N. 39 - Marzo 2011
(LXX)
Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte VII - La protesta delle campagne
di Gianluca Seramondi
In campagna, prima di Caporetto, non furono attuate misure
efficaci
di
sostegno
alle
famiglie
contadine.
I
sussidi
“agricoli”
furono
inferiori
a
quelli
europei
e
soggetti
a
forti
restrizioni:
non
venivano
dati
a
chi
avesse
un
appezzamento
di
terra
(pure
insufficiente
alla
sopravvivenza)
o
alle
famiglie
di
militari
sospettati
di
diserzione.
Il mondo rurale diffidava delle città, era estraneo alla
vita
politica,
non
era
organizzato
e
inclinava
a
riconoscersi
più
nelle
parrocchie
che
in
eventuali
formazioni
partitiche
o
sindacali.
Da
parte
dei
contadini,
come
già
si è
detto
negli
articoli
precedenti,
dapprima
ci
si
rassegnò
alla
guerra
come
a un
cataclisma
naturale,
che,
in
quanto
tale,
ingenuamente
si
pensava
non
facesse
distinzioni
sociali.
Così,
nei
primi
mesi
di
guerra
le
uniche
proteste
furono
quelle
spontanee
attuate
dalle
donne
in
occasione
della
partenza
degli
uomini.
Oltre all’immancabile azione di repressione e intimidazione
del
dissenso
esercitata
dalle
autorità
statali,
che
non
esitarono
a
colpire
anche
i
parroci
di
campagna
i
quali
erano
i
principali
punti
di
riferimento
per
le
genti
contadine,
questa
strana
situazione
di
“serenità
sociale”
che
pareva
avvolgere
il
mondo
rurale
era
dovuta
ad
altri
fattori.
Innanzitutto
nel
distendere
il
clima
delle
comunità
agricole,
giocava
un
ruolo
per
nulla
secondario
l’analfabetismo
diffuso
che
impedì
in
prima
battuta
una
più
puntuale
circolazione
di
informazioni
e
dunque
la
formazione
della
coscienza
di
cosa
fosse
realmente
il
fronte
e la
vita
nelle
trincee.
Poi, il 1915 fu un anno relativamente buono per le campagne,
perché
l’inflazione
aumentò
il
costo
dei
generi
alimentari
e
svalutò
i
canoni
di
affitto
a
tutto
vantaggio
dei
contadini.
Infine,
i
contadini
del
centro
e
del
nord
che
non
partirono
per
il
fronte
trovarono
lavoro
nelle
manifatture
che
erano
sorte
nelle
città
e
nelle
loro
periferie
e
poterono
così
anzitutto
far
fronte
alle
penuria
causata
dalla
guerra
e
inoltre
continuare
in
maniera
più
fruttifera
la
tradizione
tutta
italiana
di
coniugare
lavoro
nei
campi
e
lavoro
in
fabbrica.
Questa
tradizione
coinvolse
in
particolare
le
donne,
che
già
aduse
al
lavoro
nei
campi,
trovarono
agevole
impiegarsi
nelle
industrie,
che
spesso
furono
impiantate
ai
confini
tra
città
e
campagne.
Negli
anni
che
seguirono
le
condizioni
delle
comunità
rurali
furono
destinate
a
peggiorare
drammaticamente
«a
causa
della
diminuzione
della
quantità
del
raccolto
per
mancanza
di
braccia,
della
fortissima
riduzione
delle
rimesse
degli
emigrati,
dei
divieti
di
esportazione
fuori
della
provincia
di
determinati
prodotti
e
soprattutto
a
causa
dei
calmieri
che
annullavano
i
benefici
dell’aumento
dei
prezzi
agricoli,
e
delle
requisizioni»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
76)
che
venivano
attuate
applicando
prezzi
inferiori
a
quelli
di
mercato.
Essendo
inoltre
tutta
l’attività
nelle
campagne
caricata
sulle
spalle
delle
donne
aumentarono
la
mortalità
femminile
e
infantile
e
gli
aborti.
La
situazione
si
rivelò
addirittura
tragica
nel
Sud
dove
non
c’erano
braccia
che
potessero
sostituire
i
richiamati,
giacché
le
donne
non
erano
abituate
al
lavoro
nei
campi.
Nel
Sud,
infatti,
i
contadini
o
erano
proprietari
di
appezzamenti
insufficienti
persino
per
l’autoconsumo
e,
poiché
proprietari,
non
ricevevano
sussidi,
oppure
lavoravano
nei
latifondi
e il
terreno
su
cui
erano
chiamati
ad
operare
era
parecchio
distante
dalla
residenza.
