N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte V - verso il fronte interno
di Gianluca Seramondi
Finora
ho
discusso
quali
fossero
le
condizioni
di
vita
che
i
fanti
contadini
dovettero
affrontare
al
fronte,
quali
fossero
i
loro
pensieri
e
sentimenti
nei
confronti
di
una
guerra
in
cui
erano
stati
gettati
di
prepotenza
e
quali
le
attività
non
belliche
cui
si
dedicavano
nei
momenti
di
una
tranquillità
che
in
prima
linea
facilmente
scivolava
nella
noia.
Ho
poi
accennato
a
due
momenti
che
rappresentavano
per
quei
soldati
periodi
più
sereni:
il
riposo
nelle
retrovie
e la
licenza.
I
quali,
per
quanto
qui
si
va
elaborando,
sono
anche
feritoie
nel
muro
che
separava
il
fronte
dal
resto
del
paese
attraverso
cui
scrutare
l’altro
luogo
in
cui
si
affaccendavano
le
classi
popolari.
Già
da
quelle
feritoie
si è
potuto
cogliere
un
lembo
del
mondo
civile,
cioè
i
cosiddetti
imboscati
e le
donne
per
di
più
fedifraghe.
Caratteri
quasi
da
commedia
dell’arte,
che
rivelano
però
l’esistenza
di
una
«netta
frattura
psicologica
tra
i
soldati
e il
resto
della
popolazione»
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.
172)
perché
la
vita
civile
pareva
proseguire
in
modo
apparentemente
normale,
e
perché
rispetto
ad
essa
il
fronte
appariva
un
mondo
a sé
di
cui
i
civili
faticavano
a
farsi
un’idea
adeguata.
Questa
difficoltà
non
era
certo
un’esclusiva
della
popolazione
italiana.
Anche
in
Gran
Bretagna
accadeva
qualcosa
di
simili.
Per
esempio,
sebbene
«nel
1915
la
stampa
[britannica]
riuscì
finalmente
ad
avere
corrispondenti
fissi
presso
il
Corpo
di
spedizione
britannico
per
fornire
notizie
più
utili
[,
essi,
tuttavia,]
non
furono
in
grado
di
dare
del
conflitto
una
versione
corretta
…
perché
per
quanto
esperti
e
onesti
fossero,
non
riuscivano
comunque
a
rendersi
conto
di
quel
che
accadeva
e
mancavano
concetti
e
risorse
linguistiche…
per
dare
conto
delle
nuove
realtà»
(Stuart
Robson,
©2002,
p.
67).
Inevitabilmente,
allora,
le
fasce
di
popolazione
non
arruolate
potevano
parlare
della
guerra
in
corso
solo
rifacendosi
a
categorie
mentali
obsolete.
In
Niente
di
nuovo
sul
fronte
occidentale
Erich
Maria
Remarque
affronta
con
finezza
il
tema
dell’incomunicabilità
tra
la
Frontgemeinschaft
e il
fronte
interno
mostrandone
il
carattere
ancipite.
Da
un
lato
essa
fu
il
frutto
dell’««afasia»
dei
reduci,
la
loro
incapacità
di
«parlare»delle
loro
esperienze
con
qualcuno
che
non
sia
anch’egli
un
reduce»
(Giaime
Alonge,
2001,
p.
136).
Dall’altro
derivò
dal
fatto
che
i
civili
insistevano
a
leggere
il
conflitto
in
corso
con
categorie
desuete,
come
dimostra
il
brano
in
cui
Paul
Bäumer,
il
protagonista,
assiste
esterrefatto
alla
lezione
su
come
sfondare
il
fronte
francese
propinata
da
un
direttore
di
azienda
che
non
riesce
a
capire
i
motivi
della
guerra
di
posizione
e
insiste
perché
vi
sia
finalmente
un’azione
sfondamento
(Giaime
Alonge,
2001,
pp.
39-40).
L’incomunicabilità
tra
fronte
interno
e
fronte
acquista
tutto
il
peso
di
una
colpa
nel
film
J'accuse
che
Abel
Gance
portò
a
termine
nel
1919,
ma
che
iniziò
nel
1917
con
i
mezzi
finanziari
della
sezione
cinematografica
dell'esercito
francese.
