare sullo scibile umano, senza alcun
appiglio reale, senza dati condivisi, senza mai
un’obiezione, e, spesso, senza conoscere affatto
l’argomento in questione (frase-tipo: “ammetto di non
conoscere la questione nei minimi particolari..”;
esempio-recente: Brunetta ad anno zero, che,
dibattendo sul caso rifiuti, candidamente rivendica il
merito di aver “studiato” in una settimana, cioè
dall’invito in trasmissione, i termini del problema, con
l’aria gongolante dello studente che non compra i libri
e riesce comunque a prepararsi la mattina stessa
dell’interrogazione).
Vespa
è comunque, più di ogni altro, l’archetipo del
giornalista nostrano, incapace anche solo di fare
domande. Ma non la prima (per quella siamo capaci
tutti, dal tappezziere al falegname, basta scriverle a
casuccia): è la seconda quella che conta,
che screma il giornalista dall’uomo immagine, o dal pr.
La domanda che svela, critica, contraddice. “La”
domanda, e basta.
Sempre
che di argomenti degni di questo nome si parli.
Ricapitoliamo, in breve, alcune performances più
o meno recenti: dopo la condanna in primo grado di
Cesare Previti al processo Sme per corruzione del
giudice Renato Squillante, Vespa si occupò del Viagra;
dopo la condanna a Dell’Utri per estorsione insieme ad
un boss mafioso, di calcioscommesse (ospiti illustri
Aldo Biscardi e Maurizio Mosca); dopo la bocciatura
rifilata a Buttiglione, impegnato nel tentativo di
divenire commissario UE dal Parlamento Europeo (ne
parleremo, ne parleremo..), di risveglio dal coma
(ospite Alba Parietti); dopo la vittoria del
centrosinistra alle elezioni suppletive 2004 (in 7
collegi su 7), di Isola dei Famosi (ospite
Supersimo Ventura); dopo la condanna di Dell’Utri a 9
anni per mafia ed il salvataggio di Berlusconi
attraverso l’arma della prescrizione (parleremo anche di
questo..), di taglio delle tasse (ma l’apice è raggiunto
la sera seguente: si filosofeggia di reality shows con
Del Noce, don Mazzi, Crepet, Zecchi, Paola Perego,
Carmen di Pietro e le Lecciso, 1 e 2); dopo la
bocciatura operata da Ciampi della riforma
dell’ordinamento giudiziario (perchè “palesemente
incostituzionale”), di Christmas in Love (indimenticato
cult Boldi-De Sica); dopo la condanna definitiva in
Cassazione di Previti a 6 anni, di dieta mediterranea
(Travaglio, op. cit.). Senza dimenticare (e come
farlo? Ho la pelle ancora accapponata) le insistite
perizie, ricostruzioni e intercettazioni propinate con
cadenza bisettimanale, fino ad arrivare - esempio di
climax ascendente - al plastico di casa Cogne,
prontamente approntato per dimostrare dove si trovavano
le ciabatte, le vesti, gli arredi insanguinati, dove il
piccolo Samuele, dove le possibili vie di fuga (o
d’accesso) a quella folta platea di magistrati che
almeno un paio di volte l’anno prende il nome di popolo
italiano (come d’abitudine diviso a metà, tra
colpevolisti e innocentisti).
La
vergogna ed il disonore dovrebbero essere l’unica
ricompensa riconosciuta a chi, in preda a sconosciute,
ataviche istanze primordiali, si è tuffato allegramente
nel sangue, accantonando rapidamente alcuni vaghi ed
elementari sentimenti di rispetto, o almeno pietà.
Il
tutto, peraltro, mentre G. Andreotti si salvava grazie
alla prescrizione, nonostante avesse (cito alcuni
stralci della sentenza
della Corte d'appello di Palermo del 2
maggio 2003, poi confermata in Cassazione) "commesso" il
"reato di partecipazione all'associazione per
delinquere" (Cosa Nostra), "concretamente ravvisabile
fino alla primavera 1980", e si accertava che
avesse una "propensione a intrattenere
personali, amichevoli relazioni con esponenti di vertice
di Cosa Nostra", per garantirsi "la possibilità di
utilizzare la struttura mafiosa per interventi extra
ordinem... forme di intervento para-legale che
conferisce, a chi sia in possesso dei canali che gli
consentano di sperimentarle, un surplus di potere
rispetto a chi si attenga ai mezzi legali", che avesse
"dialogato con i mafiosi e palesato la volontà di
conservare le amichevoli, pregresse fruttuose relazioni
con essi", indicando “ai mafiosi le strade da seguire” e
discutendo con questi “di fatti criminali gravissimi da
loro perpetrati... senza destare in essi la
preoccupazione di venire denunciati", oltre ad omettere
“di denunciare elementi utili a far luce su fatti di
particolarissima gravità, di cui è venuto a conoscenza
in di-pendenza di diretti contatti con i mafiosi". Così
in quegli anni la mafia proliferava e i boss si
sentivano, "anche per la sua autorevolezza politica,
protetti al più alto livello del potere legale": e
pensare che l’unica immagine che di tutto ciò è filtrata
ai più è l’immagine dell’avvocatessa che strepitava
“Innocente, innocente!!” al telefono, immediatamente
riproposta nelle aperture di tutti i tg (un filino
carenti nel sottolineare le differenze che distinguono
un’assoluzione da una sopraggiunta
prescrizione).