Si
era
così
radicata
la
separazione
tra
gli
uomini
che
lavoravano
nei
campi
e le
donne
che
invece
più
che
altrove
erano
costrette
in
casa
e
dunque
completamente
estranee
all’attività
agricola
diretta.
Nel
Sud,
inoltre,
non
esisteva
più
un’alternativa
industriale
come
nel
Centro
Nord
e
sebbene
il
governo
spronasse
il
lavoro
a
domicilio
–
per
esempio
il
confezionamento
di
indumenti
militare
–,
questa
attività
rimase
circoscritta
ai
centri
urbani.
La
Strafexpedition,
l’offensiva
austriaca
portata
tra
il
15
maggio
e il
27
giugno
1916
che
sfondò
le
linee
italiane
sugli
altipiani
veneti,
non
portò
solo
alle
dimissioni
di
Antonio
Salandra
e
alla
costituzione
del
governo
di
solidarietà
nazionale
guidato
da
Paolo
Boselli.
Diffuse
in
tutta
Italia
– e
in
coloro
che
avevano
appoggiato
la
guerra:
le
classi
medie,
gli
industriali
e lo
stesso
staff
militare
a
partire
da
Cadorna
-
sfiducia,
inquietudine,
malessere,
malcontento,
senso
di
precarietà
e di
incertezza
profondo
e
anormale.
Instillò,
anzitutto,
la
certezza
che
la
guerra
non
sarebbe
stata
breve
e la
consapevolezza
di
cosa
realmente
accadesse
al
fronte
e di
come
vivessero
i
soldati
impegnati
nel
conflitto.
Ora,
però,
«la
presa
di
coscienza
della
realtà
della
morte,
di
una
morte
non
naturale,
bensì
provocata
e
spesso
senza
giustificato
motivo,
non
induceva
più
rassegnazione;
al
contrario,
insieme
alla
rivalutazione
della
vita,
insorgeva
con
più
forza
l’istinto
di
ribellione»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
80)
nei
confronti
dei
governanti
che
avevano
voluto
una
guerra
di
cui
non
si
comprendevano
le
ragioni
e
che,
contrariamente
al
modello
della
catastrofe
naturale,
ora
era
chiaro,
non
colpiva
allo
stesso
modo
tutte
le
classi
sociali.
Da
lettere,
volantini,
denunce
per
atteggiamenti
e
comportamenti
antipatriottici,
emerge
infatti
che
la
popolazione
era
convinta
che
fossero
solo
i
poveri
a
fare
il
soldato
mentre
i
benestanti
erano
imboscati
nelle
fabbriche,
nello
Stato
o al
limite
nelle
retrovie;
che
la
guerra
fosse
stata
voluta
da
una
minoranza
per
il
proprio
esclusivo
tornaconto;
e
che
i
governanti
fossero
corrotti.
Non
a
caso
le
agitazioni,
le
rivolte,
i
tumulti,
le
proteste
che
punteggiarono
l’Italia
tra
il
1916
e il
1917
non
si
indirizzavano
innanzitutto
contro
la
guerra,
ma,
da
parte
dei
contadini,
verso
il
fenomeno
dell’“imboscamento”,
dunque
verso
una
iniqua
distribuzione
dei
costi
della
guerra.
Le
classi
popolari
urbane,
dal
loro
canto,
protestavano
e
denunciavano
le
speculazioni,
la
scarsità
dei
generi
alimentari
oppure
che
questi
venissero
accaparrati
da
pochi
“eletti”.
Questa
differenza
di
obiettivo
nelle
proteste
delle
campagne,
da
un
lato,
e
delle
città,
dall’altro,
riflette
sia
il
fatto
di
fondo
che
furono
le
popolazioni
rurali
a
dare
più
risorse
umane
alla
guerra
guerreggiata
sia
il
fatto
che
i
differenti
stili
di
vita
tra
le
classi
erano
ben
più
visibili
in
città
dove
a
fortiori
le
classi
sociali
vivevano
in
assoluta
contiguità.
Così
le
proteste
urbane
avevano
come
obiettivo
la
restaurazione
di
un
ordine
più
equo
contro
sperequazioni
e
disparità
che,
per
di
più,
sembravano
essere
state
favorite
dallo
Stato
stesso.
Inevitabile
era
che
la
pars
destruens
delle
proteste
avesse
come
pars
costruens
il
ristabilimento
di
un
ordine
sociale
più
equo.
