N. 40 - Aprile 2011
(LXXI)
Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte VIIi - Mobilitazione Industriale
e nuova disciplina negli impianti industriali
di Gianluca Seramondi
Ovviamente
pure
le
città
industriali
subirono
i
disagi
imposti
dal
regime
di
guerra.
Gli
impianti
industriali
per
la
produzione
bellica,
impianti
cosiddetti
«ausiliari»,
erano
gestiti
dal
Ministero
per
le
armi
e le
munizioni
e
dal
sottosegretariato
per
la
Mobilitazione
Industriale
(MI).
Istituita
con
il
R.D.
n.
993
del
26/6/1915,
la
MI,
che
diverrà
ministero
nel
luglio
del
1917
quando
le
furono
assegnati
tutti
i
compiti
già
in
essere
relativi
alla
vigilanza
disciplinare,
fu
investita
della
seguente
serie
di
incombenze:
«la
scelta
dei
materiali
da
produrre,
l’acquisto
delle
materie
prime
in
Italia
e
all’estero
e la
loro
assegnazione
alle
aziende,
la
stipulazione
di
commesse
(con
relativi
anticipi)
allettanti
per
gli
imprenditori,
il
controllo
quantitativo
e
qualitativo
della
produzione.
[Doveva]
poi
occuparsi
della
manodopera,
quella
militare
esonerata
dal
servizio
al
fronte
e
quella
civile
da
reperire
e
stabilizzare,
nonché
delle
condizioni
di
lavoro
(orari,
cottimi,
sicurezza)
e
dei
salari
(mediazione
tra
padroni
e
operai
e
decisione
sulle
controversie),
ma
anche
di
preparazione
professionale,
assistenza,
previdenza»
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
293).
Sul
fronte
delle
maestranze
la
MI
decideva
quanti
militari
dovessero
essere
destinati
agli
impianti
industriali,
poteva
disporre
del
blocco
dei
salari,
che
persero
di
circa
il
40%
il
loro
potere
d’acquisto
durante
la
guerra,
e
vietare
le
dimissioni.
La
MI
era
composta
da 7
poi
11
Comitati
regionali
e da
un
Comitato
centrale.
Gli
organismi
regionali
erano
costituiti
da 2
militari,
da 4
o 6
civili
scelti
in
base
alle
loro
competenze
tecniche
-
quindi
erano
in
primo
luogo
industriali
- e
da
una
rappresentanza
consultiva
di
cui
facevano
parte
ancora
una
volta
gli
imprenditori
e
con
essi
quegli
operai
più
vicini
alla
direzione
delle
fabbriche
da
cui
provenivano.
Già
da
questo
si
capisce
che
di
fatto
l’obiettivo
della
MI
si
inverò
in
quello
di
«porre
sotto
il
controllo
dello
Stato
– in
particolare
dei
militari
– i
rapporti
di
lavoro,
e di
impedire
attraverso
la
militarizzazione
degli
operai,
la
conflittualità»(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
158),
anche
se,
va
precisato,
essa
acquisì
piene
competenze
in
ambito
disciplinare
solo
cono
il
D.
Lt.
n.
1093
del
5/7/1917.
La
MI
aveva
competenza
su
di
1976
impianti
industriali
concentrati
soprattutto
in
Lombardia,
Piemonte,
Liguria
e a
Napoli.
Al
1918
gli
impianti
controllati
dai
Comitati
regionali
della
MI
erano
così
distribuiti:
Milano:
545;
Torino:
371;
Genova:
200;
Palermo:
185;
Firenze:
171.
Il
38%
di
essi
operava
nel
settore
della
lavorazione
dei
metalli,
cui
seguivano
le
fabbriche
attive
nei
settori
chimico
ed
elettrochimico
e
poi
le
imprese
in
quasi
tutti
i
settori
produttivi.
Nonostante
questa
estensione
del
campo
di
azione,
la
MI
non
previde
controlli
accurati
della
contabilità
delle
aziende
e
dell’effettivo
costo
dei
loro
manufatti.
Sicuramente
la
situazione
era
causata
dal
ritardo
dello
sviluppo
italiano
e
dalle
impellenti
necessità
richieste
dalla
guerra.
Tuttavia
la
Commissione
di
indagine
sulle
spese
di
guerra
avviata
al
termine
del
conflitto,
che
aveva
il
compito
di
fare
chiarezza
sugli
abusi
compiuti
dagli
industriali
e
sulle
loro
collusione
con
i
poteri
pubblici,
fu
chiusa
da
Mussolini
in
fretta
e
furia
e i
risultati
furono
pubblicati
parzialmente
solo
nel
1923.
Gli
impianti
industriali
gestiti
dalla
MI
occupavano
902.000
operai,
dei
quali
322.000
erano
militari.
