N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte X - le donne: una classe "trasversale"
di Gianluca Seramondi
Vorrei
concludere
questa
serie
di
articoli
che
hanno
descritto
seppure
sommariamente
la
vita
della
classi
subalterne
sul
fronte
e
all’interno
dell’Italia
durante
la
Grande
Guerra,
accennando
alla
questione
femminile,
perché,
paradossalmente,
sulle
donne
gravarono
le
conseguenze
sociali
peggiori
della
guerra:
dovevano
nello
stesso
tempo
e da
sole
«affrontare
il
lavoro…
la
cura
dei
figli
e
degli
anziani,
l’acquisto
dei
generi
di
prima
necessità»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
120).
Come
più
volte
si è
accennato,
a
causa
della
guerra
le
donne
si
trovarono
ad
agire
in
tutti
i
settori
produttivi
della
società.
La
loro
presenza
aumentò
in
maniera
assoluta
in
quasi
tutti
i
campi
della
società.
Funsero
da
trait
d’union
tra
le
fabbriche
e la
società.
Uscirono
dalle
rassicuranti
ma
anche
soffocanti
mura
domestiche.
Furono
investite
di
mansioni
e
responsabilità
fin
lì
riservate
o
delegate
agli
uomini.
Nelle
campagne,
a
causa
dell’invio
degli
uomini
al
fronte,
le
donne
furono
le
protagoniste
assolute
delle
agitazioni
e
delle
rivolte.
Soprattutto
le
contadine
inurbate
inquietarono
più
di
altre
figure
il
mondo
maschile
perché
costituivano
«un
elemento
di
lacerazione
…sia
nell’universo
familiare
e
nel
tessuto
della
società
contadina
e
paesana...
sia
negli
assetti
consolidati
della
fabbrica:
dove
le
classi
sociali
si
rispecchiano
in
simmetrie
gerarchiche
messe
a
rischio
da
quella
presenza
imprevista
e
difforme
di
manodopera
industrialmente
analfabeta
e
senza
un
passato
omogeneo,
capace
con
la
sua
anomalia
di
dare
impaccio
sia
alle
norme
padronali
sia
a
quelle
operaie»
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
328).
Le
donne
in
qualche
modo
costituivano
(costituiscono
ancora?)
una
sorta
di
classe
subalterna
trasversale
alle
classi
sociali.
Il
marchio
di
queste
ultime
pesò
sul
modo
in
cui
esse
vissero
l’esperienza
della
guerra
e
quella
trasversalità
non
si
tradusse
in
solidarietà
interclassista
fondata
sulla
comune
estraneità
ai
processi
decisionali
in
ogni
ambito
fosse
esso
privato
o
pubblico.
Per
le
donne
delle
classi
popolari
specie
contadine
il
trovarsi
di
punto
in
bianco
senza
il
supporto
maschile
significò
ristrettezze
economiche
e un
aggravio
di
lavoro.
Certo
per
le
contadine
in
particolare
del
Centro
Nord,
la
guerra
rappresentò
un
ampliamento
di
ruoli
e
mansioni
già
ricoperti
gli
uni
e
svolte
le
altre
in
precedenza.
Per
quelle
che
entravano
in
fabbrica
fu
la
fine
dell’oppressione
paterna
e la
prima
esperienza
di
libertà
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.
187).
La
protesta
delle
une
e
delle
altre
poi
pungolò
le
autorità
e
l’opinione
pubblica
a
tal
punto
che
essa
«Per
la
prima
volta
… si
pose
il
problema
dello
sfruttamento
lavorativo
delle
donne
e
della
necessità
di
una
serie
di
interventi
di
assistenza
e di
previdenza
a
loro
favore»
(Giovanna
Procacci,1999,
p.
248).
Per
le
donne
delle
classi
medie,
più
attaccate
agli
ideali
patriottici
(Antonio
Gibelli,
2007,
pp.