Voluto
dall'esercito
per
incoraggiare
sia
la
popolazione
civile
sia
i
soldati
«…
in
preda
a
scoramento
….
dopo
lunghi,
dolorosi
anni
di
combattimento»
(Jay
Winter,
1995,
p.
187),
il
film
divenne
nelle
mani
di
Gance
un
atto
di
accusa
esso
stesso
contro
la
Grande
Guerra
e un
tentativo
di
elaborazione
del
lutto
relativo
al
carattere
«…
intollerabile
della
morte
di
massa
che
avvolse
la
società
europea
a
partire
dal
1914»
(Jay
Winter,
1995,
p.29).
Il
film
di
Gance
narra
la
vicenda
del
brutale
François
Laurin,
di
sua
moglie
Edith,
e
del
poeta
Jean
Diaz,
innamorato
di
Edith.
François
e
Jean
sono
chiamati
alle
armi
e
devono
partire
per
il
fronte.
Il
loro
villaggio
è
occupato
dai
tedeschi
che
violentano
Edith.
Jean,
saputo
della
violenza,
lancia
il
primo
j'accuse
contro
i
tedeschi.
Dopo
la
morte
della
madre,
Jean
scaglia
il
suo
secondo
j'accuse
contro
la
guerra
stessa,
che
non
fa
differenze
tra
vecchi
e
giovani,
tra
ricchi
e
poveri.
Il
tempo
scorre
e
Edith
mette
alla
luce
una
bambina,
Angéle,
figlia
dello
stupro
subito.
Suo
marito
François
rimane
sconvolto
della
notizia:
tenta
di
uccidere
la
bambina,
ma
desiste
e,
infine,
decide
di
ritornare
al
fronte.
La
gente
del
villaggio,
conosciuta
la
reale
origine
di
Angéle,
schermisce
la
piccola:
i
bambini
la
costringono
a
indossare
un
elmetto
tedesco
e a
simulare
l'esecuzione
di
un
bambino
francese.
Questo
episodio
dà
il
pretesto
a
Jean,
che
ha
perduto
la
ragione
in
seguito
a un
bombardamento,
per
lanciare
tramite
un
sogno
il
suo
terzo
j'accuse.
Questa
volta
il
poeta
punta
il
dito
contro
una
popolazione
civile
che
ha
scordato
i
propri
soldati
al
fronte:
« Il
sogno
…
inizia
in
un
cimitero
di
un
campo
di
battaglia
…
Un'enorme
nube
nera
si
leva
dal
fondo
e,
magicamente,
figure
spettrali
si
sollevano
dal
terreno
[portando
con
sé
delle
croci,]
abbandonano
il
campo
di
battaglia
e
seguendo
viottoli
di
campagna
si
dirigono
verso
i
propri
villaggi.
Ciò
che
vogliono
è
verificare
se
il
loro
sacrificio
è
stato
vano.
Quello
che
trovano
è la
meschinità
dell'esistenza
borghese,
le
speculazioni
sulla
pelle
dei
soldati,
l'infedeltà
delle
mogli.
La
vista
dei
caduti
è a
tal
punto
terrificante
per
gli
abitanti
dei
villaggi
che
essi
immediatamente
si
ravvedono
e i
morti
fanno
ritorno
alle
proprie
tombe,
a
missione
compiuta»
(Jay
Winter,
1995,
p.
27).
Jean
Diaz,
che
ora
trova
conforto
e
aiuto
proprio
nel
suo
rivale
in
amore
François,
vorrebbe
fare
a
pezzi
il
suo
poema
Les
pacifiques,
in
modo
da
affermare
che
la
guerra
ha
ucciso
anche
il
poeta.
Mentre
sta
per
morire,
lancia
il
suo
ultimo
j'accuse
nei
confronti
del
sole
colpevole
di
essere
insensibile
al
dolore
che
sta
consumando
l’umanità.
Il
film,
infine,
si
chiude
con
l'immagine
di
Cristo
sulla
croce.
Dunque,
la
frattura
psicologica
tra
fronte
interno
e
fronte
non
fu
un’esperienza
soltanto
italiana.