Il
48%
delle
maestranze
era
occupato
nelle
aziende
meccaniche,
il
17%
in
quelle
siderurgiche,
il
7%
in
quelle
estrattive,
e il
resto
distribuito
nei
diversi
settori.
Il
numero
delle
maestranze
tuttavia
non
era
sufficiente
a
garantire
la
produzione
richiesta
dal
conflitto.
Si
assunsero
allora
le
donne,
dalle
quali
ovviamente
ci
si
aspettava
la
presunta
tradizionale
docilità.
Di
conseguenza
il
numero
di
donne
occupate
nelle
industrie
passò
dalle
23.000
del
1915
alle
198.000
del
1918.
Si
ricorse
pure
all’apporto
dei
ragazzi
(il
6,6%
delle
maestranze),
i
quali,
spesso
di
età
inferiore
ai
15
anni
stabiliti
dalla
legge,
erano
per
lo
più
impiegati
nella
piccola
industria.
Per
quanto
riguarda
le
vertenze
economiche
– le
uniche
cui
lo
stesso
sindacato
si
costrinse
in
cambio
di
miglioramenti
sindacali
e al
fine
di
ottenere
la
legittimazione
del
proprio
ruolo
-,
la
MI
sostituì
lo
sciopero
con
l’arbitrato,
per
cui
se
tra
le
parti
non
si
raggiungeva
un
accordo
di
loro
sponte
interveniva
un
membro
del
Comitato
regionale
in
qualità
di
mediatore
(vertenza
composta),
il
cui
eventuale
fallimento
spingeva
il
Comitato
regionale
ad
emettere
un’ordinanza
esecutiva
provvisoria,
contro
cui
si
poteva
ricorrere
presse
il
Comitato
centrale
le
cui
decisioni
(vertenze
decise)
erano
inappellabili.
Negli
ultimi
due
anni
di
guerra
le
vertenze
composte
o
decise
aumentarono
sensibilmente,
segno
di
un
riacquisita
combattività
operaia.
La
MI
guidata
da
Dallolio
coinvolse
i
sindacati
– ma
non
l’Unione
sindacale
italiana
legata
al
sindacalismo
rivoluzionario,
che
si
rese
protagonista
delle
rivolte
operaie
in
Liguria
- e
introdusse
forme
moderne
di
contrattazione
nazionale
e di
previdenza.
Furono
attuati
miglioramenti
nel
campo
della
sicurezza
e
dalla
salute
degli
opera:
per
esempio
ispezioni
igienico-sanitarie,
sistema
assicurativo
e
previdenziale
nazionale,
regolamentazione
automatica
dei
salari,
anche
se
nell’ottica
di
evitare
interruzioni
nella
produzione.
Nonostante
ciò
imprenditori
e
militari,
nella
stragrande
maggioranza,
consideravano
il
duro
trattamento
come
l’unico
metodo
per
assicurarsi
la
produttività
degli
operai.
La
MI
stessa
forniva
una
sponda
a
questo
atteggiamento.
Realizzò
infatti
una
disciplina
nei
luoghi
di
lavoro
imperniata
su
lavoro
coatto,
tribunali
militari,
restrizioni
varie.
Gli
industriali
accolsero
con
favore
queste
misure.
E,
sebbene
la
MI
avesse
aperto
ai
sindacati,
non
retrocedettero
dalla
linea
di
repressione
nei
confronti
di
sindacalisti
e
presunti
sobillatori
e si
opposero
all’intervento
statale
nell’ambito
della
produzione
e
dell’organizzazione
del
lavoro.
Dunque,
e a
differenza
di
quanto
accadeva
negli
altri
paesi,
l’organizzazione
delle
fabbriche
ausiliarie
fu
di
fatto
interamente
militarizzata:
«sospensione
di
tutte
le
conquiste
sindacali
(a
cominciare
dal
diritto
di
sciopero),
orari
e
cottimi
in
funzione
dell’emergenza,
multe
e
licenziamenti
per
donne
e
ragazzi,
disciplina
militare
per
gli
uomini
(prigione,
processi,
invio
al
fronte)»
(Mario
Isnenghi-Giorgio
Rochat,
2001,
p.
295).
Negli
stabilimenti
ausiliari
«tutta
la
classe
operaia
…
venne
sottoposta
alla
disciplina
militare,
ossia
alle
regole
del
codice
penale
militare
nel
caso
di
colpe
considerate
gravi
(allontanamento
dalla
fabbrica
senza
autorizzazione,
mancanza
di
rispetto
verso
i
superiori,
auto
licenziamento,
ecc.
)»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
19).
E,
particolare
non
secondario,
secondo
l’interpretazione
giurisprudenziale
più
accreditata,
gli
operai
erano
soggetti
al
codice
militare
anche
se
le
mancanze
fossero
state
commesse
fuori
della
fabbrica.