205
e
sgg)
–
forse
anche
per
rompere
la
campana
di
vetro
che
impediva
loro
l’elaborazione
di
una
propria
politica
e di
un
proprio
patriottismo
- la
guerra
rappresentò
la
possibilità
di
recidere
il
cordone
ombelicale
con
la
famiglia
e
impegnarsi
in
attività
sociali
pubblicamente
riconosciute,
in
particolare
quella
assistenziale.
En
passant,
a
proposito
di
patriottismo
femminile,
merita
ricordare
che
per
quanto
le
donne
italiane
fossero
state
impegnate
negli
eventi
rivoluzionari
risorgimentali
(1848-49
e
1859-60)
e
per
quanto
le
donne
delle
classi
più
agiate
avessero
guadagnato
un
ragguardevole
grado
di
consapevolezza
politica
anche
democratica,
liberale
e
combattiva
sul
fronte
della
causa
dell’emancipazione
femminile,
dei
diritti
civili
del
patriottismo,
tuttavia
in
Italia
non
si
produsse
una
definizione
nuova
della
femminilità
e
continuò
a
prevalere
il
concetto
di
«femminilità
rispettabile»
consona
al
decoro
borghese
e
poco
avvezza
per
esempio
a
costruire
materialmente
barricate.
(Su
questi
temi
cfr.
Derek
Beale-
Eugenio
F.
Bigini,
2005,
pp.
181-201).
Tornando
alla
Grande
Guerra,
«Nell’assistenzialismo
patriottico
confluivano
la
tradizione
caritativa
cattolica,
una
filantropia
più
laica,
l’impegno
elaborato
dal
femminismo.
Fu
alimentato
da
donne
di
estrazione
borghese
e
aristocratica
e si
esplicava
come
visita
e
soccorso
alle
famiglie
dei
mobilitati,
ai
soldati
in
licenza
o in
ospedale
a
cui
portavano
piccoli
doni»
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.197).
Nella
gamma
di
figure
che
popolano
l’assistenza
una,
in
particolare,
è
significativa.
È
quella
della
madrina
di
guerra,
che
stabiliva
con
un
soldato
al
fronte
una
relazione
epistolare
di
assistenza
spirituale
e
che
poteva
essere
interpretata
in
vari
modi:
materno,
sororale,
amichevole
e
amoroso.
(Mario
Isnenghi-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
330-331).
Questo
volontariato
caritatevole,
che
esaltava
i
tipici
ruoli
e
lavori
femminili,
tuttavia
non
gettò
un
ponte
oltre
le
distanze
di
classe,
che
di
contro
la
guerra
accentuò
giacché
le
volontarie
furono
percepite
sempre
come
persone
che
non
pativano
la
fame
e
che
per
di
più
imboscavano
i
propri
figli.
Questo
fermento,
queste
modificazioni
che
andavano
a
incidere
sull’ordine
sociale
non
potevano
rimanere
senza
risposta.
Già
durante
la
guerra,
la
pubblicità
e la
propaganda
riproponevano
senza
mezzi
termini
la
centralità
della
famiglia
imperniata
sulla
figura
della
donna
madre
e
sposa,
ma
soprattutto
madre,
così
da
arginare
le
spinte
centrifughe
che
l’eccezionalità
della
situazione
poteva
alimentare
giacché
scollegava
le
donne
dalla
famiglia
quale
unico
orizzonte
di
comprensione
sia
della
propria
identità
sia
di
quella
del
soldato
partito
per
il
fronte
(Mario
Isnenghi-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
331-334).
Anche
dopo
la
guerra
prese
forma
il
tentativo
di
ristabilire
l’equilibrio
rovesciato
licenziando
le
donne
dalle
fabbriche,
sia
al
fine
di
permettere
così
il
rientro
e il
riassorbimento
dei
reduci
sia
allo
scopo
di
restaurare
il
ruolo
familiare
e
procreativo
delle
donne
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.
190).
