N. 37 - Gennaio 2011
(LXVIII)
Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte VI - fronte interno
di Gianluca Seramondi
La
Grande
Guerra
fu
un
conflitto
totale
poiché
essendo
«fatta
con
l’artiglieria
[e]
centrando
tutto
sui
cannoni,
essa
si
trasformò
in
un
conflitto
di
intere
economie
organizzate»
(Stuart
Robson).
Di
conseguenza,
«tutte
le
energie
economiche,
sociali
e
intellettuali
furono
mobilitate
per
sostenerne
il
peso
e
[nonostante
la
frattura
psicologica]
la
vita
di
tutti
ricevette
dalla
guerra
in
corso
un’impronta
molto
forte»
(A.
Gibelli,
2007,
p.
8).
La
guerra
così
non
mancò
di
imprimere
il
suo
marchio
sulle
abitudini
quotidiane
di
milioni
di
cittadini
italiani
ed
europei,
modificandone
organizzazione
e
disciplina
del
lavoro
nelle
fabbriche,
imponendo
una
separazione
prolungata
nel
tempo
tra
uomini
e
donne,
portando
queste
ultime
a
svolgere
mansioni
fin
lì
riservate
ai
primi,
contraendo
quantità
e
qualità
dei
consumi
alimentari,
esponendo
la
popolazione
a
una
propaganda
martellante
e
ossessiva,
modificando
i
programmi
scolastici
(A.
Gibelli,
2007,
p.
233).
Di
fatto
la
grande
guerra
inaugurava
l’epoca
delle
guerre
non
più
circoscritte,
delle
guerre,
con
Eric
Hobsbawm,
«democratiche»
che
coinvolgono
le
masse
sia
direttamente
che
indirettamente
(A.
Gibelli,
2007,
p.232).
Il
primo
conflitto
mondiale
investì
tutti
i
settori
della
vita
dell’Italia,
ne
modificò
gli
obiettivi,
trasformò
i
rapporti
sociali,
impose
un
esteso
intervento
pubblico
nell’economia
finanziato
non
solo
con
l’inasprimento
fiscale
specificamente
indiretto,
quanto
con
il
ricorso
ai
prestiti
nazionali
o a
quelli
internazionali
–
per
esempio,
il
debito
pubblico
interalleato,
cioè
verso
i
paesi
dell’Intesa,
raggiunse
la
considerevole
cifra
di
2.961
milioni
di
dollari
- e
con
l’emissione
di
moneta,
decisione
quest’ultima,
che,
ovviamente,
innescava
un
processo
inflazionistico
(M.
Isnenghi-G.
Rochat,
2001,
pp.
287-291).
In
generale,
la
chiamata
alle
armi
dei
contadini
e la
requisizione
di
bestiame
fecero
ricadere
su
donne,
anziani
e
ragazzi
la
responsabilità
della
gestione
delle
aree
coltive.
Calarono
di
conseguenza
aree
seminate
e
resa
dei
terreni.
Tutto
ciò
provocò
una
contrazione
nei
consumi
di
generi
alimentari,
la
cui
mancanza
fu
causata
da
una
distribuzione
inefficiente,
che
in
molti
casi
lasciò
le
derrate
a
marcire
nei
depositi
annonari,
dalle
maggiori
necessità
nutrizionali
dei
soldati
al
fronte
e
dall’aumento
dei
prezzi.
Ciò
portò
gli
strati
popolari
alla
iponutrizione.
Tra
essi,
quasi
per
contrappasso,
aumentò
il
consumo
di
alcolici,
crebbero
la
mortalità
infantile
e la
delinquenza
anche
minorile
(Giovanna
Procacci,
1999,
pp.
72-77).
Vi
fu
«un
peggioramento
della
situazione
sanitaria,
attestato
dall’aumento
della
tubercolosi
e
della
malattie
polmonari,
degli
infortuni
e
delle
malattie
professionali
di
fabbrica
(comprese
le
intossicazioni
dovute
alla
lavorazione
di
nuove
sostanze
chimiche
mai
sperimentate),
la
maggiore
virulenza
delle
epidemie»
(A.
Gibelli,
2007,
p.
178).
Inoltre
il
governo,
convinto
della
brevità
del
conflitto,
non
approntò
un
adeguato
programma
di
approvvigionamento
alimentare
e di
assistenza
(G.
Procacci,
1999,
p.16).
La
stessa
assistenza
fornita
dalle
associazioni
private,
che
nel
1917
si
raggrupparono
nelle
Opere
federate
di
Assistenza
e
Propaganda
interna
gestite
dal
Consiglio
dei
Ministri,
era
insufficiente
a
rispondere
ai
bisogni
della
popolazione
e
queste
associazioni
erano
assolutamente
assenti
nelle
campagne
e
nelle
zone
più
povere
del
paese.