A
questo
proposito
occorre
osservare
che
se
«in
un
paese
ancora
in
assoluta
prevalenza
contadino
e
con
estese
radici
cattoliche,
con
un
livello
di
alfabetizzazione
bassissimo
e
nel
quale
erano
ancora
molto
vive
antiche
credenze
e
arcaiche
superstizioni,
era
assi
agevole
la
diffusione
a
livello
popolare
di
concezioni
a
carattere
apocalittico
e
millenaristico»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
361),
tuttavia
la
versione
tipicamente
cattolica
di
queste
concezioni
non
solo
non
era
proiettata
in
avanti
ma
era
altresì
legata
ad
uno
schema
interpretativo,
ben
radicato
nella
tradizione
cattolica,
che
risaliva
a De
Maistre.
Secondo
questo
schema,
definibile
come
provvidenzialistico,
la
guerra
era
sia
la
punizione
divina
per
il
peccato
di
apostasia
commesso
dalle
società
europee
(tant’è
che
Benedetto
XV
non
esitò
a
equiparare
il
conflitto
al
terremoto
che
sconvolse
Messina
nel
1908)
sia
l’espiazione
della
colpa
attraverso
cui
si
sarebbe
permesso
la
ricostruzione
della
cristianità.
Benedetto
XV,
pur
adottando
il
modello
provvidenzialistico,
non
acconsentì
al
suo
elemento
catartico
di
palingenesi
della
cristianità,
mirando
piuttosto
a
far
ottenere
al
papato
un
nuovo
ruolo
direttivo
sulla
vita
internazionale
– e
per
questo
motivo
mostrò
sincero
interesse
al
progetto
wilsoniano
di
una
Società
delle
nazioni.
Pio
XI
invece
aderì
senz’altro
allo
schema
provvidenzialistico
in
ogni
sua
parte
auspicando
il
ritorno
del
regno
sociale
di
Cristo
così
come,
si
mitizzava,
si
era
esplicato
nella
società
cristiana
medioevale
in
cui
il
consorzio
umano
si
diceva
essere
stato
organizzato
dalla
suprema
sovranità
del
Salvatore
e
del
suo
vicario
in
terra
(Daniele
Menozzi,
2008,
capitoli
I e
II).
Quindi
la
tradizione
cattolica
offrì
argomenti
ben
fondati
alle
concezioni
apocalittiche
che
ad
essa
si
richiamavano
-
anche
se,
va
sottolineato,
il
Vaticano
condannò
ufficialmente
le
derive
più
spiritualiste
e
visionarie
- e
certo
tratteggiava
un
lido
cui
approdare
affatto
diverso
se
non
opposto
a
quello
prospettato
dal
socialismo,
come
si
vedrà
parlando
della
protesta
operaia.
Tornando
alle
campagne,
il
culmine
delle
jacquerie
fu
raggiunto
nella
primavera-estate
del
1917
– in
coincidenza
con
le
rivolte
operaie
più
intense.
Dopo
l’offensiva
austriaca
del
1916
e
l’acquisita
certezza
che
la
guerra
sarebbe
durata
ben
più
a
lungo
di
quanto
previsto,
lo
stato
d’animo
della
popolazione
italiana
era
dominato
dalla
convinzione
che
l’Italia
non
avrebbe
mai
potuto
affrontare
un
terzo
anno
di
guerra,
stante
la
difficoltà
negli
approvvigionamenti
di
materie
prime,
l’insufficienza
di
armi
e
munizioni
e il
timore
di
un’ulteriore
spallata
austriaca
–
questa
volta
definitiva.
Le
protagoniste
assolute
dei
tumulti
furono
le
donne,
come
del
resto
avvenne
anche
in
altri
paesi
europei.
Innanzitutto
perché
gli
uomini
erano
tutti
al
fronte.
In
secondo
luogo
perché
le
donne
si
erano
ritrovate
a
doversi
occupare
di
tutti
gli
aspetti
che
componevano
il
lavoro
agricolo,
compresi
quelli
più
burocratici:
le
donne
erano
state
così
costrette
ad
uscire
dai
confini
domestici.
In
terzo
luogo
su
esse
gravavano
le
requisizioni,
le
mancate
concessioni
di
licenze
ed
esoneri
ai
propri
compagni
al
fronte.
Le
donne,
ancora,
si
sentivano
più
estranee
allo
Stato
e
alle
sue
leggi
di
quanto
non
lo
fossero
gli
uomini
ed
erano
meno
tolleranti
rispetto
alle
restrizioni,
avendo
su
di
sé
la
responsabilità
della
cura
della
prole.