L’attività
legislativa,
che
tra
il
1917
e il
1918
stava
iniziando
ad
affrontare
la
questione
femminile
e
aveva
riconosciuto
l’essenziale
ruolo
avuto
dalle
donne
nella
produzione,
non
mancava
di
ammonire
che
il
lavoro
femminile,
per
così
dire,
extra
moenia
dovesse
essere
circoscritto
solo
ai
casi
di
effettiva
necessità,
perché
troppo
gravi
sarebbero
stati
i
danni
sociali
e
morali
provocati
da
una
sua
incauta
legittimazione
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
243).
È
qui
utile
ricordare
che
lo
storico
Neil
McKerndrick
«ha
sostenuto,
rispetto
al
periodo
della
[prima]
industrializzazione,
che
il
massiccio
impiego
di
forza-lavoro
infantile
e
femminile,
pagata
male,
ma
pur
sempre
pagata,
da
un
lato
costituiva
una
minaccia
all’autorità
del
paterfamilias
a
causa
dell’importanza,
per
la
sopravvivenza
familiare,
dei
salari
di
donne
e
bambini;
dall’altro
rendeva
possibili
nuovi
consumi:
a
suo
avviso
creava
anzi
una
domanda
di
beni
di
centrale
importanza
per
lo
stesso
sviluppo
industriale»
(Raffaella
Sarti,
2008,
p.
277).
Sebbene
il
lavoro
femminile
fosse
considerato
una
importante
risorsa
dallo
sviluppo
capitalistico,
sia
perché
poteva
essere
sottopagato
sia
perché
faceva
nascere
nuovi
“consumatori”,
tuttavia
il
fatto
che
rendesse
più
autonome
le
donne
e
che
quindi
si
rivelasse
una
minaccia
ai
tradizionali
equilibri
familiari,
in
cui
alle
donne
era
imposto
un
destino
rigorosamente
intra
moenia,
portò
le
generazioni
successive
addirittura
«a
riscrivere
il
passato:
nonostante
donne
e
bambini
avessero
lavorato
anche
in
epoca
preindustriale,
si
sarebbe
arrivati
a
presentare
il
loro
lavoro
come
mostruosa
novità»
e a
disconoscerne
la
portata
per
lo
sviluppo
industriale
e
capitalistico
stesso
(Raffaella
Sarti,
2008,
p.
277).
Durante
la
prima
guerra
mondiale
pare
riproporsi
la
stessa
dialettica.
Per
esempio,
le
attività
infermieristiche
cui
si
dedicarono
le
donne
soprattutto
dei
ceti
medi
furono
ripulite
dagli
stessi
soldati
di
ogni
pur
sfumata
aura
erotica
che
la
promiscua
confidenza
con
i
militari
inevitabilmente
faceva
sorgere
loro
intorno,
e le
protagoniste
furono
involontariamente,
cioè
strutturalmente,
riassegnate
senza
residui
allo
stereotipo
della
donna
angelica
e
materna
che
si
cura
del
corpo
e
dell’animo
dell’uomo
(Antonio
Gibelli,
2007,
pp.
197-205).
Non
è
così
un
caso
che
nelle
donne
impegnate
nella
volontaristica
e
patriottica
assistenza
alle
classi
subalterne
si
apprezzavano
e si
esaltavano
«il
ruolo
materno
della
donna,
una
maternità
simbolica
per
così
dire
estesa
dalla
sfera
privata
a
quella
pubblica»
(Antonio
Gibelli,
2007.,
pp.
198).
Come
a
dire
che,
sebbene
fuori
delle
mura
familiari,
le
infermiere
e le
volontarie
dell’assistenza
in
quanto
donne
ne
sono
ancora
essenzialmente
all’interno:
l’infermiera
e
l’assistente
erano,
si
potrebbe
dire,
una
proiezione
sull’esterno
dell’asfittico
universo
domestico
patriarcale.
Un
tentativo
di
esorcizzare
lo
sconcerto
che
il
femminile
fuoriuscito
dai
confini
stabiliti
poteva
suscitare
si
può
ravvisare
anche
nel
modo
in
cui
si
reagì
agli
stupri
subiti
dalle
donne
nelle
zone
occupate
del
Veneto
e
del
Friuli
dopo
Caporetto:
l’orrore
e
l’indignazione
che
provocavano
erano
del
tutto
speciali
perché
il
corpo
della
donna
violata
era
assimilato
al
corpo
della
nazione
umiliato.