Nonostante
che
dopo
Caporetto
si
segnalassero
miglioramenti
negli
approvvigionamenti
e
nella
distribuzione,
e si
ridussero
le
ingiustizie
sociali,
per
esempio
la
facilità
di
esonero
dal
servizio
militare
per
i
figli
della
borghesia,
le
condizioni
della
popolazione
seguitarono
a
peggiorare
(G.
Procacci,
1999,
pp.
24-26).
Vi
furono
quindi
aperte
agitazioni,
ribellioni
e
tumulti
che
raggiunsero
il
culmine
nel
1917,
segnato
dalla
sollevazione
di
Torino
dove,
in
agosto,
la
protesta
contro
le
privazioni
esplose
violentemente:
vi
furono
scioperi,
saccheggi,
barricate
e
scontri
con
l’esercito
il
quale
non
si
fece
scrupoli
a
usare
mitragliatrici
e
autoblindo
causando
almeno
50
vittime
(A.
Gibelli,
2007,
pp.
218-219).
Il
fatto
che
la
conflittualità
sociale
raggiungesse
il
proprio
picco
proprio
in
questo
anno
è
dovuto
a
diversi
fattori.
Tutti
i
fronti,
non
solo
quello
italiano,
erano
in
subbuglio
per
le
condizioni
in
cui
si
combatteva
e
per
la
durata
di
una
guerra
faticosa,
estenuante,
condotta
con
scarsa
o
nulla
considerazione
delle
truppe.
In
Italia,
se
possibile,
la
situazione
al
fronte
era
anche
peggiore
rispetto
a
quella
degli
altri
eserciti,
come
si è
visto
negli
articoli
precedenti.
All’interno,
e in
particolare
nelle
zone
sotto
regime
di
guerra,
si
facevano
sentire
il
rigore
della
legislazione
eccezionale
e la
difficoltà
negli
approvvigionamenti
–
resa
più
impervia
dalla
guerra
sottomarina.
Sicuramente,
poi,
era
una
fitta
dolorosa
e
foriera
di
protesta
la
chiara
consapevolezza
che
i
costi
sociali
della
guerra
non
fossero
e
non
sarebbero
mai
stati
uniformemente
distribuiti
su
tutte
le
classi
sociali.
Un
ruolo
non
secondario
lo
aveva
infine
la
percezione
che
il
conflitto
si
sarebbe
protratto
ancora
per
non
si
sapeva
quanto
tempo.
Si
era
tanto
convinti
di
questa
previsione
che
il
cinema,
che
pure
in
Italia
fu
utilizzato
per
diffondere
il
verbo
patriottico,
non
riusciva
più
a
trascinare
le
masse.
Il
cinema
era
entrato
nelle
abitudini
delle
popolazioni
rurali
ben
prima
dello
scoppio
della
guerra,
ma
certo
la
classe
dirigente
italiana
non
si
avvide
da
subito
delle
potenzialità
propagandistiche
di
questo
mezzo
e il
primo
film
di
chiaro
intento
patriottico,
Sempre
nel
cor
la
Patria!
Di
Carmine
Gallone
uscì
solo
nel
settembre
del
1915.
Dopo
di
esso
furono
prodotti
altri
130
film
con
lo
stesso
tono,
che,
insieme
agli
altri
mezzi
della
propaganda,
ebbero
anche
un
discreto
successo
nell’imprimere
nella
mente
degli
spettatori
sentimenti
e
idee
patriottici.
Ma
questo
effetto
andò
scemando
quando,
sul
finire
del
1916,
si
realizzò
che
la
guerra
si
sarebbe
protratta
per
ancora
molto
tempo.
( A.
Gibelli,
2007,
pp.
221-225).
In
questo
quadro
affatto
fosco
irruppero
le
notizie
della
rivoluzione
russa
di
febbraio
e
dei
suoi
successivi
sviluppi.
Sapere
che
il
Soviet
teneva
ben
saldo
il
potere
e
apprendere
del
sentimento
antibellico
della
masse
russe,
che
a
Milano
e
province
limitrofe
fornirono
pretesto
per
violente
agitazioni
contro
la
guerra,
pose
in
tutti
i
paesi
belligeranti
il
problema
del
rapporto
tra
Stato
e
masse,
anche
per
prevenire
un’eventuale
deriva
rivoluzionaria
del
malcontento
generato
dalla
cattive
condizioni
di
vita
(G.
Procacci,
1999,
p.285
e
pp.
299
e
sgg
e A.
Gibelli,
2007,
pp.
309
e
sgg.).