Tuttavia,
in
Italia
essa
si
colorò
di
sfumature
molto
più
pericolose
che
si
ritrovarono
in
Germania
solo
sul
finire
della
guerra.
In
Italia,
infatti,
il
fronte
interno,
metafora
che
doveva
servire
ad
estendere
lo
spirito
di
sacrificio
delle
trincee
all’intero
territorio
nazionale,
significò
anche
le
barricate
che
interventisti
e
nazionalisti
dovevano
erigere
contro
i
tentativi
di
riflusso
neutralista.
Non
a
caso
a
Roma
nacque
il
periodico
Il
fronte
interno
diretto
dai
nazionalisti.
In
questa
accezione
esso
si
affiancava
ai
concetto
di
nemico
interno
e,
perché
no,
di
disfattista
(Antonio
Gibelli,
2007,
pp.
174-175).
Interessante
è
anche
capire
come
le
elite
si
rappresentassero
i
contadini
soldati
impegnati
al
fronte.
Utili,
a
questo
proposito,
sono
i
diari,
le
memorie
e le
raccolte
di
lettere
composte
dagli
ufficiali,
i
quali
possedevano
un
titolo
di
studio
e
che,
poiché
studiare
allora
era
una
questione
di
censo,
provenivano
da
un
milieu
socioculturale
piuttosto
alto.
Da
queste
fonti,
si
arguisce
che
gli
ufficiali
trattavano
i
sottoposti
con
paternalismo
a
volte
solidale
ma
che
non
riusciva
a
superare
il
salto
di
classe
che
li
separava
dai
soldati
e
che
impediva
loro
di
capirne
mentalità
e
comportamenti
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
pp.
268-271).
Durante
la
guerra
gli
ufficiali
ebbero
modo
di
stimare
nei
soldati
contadini
la
semplicità
morale,
le
competenze
manuali,
la
resistenza
fisica
e la
capacità
di
adattamento
e
sopportazione
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.
90).
Ma
sulla
loro
opinione
gravava,
magari
attenuato,
il
paradigma
formulato
da
padre
Agostino
Gemelli.
Secondo
Gemelli
«il
soldato
contadino
è
privilegiato
rispetto
al
cittadino,
perché
gli
riesce
più
facile
adattarsi
al
progressivo
abbrutimento
[…]
necessario
per
sopravvivere
alle
tensioni,
alla
fatica,
agli
orrori»
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
271).
Questo
pregiudizio
divenne
il
supporto
di
una
lettura
della
rotta
dei
fanti
seguita
alla
disfatta
di
Caporetto
che
sottolineava
il
riemergere
della
«bruttezza
delle
masse»
precedentemente
addomesticata
dalla
disciplina
militare.
Caporetto
faceva
insomma
riemergere
il
«ceffo
della
plebe
incolta
nelle
nuove
dimensioni
della
guerra
disumana
e
prospettava
il
pericolo
imminente
nell’evocazione
di
questa
forza
pronta
a
dirigersi
verso
obiettivi
diversi
da
quelli
comandati,
o
almeno
rompere
le
righe
senza
che
nessuno
gliel’avesse
ordinato»
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.
274).
Il
soldato
contadino
“tipo”
per
Gemelli
era
quello
che
non
comprendeva
assolutamente
i
motivi
per
cui
combatteva,
ma
che
comunque
si
batteva
per
la
rassegnata
obbedienza
all’autorità
che
tipicamente
lo
caratterizzava.
Sicuramente
la
maggioranza
dei
soldati
combatteva
senza
comprendere
o
senza
condividere
le
ragioni
della
guerra
e
non
era
mosso
da
motivazioni
patriottiche.
Nessuno
di
loro
intendeva
immolarsi
per
territori
come
Trento
e
Trieste,
affatto
sconosciuti.
Anzitutto,
però,
i
contadini
«erano
profondamente
estranei
all’idea
della
guerra,
perché
erano
abituati
da
sempre
a
considerare
lo
stato
come
una
forma
di
oppressione
particolarmente
odiosa
per
gli
aspetti
fiscali,
il
servizio
militare
come
un
penoso
obbligo
cui
se
possibile
era
meglio
sottrarsi,
e la
guerra
stessa
come
un
flagello»
(Antonio
Gibelli,
2007,
p.22).