In
questa
chiave
va
inquadrato
il
dibattito
sull’aborto
da
permettere
alle
donne
che
dopo
gli
stupri
rimasero
incinta.
Non
si
poneva
al
centro
la
donna
o il
nascituro
ma
il
fatto
che
il
bambino
sarebbe
stato
sicuramente
un
degenerato
perché
nato
da
un
padre,
il
nemico,
demonizzato.
«Nel
passaggio
dal
diritto
(delle
donne
colpite)
al
dovere
(per
la
collettività)
dell’aborto,
e
nell’attribuzione
allo
stato
dell’esercizio
legittimo
dell’infanticidio
nei
confronti
di
questi
“figli
del
nemico”,
si
rivelava
il
risvolto
strumentale
del
rispetto
e
della
compassione
per
la
sofferenza
delle
donne
e
veniva
in
primo
piano
la
rivendicazione
del
diritto
dello
stato
stesso
alla
“difesa
della
razza”:
un’aberrazione…
gravida
di
tragici
sviluppi»
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.
302).
A
fine
guerra
pure
da
parte
delle
donne
delle
classi
subalterne
ci
fu
il
rifluire
spontaneo
nelle
nicchie
riservate
loro
dalla
tradizione.
Esse
vissero
l’esperienza
di
lavoro
nelle
fabbriche
come
un’esperienza
affatto
transitoria.
E
nemmeno
la
struttura
tradizionale
della
famiglia
ne
venne
modificata,
considerato
che
il
ruolo
direttivo
che
fu
dei
mariti
richiamati
fu
ricoperto
in
loro
assenza
dagli
anziani.
Tuttavia
«la
guerra
fornì
un
bagaglio
culturale
che
anche
le
donne
conservarono»
e
che
«ne
modificò,
se
non
l’immediato
comportamento,
la
mentalità»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
250).
Come
durante
la
prima
industrializzazione,
da
un
lato
le
donne
e i
ragazzi
erano
risorse
umane
da
allocare
nelle
fabbriche
in
sostituzione
dei
richiamati,
dei
quali
le
une
e
gli
altri
assimilarono
inoltre
le
abitudini
e i
consumi
più
dannosi:
alcol,
fumo,
frequentazione
di
locali
per
il
divertimento.
Dall’altro,
al
rifluire
dei
richiamati
nei
territori
di
provenienza
per
la
fine
della
guerra,
le
donne
impegnate
in
attività
extra
moenia
divennero
a
tutti
gli
effetti
un
pericolo
da
scongiurare:
non
più
risorse
da
valorizzare/sfruttare
in
ambito
produttivo,
ma
potenziali
fattori
di
disturbo
e
sfascio
dell’ordine
sociale
costituito.
Anche
questo
fu
la
Grande
Guerra.
Riferimenti
bibliografici:
Derek
Beale,
Eugenio
F.
Bigini
The
Risorgimento
and
the
Unification
of
Italy,
Longman,
Pearson
Education
Limited,
2002,
trad.
It.
Di
Maria
Luisa
Bassi,
Il
Risorgimento
e
l’unificazione
Italiana,
Bologna,
Il
Mulino,
2005.
Antonio
Gibelli
La
grande
guerra
degli
italiani,
1915-1918,
Milano,
Rcs,
2007,
p.
187.
Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
La
grande
guerra
1914-1918,
Firenze,
La
Nuova
Italia,
2001,
p.
328.
Giovanna
Procacci,
Dalla
rassegnazione
alla
rivolta.
Mentalità
e
comportamenti
popolari
nella
grande
guerra,
Roma,
Bulzoni
Editore,
1999,
p.
120.
Raffaella
Sarti,
Vita
di
casa.
Abitare,
mangiare,
vestire
nell’Europa
moderna,
Roma-Bari,
Laterza,
2008,
p.
277.