«Ma
non
furono
tanto
le
condizioni
di
vita
a
incidere
sullo
stato
d’animo
popolare:
esse
non
erano
infatti
peggiori
di
quelle
dell’anno
precedente
anche
se
non
si
deve
sottovalutare
il
fattore
determinante
del
perdurare
di
tali
condizioni.
Ma
furono
soprattutto
… le
notizie
che
si
diffondevano
della
ribellione
di
Torino,
che
si
credeva
estesa
ad
altre
zone
d’Italia,
di
Caporetto,
della
Russia
a
rendere
diversa
la
protesta,
a
rendere
plausibile
“la
rivoluzione
per
la
pace”»
(G.
Procacci,
1999,
p.
337).
In
altri
termini
nel
1917
furono
gli
eventi
russi
se
non
a
motivare
certo
a
innestarsi
sulla
protesta
popolare,
a
inibire
nelle
classi
subalterne
una
reazione
patriottica
a
Caporetto.
En
passant
si
ponga
attenzione
al
fatto
che
nel
Veneto
e
nel
Friuli
occupati
dagli
austro
tedeschi
le
popolazioni
per
lo
più
non
mostrarono
odio
o
risentimento
nei
confronti
degli
occupanti
perché
il
Regno
di
Italia
non
aveva
modificato
le
condizioni
di
vita
delle
classi
subalterne.
(A.
Gibelli,
2007,
pp.
288-289.
Sulla
freddezza
delle
popolazioni
friulane
e
trentine
nei
confronti
degli
italiani
si
veda
anche
L.
Bruti
Liberati,
1982,
pp.
169-185).
Tutto
ciò
innalzo
il
livello
del
conflitto
sociale.
L’obiettivo
della
lotta
ora
non
era
più
solo
il
miglioramento
della
dura
contingenza.
Infatti,
sulla
realtà
della
guerra,
relata
agli
avvenimenti
russi,
si
innestarono
utopie
sociali
(favorite
anche
dalle
ambizioni
wilsoniane)
per
cui
la
rivoluzione
(il
fare
come
in
Russia)
era
il
viatico
ad
una
società
socialmente
più
progredita.
In
modo
particolare
nelle
classi
popolari
«la
fiducia
in
una
società
futura
giusta
era
…
legata
alla
rivendicazione
della
necessità
di
un
atto
di
equità
rivoluzionaria
mediante
il
quale
i
colpevoli
sarebbero
stati
puniti
e
gli
oppressi,
ribaltate
le
gerarchie
sarebbero
stati
innalzati
al
potere,
per
dare
vita
a
una
società
organizzata
su
un
ordine
nuovo,
secondo
principi
di
equità
e
uguaglianza»
(G.
Procacci,
1999,
p.
348).
Non
bisogna
però
dimenticare
che
il
motivo
di
fondo
delle
sollevazioni
popolari
era
comunque
l’avversione
alla
guerra.
Un
sentimento
antibellicistico
che
rimarrà
immutato
anche
dopo
il
conflitto.
Quando,
anzi,
si
acuirà
ancor
più
perché
era
nel
frattempo
riemersa,
facendosi
viepiù
impellente,
la
domanda
circa
il
perché
della
guerra
e
quindi
l’accusa
contro
chi
l’aveva
voluta.
La
stessa
inchiesta
parlamentare
sulla
disfatta
di
Caporetto,
che
mise
in
luce
le
responsabilità
degli
alti
comandi
militari,
innescò
una
protesta
di
massa
che
si
espresse
con
l’apposizione
di
lapidi
commemorative
dei
caduti
sulle
quali
era
ben
chiara
la
condanne
della
guerra
e di
chi
l’aveva
voluta,
anche
se
non
espressamente
menzionato.
Non
a
caso
le
autorità
fecero
ben
presto
scomparire
queste
immediate
operazioni
della
memoria
(A.
Gibelli,
2007,
pp.
331-334).
Riferimenti
bibliografici:
Luigi
Bruti
Liberati,
Il
clero
italiano
nella
grande
guerra,
Roma,
Editori
Riuniti,
1982.
Antonio
Gibelli
La
grande
guerra
degli
italiani,
1915-1918,
Milano,
Rcs,
2007.
Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
La
grande
guerra
1914-1918,
Firenze,
La
Nuova
Italia,
2001.
Giovanna
Procacci,
Dalla
rassegnazione
alla
rivolta.
Mentalità
e
comportamenti
popolari
nella
grande
guerra,
Roma,
Bulzoni
Editore,
1999.
Stuart
Robson,
The
First
World
War,
London-
New
York,
Longmann,
1998,
trad.
It.
Di
Nicola
Rainò,
La
prima
Guerra
mondiale,
Bologna,
Il
Mulino,
2002.