Di
conseguenza,
trovavano
del
tutto
assurda
l’idea
«di
dovere
faticare
e
addirittura
morire
per
qualcosa
che
esulasse
dal
proprio
mondo
familiare
e
comunitario»(
Antonio
Gibelli
2007,
p.
96).
Va
sottolineato
che
ai
contadini
le
élite
che
governavano
il
corso
della
guerra
non
chiedevano
l’adesione
convinta
alla
causa
bellica,
preferendovi
«la
passività,
la
disciplina
cieca,
i
benefici
automatismi
di
caserma
e di
trincea»
e
deprecando
«qualunque
forma
di
attivazione
delle
masse»
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
230-231).
E a
chi
avrebbe
potuto
obiettare
che
questo
trattamento
avrebbe
potuto
demoralizzare
le
truppe,
Padre
Agostino
Gemelli
affermava
senz’altro
che
di
«processo
di
passivizzazione
potranno
forse
soffrire
gli
intellettuali,
coloro
che
sono
andati
alla
guerra
sulla
base
di
scelte
e di
valori
ora
messi
in
mora
dalla
scoperta
della
realtà:
ma
non
i
soldati
illetterati,
non
i
contadini,
che
formano
il
nerbo
dell’esercito
e
non
hanno,
per
fortuna
loro
e
della
patria,
tutte
le
attese
o i
grilli
per
il
capo
dei
giovani
allievi
dei
licei,
né
di
interventisti
volontari
e
aspiranti
eroi.
Sono,
dalla
vita,
predisposti
a
lasciarsi
dirigere
dagli
altri
e a
vivere
alla
giornata»
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
239).
Si
andava
così
elaborando
l’immagine
che
divenne
poi
pubblica
e
condivisa
di
«un
laborioso
e
paziente
esercito
contadino,
reso
capace
di
tollerare
la
fatica
della
guerra,
senza
sapere
e
senza
chiedere
perché,
anche
in
rapporto
con
il
primato,
asserito
e
invocato,
della
subordinazione
dei
più
ai
meno»
(Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
2001,
p.
231).
Era
l’immagine
della
passività,
a
imporsi,
era
un’etica
della
rassegnazione
ad
avere
successo
là
dove
la
coercizione
non
riusciva,
era
la
remissiva
e
naturale
subordinazione
degli
umili
che
inevitabilmente
improntava
anche
il
magari
solidale
paternalismo
degli
ufficiali
di
complemento.
Era
un
modello
comunque
funzionale
alla
propaganda
bellica
che
ora
faceva
aggio
sulle
immagini
dei
contadini
abbruttiti,
animaleschi,
riottosi,
diffidenti
che
ancora
forse
faceva
capolino
in
qualche
salotto
e
che
comunque
era
altrettanto
funzionale
ad
una
politica
di
ordine
pubblico
fondata
sulla
repressione.
Riferimenti
bibliografici:
Giaime
Alonge,
Cinema
e
guerra.
Il
film,
la
Grande
Guerra
e
l'immaginario
bellico
del
Novecento,
Torino,
Utet,
2001.
Antonio
Gibelli
La
grande
guerra
degli
italiani,
1915-1918,
Milano,
Rcs,
2007.
Mario
Isnenghi
-
Giorgio
Rochat,
La
grande
guerra
1914-1918,
Firenze,
La
Nuova
Italia,
2001.
Stuart
Robson,
The
First
World
War,
London-
New
York,
Longmann,
1998,
trad.
It.
Di
Nicola
Rainò,
La
prima
Guerra
mondiale,
Bologna,
Il
Mulino,
©2002,
p.
67.
Jay
Winter,
Sites
of
memory,
sites
of
mourning.
The
Great
War
in
European
cultural
history,
Cambridge,
Cambridge
University
Press,
1995,
trad.
It.
Di
Nicola
Rainò,
Il
lutto
e la
memoria.
La
Grande
Guerra
nella
storia
culturale
europea,
Bologna,
Il
Mulino,
1998,
p.
187.