Molte
di
esse
entrarono
in
fabbrica.
E
anche
la
provvisorietà
dell’impiego
fu
motivo
di
malumore.
Il
confronto
con
le
realtà
lontane
dalle
campagne
e
con
la
burocrazia
dello
stato,
insieme
alla
lettura
dei
quotidiani
per
sapere
cosa
stesse
accadendo
al
fronte,
insieme
all’apprendimento
di
nuovi
mestieri
e al
fatto
di
doversela
cavare
da
sole,
permise
loro
di
emanciparsi
culturalmente,
ma
soprattutto
strutturò
in
loro
una
più
avveduta
«coscienza
di
sé,
un
maggiore
coraggio
nel
protestare
e
nel
pretendere
i
propri
diritti
e
gli
aiuti
promessi»
(Giovanna
Procacci,
p.
95).
Le
donne,
le
cui
agitazioni
si
avevano
in
occasioni
in
cui
si
ritrovavano
assieme
–
per
esempio
la
partenza
dei
richiamati
-
riuscivano
a
coinvolgere
anche
quei
maschi
non
ancora
raggiunti
dalla
coscrizione.
In
genere
si
trattò
di
manifestazione
spontanee,
che
si
smorzavano
nel
giro
di
poco
tempo.
Furono
frequenti
nel
Nord
più
maturo
sul
piano
delle
rivendicazioni
sociali.
Per
esempio
nelle
risaie
del
novarese
e
del
pavese
si
registrò
una
più
alta
conflittualità
sociale
e
una
più
alta
combattività
femminile
che
si
espresse
nella
forma
meglio
organizzata
dello
sciopero,
supportata
anche
dal
sindacato.
I
motivi
di
questa
maggiore
capacità
di
lotta
non
erano
solo
quelli
legati
alle
più
immediate
condizioni
di
vita
e di
lavoro,
e
cioè
salari
più
bassi
di
quelli
erogati
ai
colleghi
maschi;
riduzione
di
manodopera,
dovuta
all’invio
degli
uomini
al
fronte,
a
parità
di
livelli
produttivi;
metodi
maneschi
e
irriguardosi
da
parte
dei
proprietari;
peggioramento
delle
condizioni
di
vita
generali.
Accanto
a
questi
avevano
un
peso
non
indifferente
l’adesione
al
socialismo,
una
più
diffusa
iscrizione
alle
Camere
del
lavoro
e
una
maggiore
e
più
radicata
consapevolezza
delle
sperequazioni
a
cui
erano
soggette.
E,
infatti,
sebbene
nel
1917
vi
furono
miglioramenti
salariali
grazie
all’azione
del
sindacato
agricolo
Federterra,
le
proteste
continuarono
perché
oltre
ad
aver
di
mira
obiettivi
ben
più
determinati
dall’urgenza
del
quotidiano,
per
esempio
la
parità
di
salario
tra
uomini
e
donne
e la
giornata
lavorativa
di 8
ore,
si
inserivano
«in
un
contesto
generale
nel
quale,
anche
per
l’influenza
determinante
dell’ideologia
socialista
in
quelle
zone,
l’elemento
di
lotta
per
il
lavoro
non
fu
mai
disgiunto
da
quello
contro
la
guerra
e le
sue
conseguenze»
(Antonio
Gibelli,
p.
238).
Dopo
Caporetto
e in
particolare
nel
1918
gli
scioperi
agricoli
parvero
arrestarsi.
La
cause
sono
diverse.
Il
controllo
sociale
da
parte
delle
autorità
si
era
fatto
ben
più
serrato
sia
attraverso
misure
repressive
sia
con
le
attività
di
propaganda
e
assistenza.
Caporetto
aveva
diffuso
la
convinzione
che
la
disfatta
definitiva
dell’Italia
fosse
oramai
prossima.
Nel
1918
gli
approvvigionamenti
dall’estero
e la
diminuzione
delle
requisizioni
“compensarono”
la
resa
agricola
particolarmente
scarsa
del
1917.
Infine
la
promessa
di
terra
ai
combattenti
suggeriva
di
abbassare
i
toni.
Tuttavia
lo
stato
d’animo
delle
popolazioni
rurali
non
cambiò:
«Ostilità
alla
guerra,
odio
verso
i
proprietari,
sfiducia
nello
Stato
e
soprattutto
certezza
del
proprio
diritto
alla
terra»
erano
i
sentimenti
ben
radicati
nei
contadini.