O
ancora, possiamo citare la puntata dedicata all’orgasmo
femminile (non riesco proprio a capire con quali criteri
sono stati selezionate le ospiti; tutte le donne del
pianeta avrebbe potuto prendere – a ragione - la
parola), le profetiche confidenze riservate (“Berlusconi
mi ha spiegato, ripetutamente, quanto avesse cercato di
convincere Bush a non fare la guerra”), la signora che
subisce un chirurgico palpeggiamento del seno (sotto gli
occhi attenti del conduttore e della semi-totalità degli
spettatori maschi, improvvisamente recuperati ala veglia
da questo lucente saggio di porno-soft), i calci
della Mussolini alla Belillo, il patetico tentativo di
sminuire la portata dello scontro Bossi-Fini (ottobre
2003) sull’opportunità di concedere il diritto di voto
agli immigrati non ancora cittadini - con annesso
epitaffio del Senatùr, che definì Vespa “il cerimoniere
dei palazzi romani” -, rinunciando ad ascolti sicuri,
“per non compromettere la stabilità del governo” (in via
confidenziale, va bene preoccuparsi della stabilità del
governo, basta fare un altro mestiere: il politico), la
psichiatrica rappresentazione stile-risiko
dell’invasione dell’Iraq (in cui il gen. Arpino,
sintomatico caso di arresto dello sviluppo, aggiornava
la tabella di marcia verso Baghdad spostando carri
armati colorati in miniatura al ritmo della cavalcata
delle valchirie, e ripetendo con cadenza ossessiva frasi
sconnesse tipo “stanno avanzando” o “bonificano la
zona”), mentre la spalla Vespa si preoccupava di
assolvere i soldati anche in caso di vittime civili,
come accaduto a Najaf il 31 ottobre 2003, vittime donne
e bambini: “Questi ragazzi sono molto giovani, hanno
l’incubo del kamikaze, sono pronti a sparare su chiunque
non si fermi all’alt”, l’inaspettato scatto rabbioso
quando un ospite ricordava i colpi dei militari italiani
sulle ambulanze, peraltro già provati da tempo (“Sta
dicendo questo???”, incalzava, dimenticando che la
favola dell’italiano buono – lettura consigliata: la
grande proletaria s’è mossa di Pascoli - è morta
sessant’anni fa, nelle nuvole di gas coloniale),
l’inquietante presentazione all’ospite Berlusconi del
plastico del progettato ponte sullo stretto di Messina
(con annessa domanda graffiante da giornalista di razza:
“è un sogno?”; “uno spettacolo sconcertante e
repellente, una catastrofe per il servizio pubblico,
un’ignominia per il giornalismo” per Claudio
Petruccioli, presidente della Commissione
parlamentare di Vigilanza, che evidentemente pensava più
ad un incubo d’origine gastrica).
Ogni
mattina il buon giornalista deve dare un dispiacere a
qualcuno (B.Croce): come si vede, a Porta a porta
si preferiscono altre letture.
Quando
si affronta questo problema esempi del genere emergono a
decine, ed ognuno di questi giustificherebbe una dura
reazione del pubblico, se questo non fosse ormai avvezzo
al “talk-reality show”,
all’intrattenimento mascherato da informazione
(altrimenti detto “infotainment”),
in cui ognuno rivendica i meriti della propria fazione,
intervallato dalla pubblicità, fino al fischio finale.
“Il nuovo regime” ha scritto Carlo Freccero, che
qualcosa ne capisce, “ha i suoi spazi in tv, nel salotto
di Vespa, dove il confronto è attutito, i dibattiti
volutamente svuotati di senso e simulati fra sostenitori
di una stessa tesi”.
Le
recenti intercettazioni della procura di Potenza
sui maneggi intorno al casinò di Campione d’Italia, ai
Monopoli di Stato e alla Rai, hanno smascherato però
l’abituale approccio alla professione di Vespa;
soprattutto, risalta agli occhi la conversazione
telefonica del 4 maggio 2005 con Salvo Sottile
(“Salvo”, il protagonista di “vallettopoli” e dei
“colloqui pre-assunzione” con alcune disponibili
vallette), portavoce di Gianfranco Fini.