La
normativa
distingueva
gli
operai
nelle
seguenti
categorie:
non
soggetti
ad
obblighi
militari
e
soggetti
a
tali
obblighi.
Questi
ultimi
erano
composti
da
esonerati,
riformati
o
appartenenti
a
classi
di
età
non
ancora
richiamati,
e
militari-operai,
i
quali
avevano
l’obbligo
di
portare
la
divisa
o,
in
alternativa,
un
distintivo
che
ne
permetteva
l’identificazione,
secondo
una
pratica
antica
di
marcatura
dei
subalterni
(si
veda
su
questo
punto
Raffaella
Sarti,
2008,
pp.
261-263).
La
regolamentazione
della
figura
del
militare-operaio,
dispensato
dal
servizio
militare
per
le
esigenze
della
produzione
bellica,
offriva
alle
autorità
militari
un
potente
strumento
di
ricatto.
Difatti,
permetteva
loro
di
revocare
la
dispensa
e di
inviare
al
fronte
l’operaio
raggiunto
dal
provvedimento
di
revoca.
È
ovvio
che
una
simile
possibilità
era
una
minaccia
più
che
sufficiente
al
fine
di
controllare
il
comportamento
e la
conflittualità
sindacale
degli
operai.
A
corollario
di
ciò
va
ricordato
che
in
ambito
disciplinare
non
fu
prevista
l’istituzione
di
uno
strumento
analogo
all’arbitrato
in
vigore
nel
campo
delle
vertenze
economiche.
La
legislazione
inoltre
permetteva
sia
agli
industriali
sia
ai
comandi
militari
di
ordinare
degli
ufficiali
con
compiti
di
«sorveglianza
disciplinare».
Questi
ufficiali
godevano
di
un
certo
margine
di
libertà
nel
decidere
in
relazione
ai
reati
di
ordine
non
penale
di
minore
entità
e
nel
comminare
le
relative
pene.
Accanto
ad
essi
agivano
i
cosiddetti
fiduciari,
funzionari
travestiti
da
operai
inviati
dei
Comitati
regionali
nelle
fabbriche,
che
avevano
il
compito
di
spiare
i
lavoratori
e
bloccare
per
tempo
militanti
politici
o
sindacali,
presunti
sovversivi,
sobillatori,
etc.
etc.
(Su
questi
temi
Giovanna
Procacci,
1999,
pp.
158
e
sgg).
Sul
finire
del
1916
furono
varate
altre
due
norme
con
il
D.
Lt.
n.
1684
del
5/11/1916
che
aggravarono
ulteriormente
le
condizioni
di
lavoro
degli
operai.
La
prima
puniva
ogni
interruzione
pur
breve
del
lavoro
per
motivi
che
non
fossero
aziendali.
Questa
norma
colpiva
soprattutto
gli
operai-contadini
che
si
assentavano
dalla
fabbriche
per
interventi
agricoli
urgenti;
le
donne
che
se
ne
allontanavano
per
necessità
familiari
e in
genere
tutta
la
nuova
classe
operaia
adusa
a
manifestare
il
proprio
malcontento
con
brevi
e
immediate
sospensioni
del
lavoro.
Ma
colpiva
anche
gli
operai
che,
secondo
una
tradizione
di
solidarietà
ben
radicata,
partecipavano
ai
funerali
di
propri
compagni
deceduti
a
causa
di
infortuni
sul
lavoro.
Questa
interdizione
fu
alla
base
di
una
violenta
protesta
degli
operai
di
Napoli.
La
seconda
norma
equiparava
la
gerarchia
tecnica
degli
impianti
industriali
alla
gerarchia
militare,
sicché
ogni
dissenso
rivolto
perfino
ad
un
semplice
caporeparto
era
passibile
di
essere
considerato
reato
di
insubordinazione.
Ovviamente,
i
superiori
profittarono
immediatamente
della
possibilità
loro
concessa
per
prodursi
in
apprezzamenti
irriguardosi
nei
confronti
delle
donne,
per
esempio,
o
per
punire
ogni
opinione
fosse
pure
solamente
tecnica
che
un
loro
sottoposto
poteva
esprimere
in
forza
della
propria
esperienza.
Riferimenti
bibliografici:
Giovanna
Procacci,
Dalla
rassegnazione
alla
rivolta.
Mentalità
e
comportamenti
popolari
nella
grande
guerra,
Roma,
Bulzoni
Editore,
1999.
Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
La
grande
guerra
1914-1918,
Firenze,
La
Nuova
Italia,
2001.
Antonio
Gibelli
La
grande
guerra
degli
italiani,
1915-1918,
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Rcs,
2007.
Raffaella
Sarti,
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di
casa.
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nell’Europa
moderna,
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Laterza,
2008.