Di
conseguenza
non
mancarono
le
agitazioni
e
non
vennero
meno
le
dimostrazioni
contro
la
guerra:
aiuto
ai
disertori,
pubbliche
espressioni
austriacante,
reazioni
violente
della
donne
in
occasioni
di
conferenze
patriottiche
o
cortei
in
cui,
per
esempio
quello
di
Coggiola
(NO),
si
gridava
«abbasso
la
guerra».
Ma
non
si
trattava
di
scioperi,
non
si
trattava
di
lotta
organizzata.
Poi
il
1918
registrò
un
nuovo
«progressivo
distacco
tra
fascia
rurale
e
fascia
urbana,
risorsero
le
antiche
diffidenze,
e si
ricostituì
la
tradizionale
forbice
tra
città
e
campagna»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.136).
È
interessante
soffermarsi
sulle
forme
che
assunsero
le
lotte
delle
donne
contadine
e
che
testimoniano
di
una
“caparbia”
durevolezza
di
tradizioni,
per
così
dire,
antimoderne.
Infatti,
tra
le
forme
più
frequentate
di
rivolta
vi
furono
ancora
durante
la
guerra
le
occupazioni
delle
terre
da
parte
sempre
delle
donne.
Le
zone
interessate
dalle
occupazione
furono
soprattutto
quelle
agricolo
del
Lazio,
(ma
avvennero
anche
a
Palermo,
Foggia,
Potenza,
Avellino,
Caserta,
Grosseto,
Venezia,
Ferrara).
L’occupazione
delle
terre
non
coltivate
era
stata
un
mezzo
di
lotta
già
percorso
nell’ultimo
decennio
del
secolo
XIX
quando
nel
1888
e
nel
1891
furono
aboliti
gli
usi
civici
delle
terre
(per
esempio
il
legnatico
e il
pascolo)
aggravando
così
le
condizioni
di
miseria
delle
popolazioni
rurali
la
cui
sussistenza
era
legata
pure
a
queste
consuetudini
“feudali”.
Va
rilevato,
a
questo
proposito,
che
le
donne
invadevano
le
terre
solo
dopo
che
i
landowners
e le
autorità,
che
comunque
simpatizzavano
per
le
occupanti
e
sollecitavano
i
proprietari
a
seppur
minime
concessioni,
non
acconsentivano
a
ripristinare
gli
usi
civici.
Le
donne
«agivano
dunque
persuase
di
compiere
un
atto
di
giustizia
restaurando
con
l’occupazione
delle
terre
i
diritti
legittimi
della
collettività»
oppure
di
compiere
un
atto
«equità
sociale:
le
terre
erano
incolte
e
alla
popolazione
urgeva
il
problema
della
sopravvivenza»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.223).
Nonostante
le
condizioni
di
arretratezza
sociale
in
cui
versava
e
nonostante
che
fosse
particolarmente
diffusa
una
concezione
della
spiritualità
cattolica
fondata
sulle
virtù
passive
dell’obbedienza
e
della
rassegnazione
–
testimoniata
da
un
clero
remissivo
e
accondiscendete
che,
stante
l’influenza
che
aveva
sulle
masse
popolari,
certo
ne
rispecchiava
e ne
dirigeva
nello
stesso
tempo
il
sentire
(Luigi
Bruti
Liberati,
1982,
p.
154),
anche
tra
le
popolazioni
rurali
del
Sud
si
registrarono
reazioni
violente,
improvvise,
distruttive,
indirizzate
contro
chi
si
riteneva
fossero
i
responsabili
delle
sofferenze
che
si
stavano
vivendo.
La
classe
dirigente
meridionale
di
fronte
a
questi
scoppi
di
astio
e
rancore
contro
lo
stato,
arrivò
addirittura
a
paventare
una
recrudescenza
del
fenomeno
del
brigantaggio.
Riferimenti
bibliografici:
Luigi
Bruti
Liberati,
Il
clero
italiano
nella
grande
guerra,
Roma,
Editori
Riuniti,
1982,
p.
154.
Antonio
Gibelli
La
grande
guerra
degli
italiani,
1915-1918,
Milano,
Rcs,
2007.
Daniele
Menozzi,
Chiesa,
pace
e
guerra
nel
Novecento.
Verso
una
delegittimazione
religiosa
dei
conflitti,
Bologna,
Il
Mulino,
2008
Giovanna
Procacci,
Dalla
rassegnazione
alla
rivolta.
Mentalità
e
comportamenti
popolari
nella
grande
guerra,
Roma,
Bulzoni
Editore,
1999.