La
trascrivo, parola per parola:
VESPA:
“Pronto?”
SOTTILE: “Bruno? Salvatore”
V:
“ehi”
S:
“senti, come è strutturata la trasmissione?” (Porta a
Porta, ndr.)
V: “e
niente, dipende da voi”
S:
“no, aspetta (…)”
V: “gliela
strutturiamo, gliela confezioniamo addosso”
S:
“che fai, fai una… una ricostruzione sui documenti che
ci sono?”
V:
“facciamo, sì”
S:
“oppure fate (…)”
V: “no
no, allora lo, ti facciamo, il Berlusconi in Parlamento
S:
“Berlusconi in Parlamento”
V:
“perfetto”
S:
“Uhm”
V:
“Poi i due rapporti insieme”
S: “I
due rapporti insieme”
V:
“Poi un pezzo sull’inchiesta di, di Ionta eehh” (Ionta
Franco, pm romano che indaga sul terrorismo islamico,
ndr)
S: “Un
pezzo sull’inchiesta di Ionta”
V:
“Esattamente, e basta insomma. E poi facciamo un
pezzettino.. Niente, domani viene a fare una conferenza
stampa l’avvocato di Saddam Hussein”
S:
“Uhm”
V: “E
se a lui facesse piacere lo potremmo invitare, ma sennò
facciamo un pezzettino..”
S:
“Uhm, uhm”
V:
“..quello che dice nella conferenza stampa”
S:
“Ma, vabbè, fai un pezzettino delle confere..”
V:
“Come contraddittore?”
S:
“Eh, … non so, tu chi c’hai, Fassino, chi c’hai?”
V:
“Non lo so, no, uno che, che proponevamo noi se lui non
hai niente in contrario, sarebbe Rutelli”
S:
“Uhm”
V:
“Non gli va? (…)”
S:
“Non lo so, no.. . non lo so, aspetta un attimo (…) E di
altre persone chi c’è? Chi c’è in più?”
V: “Di
altre persone ci sarebbero Mario Arpino..”
S:
“Mario Arpino.”
V:
“Mario Arpino, eee, Margelletti eventualmente..”
S:
“Margelletti, ho capito”
V: “E
poi in collegamento Luttwak e Rula” (Jebreal,
giornalista di La7, molto apprezzata, ma non esattamente
dal punto di vista professionale, in un adolescenziale
fuori onda del solito Brunetta, ndr)
S:
“Minchia”
V: “Ma
se li volete, eh!”
S: “E
Ru..gente che ci va in punta di vanga..”
V:
“Sì, sì, sì”
S: “Sì
sì, ecco”
V:
“Sento però dei cenni di assenso, da parte del tuo
principale”
S:
“No, non senti nessun segno di assenso (….)”
V:
(ride)
S:
“Siccome sa che tu sei un pessimo giornalista”
V: “E
che, infatti. Allora chi… allora, che facciamo, proviamo
con Rutelli?”
S:
“Gianfranco, che dici, Rutelli?”
V:
“Proviamo”
S:
“Oooo, proviamo a Fassino?”
V: “E’
che Fassino è venuto molto spesso, capisci? E’ venuto
sempre lui”
S:
“(…) Uno vale l’altro mi ha detto.”
Non
pago, per difendersi, peggiorò la situazione: “Ogni
trasmissione viene cucita addosso al protagonista, si
chiami Fini, Prodi o Pippo Baudo. E potrei citare
infinite testimonianze sui legittimi dissensi che ci
sono stati, a destra e a sinistra, sul taglio
dell’abito” (abito?, ndr). E’ la regola, tutto a posto:
ma per i consiglieri Curzi e Rizzo Nervo “la sua
posizione non è molto diversa da quella del
caporedattore Scardina che concordava con Moggi chi
doveva seguire la Juve”. Opinioni.
Un’altra
volta, il 7 marzo 2005, Sottile parla con
un’assistente di Vespa, tale “Antonella”.
ANTONELLA: “Allora Salvo, puoi parlare un secondo? Sono
Antonella”
SOTTILE: “Dimmi”
A:
“Allora no, diceva Bruno, lui pensava, al collegamento
per venti minuti, lui sa che voi Rutelli non lo volete,
per adesso, il collegamento di venti minuti, dopo che
lui è stato prima da solo, Fini no?”
S:
“Sì, sì”
A: “e
vabbè, eh o Rutelli o Fassino dice, perché lui non vede
altri.. sennò poi bisogna andare ai capigruppo, tipo
Angius”
S:
“Eh, fai un capogruppo scusa, che te frega, scusa, che
problema.. Fassino staaa..(…) martedì a, sul Tre là,
perché devi dargli un’altra..?
A:
“Ah, ah, ok e Rutelli non mi pare il caso (…). Allora
proviamo Angius?”
S:
“Prova Angius”
A: “Se
tu hai un’altra idea; a noi c’è venuto in mente questa
(..). Allora, o Angius o Castagnetti proviamo”
S:
“Sì, sì”
A:
“Eh? Vabbè, aspetta, poi invece come giornalisti
pensavamo Lucio Caracciolo da una parte e Galli della
Loggia o Panebianco dall’altra”
S: “E
quale sarebbe l’amico?”
A:
(ride) “Sarebbe Galli della Loggia o Panebianco”
S:
“Ah, ho capito”
A:
“No?”
S:
“No, vabbè, se lo decidete voi va bene..”
A:
“No..”
S:
“No, perché vorrei capire chi è che sta da una parte e
chi sta dall’altra” (ride)
A:
(ride) “Quindi no, tu dici no?”
S:
“Sì, sì, Galli della Loggia o Panebianco”
A:
“Galli della Loggia o Panebianco, e Caracciolo?”
S:
“Boh, me sembrano più, sì sì (...)”
A: “Io
proverei Caracciolo e Galli della Loggia. Se Galli della
Loggia dice no, vado su Panebianco. Poi provo Angius e
sennò Castagnetti; e poi come donne pensavamo una Rula
da una parte e una Clarissa (Burt, attrice, ndr)
dall’altra”
S:
“Una che?”
A:
“Una Rula, Jebreal, quella bellissima di La7”
S: “Ma
dài, non rompere il ca… ma che se la deve scopare o se
l’è scopata già?”
A:
(ride)
S:
“No, perché, non capisco perché deve.. no! Questa no!”
A:
“No, vabbè, questa no”
S:
“Questa è una scassacazzi, non capisco perché devi (…).
Vorrei capire questo come se la tromba”
A:
“Intanto…”
S: “Se
l’è già trombata o se la deve trombare ancora..”
A:
(ride)
S:
“Perché mò ci me.. mò glie lo dico io”
A: “Eh
eh vabbè, allora io intanto vado sui capigruppo e sui
giornalisti, poi per le donne ci risentiamo, va bene?”
S:
“(…) Ma per i giornalisti (…). Galli della Loggia mi
sembra molto fumoso, come dire.
A:
“Preferisci Panebianco?”
S: “E’
uno più… soli…”
A:
“Più conceto”
S:
“Più concreto, invita Panebianco”
A:
“Allora Caracciolo-Panebianco provo. Va bene?”
S:
“Ciao, ok, ciao”
A:
“Vabbè, ciao”
Chissà
chi consideravano padrone di casa, tra Vespa e Sottile,
gli ospiti invitati in trasmissione; in ogni caso, si
tratta di intercettazioni quantomeno rivelatrici,
imbarazzanti, preoccupanti, ma anche involontariamente
divertenti: in un’altra telefonata, del 9 marzo 2005,
Salvo non solo stabiliva – riferendo i desiderata
di Fini – che la comparsata del fratello di George Bush
sr., proposta dal conduttore, non era necessaria (SALVO:
“Bruno lascia perdere”, VESPA: “Va bene”), ma si
raccomandava di essere puntuali, per non perdere la
partita serale.
In una
qualsiasi democrazia occidentale tutto questo sarebbe
considerato deontologicamente scorretto, e qualcuno
(l’Ordine dei giornalisti? l’editore? il pubblico
pagante?) protesterebbe, manifesterebbe, griderebbe allo
scandalo, ma non in Italia, il Paese dove il suddetto
intercettato si permette di attaccare impunemente (ed in
ogni circostanza) la procura di Potenza colpevole,
soprattutto, di aver svelato queste discutibili
abitudini.
Tempo
dopo, lo ascolto per caso (e con il consueto terrore)
cimentarsi in un ardito “ragazzi, imparate il
mestiere!”, puntualmente proferito ogni qualvolta
sottoposto a critica.
Se
potessi intervistarlo, dal mio umile punto di vista,
porrei una domanda semplice semplice.
Quale?
Riferimenti bibliografici:
M. Travaglio, “La scomparsa
dei fatti”, Il saggiatore 2007
N. Rangeri, “Chi l’ha
vista?”, Rizzoli 2007
C. Maltese, “Come ti sei
ridotto; modesta proposta di sopravvivenza al declino
della nazione”, Feltrinelli 2006
A. Grasso , “Enciclopedia
della televisione”, 1996
S. Orlando, “la Repubblica
del ricatto”, Chiarelettere 2008
Si consiglia, a chi volesse
approfondire l’argomento, la consultazione di materiale
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