N. 41 - Maggio 2011
(LXXII)
Le classi subalterne in Italia durante
la Grande Guerra
parte iX - la protesta operaia
di Gianluca Seramondi
L’ingresso
dell’Italia
nella
Grande
Guerra
inizialmente
non
produsse
agitazioni
di
rilevo
nelle
fabbriche,
nonostante
che
nel
periodo
prebellico
la
conflittualità
sociale
fosse
stata
ben
più
elevata.
Infatti
secondo
i
dati
del
Ministero
dell’Economia
Nazionale,
che
nel
1924
pubblicò
l’elenco
ufficiale
degli
scioperi
pubblici
–
dai
quali
però
escluse
quelli
che
definiva
politici,
dando
a
questo
termine
un’estensione
peraltro
molto
ampia
-, «
si
desume
che
nei
primi
due
anni
di
guerra
mancarono
quasi
del
tutto
le
grandi
lotte
dell’anteguerra
di
lunga
durata
e
con
alto
numero
di
partecipanti,
promosse
per
motivi
di
principio,
e
soprattutto
per
il
controllo
dell’organizzazione
del
lavoro»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.
169).
In
generale
durante
la
guerra
gli
scioperi
lasciarono
il
posto
alle
vertenze
arbitrate.
Molto
partecipati,
gli
scioperi
di
questo
periodo
furono
peraltro
brevi:
quasi
il
90%
di
essi
non
superò
le
dieci
giornate.
Scioperi
che
duravano
più
di
31
giorni
ricominciarono
ad
aversi
tra
il
1916
e il
1918
e
soprattutto
nel
1917.
Le
agitazioni
calarono
nei
settori
dell’edilizia
e
dei
trasporti,
che
negli
anni
antecedenti
la
guerra
si
erano
distinti
per
la
loro
turbolenza.
I
settori
che
durante
la
guerra
furono
più
interessati
dagli
scioperi,
furono
quello
tessile,
siderurgico,
metallurgico,
meccanico
e
navale.
Le
cause
sono
da
ricercarsi
nell’alto
numero
di
operai
che
vi
erano
occupati
e
nella
presenza
di
molta
manodopera
femminile,
la
cui
partecipazione
alle
proteste
passò
dal
34,4%
del
1915
al
45,6%
del
1918
con
una
punta
del
64,2%
nel
1917.
I
motivi
del
relativo
silenzio
iniziale
della
classe
operaia
era
dovuto
alle
seguenti
ragioni:
lo
scioglimento
delle
rappresentanze
sindacali;
l’allontanamento
coatto
degli
attivisti
socialisti
e la
rigida
disciplina.
Inoltre
giocarono
un
ruolo
determinate
altri
fattori
più
strutturali.
Le
esigenze
di
guerra
stimolarono
la
produzione
industriale
la
cui
crescita
esponenziale
innanzitutto
assorbì
gli
emigrati
rimpatriati
forzatamente
– il
cui
arrivo
in
massa
in
un
primo
momento
aveva
creato
difficoltà
sociali
niente
affatto
lievi.
Permise
poi
agli
operai
di
fare
fronte
all’inflazione
in
ascesa
aumentando
le
ore
di
lavoro.
Dovendo
in
terzo
luogo
ricorrere
a
manodopera
non
specializzata
perlopiù
femminile
e
proveniente
dalla
campagne,
creò
una
frattura
nella
classe
operaia
tradizionale,
specializzata
e
sindacalmente
più
avvertita
e
agguerrita.
La
nuova
manodopera
infatti
rendeva
più
probabile
l’invio
al
fronte
anche
degli
operai
maschi
specializzati
mantenuti
in
fabbrica,
deprezzava
il
salario
operaio
e
indirettamente
obbligava
gli
operai
specializzati
rimasti
a
sobbarcarsi
di
sovraccarichi
di
lavoro
per
fare
fronte
alle
esigenze
della
produzione.
Non
da
ultimo
le
donne,
che
furono
impegnate
in
altri
lavori
tradizionalmente
maschili:
spazzino,
barbiere,
tranviere,
boscaiola,
rinfocolarono
nella
controparte
maschile
pregiudizi
maschilisti,
moralisti,
e
sentimenti
di
diffidenza
e
sospetto.
Non
che
i
nuovi
operai
se
la
passassero
meglio.
Costretti
a un
pendolarismo
faticoso
o,
in
alternativa,
ad
accollarsi
di
vivere
in
appartamenti
urbani
sovraffollati
e
costosi,
ricevevano
salari
ben
più
bassi
dei
loro
colleghi,
erano
soggetti
ad
una
disciplina
più
rigida
e
più
spesso
erano
multati
per
gli
errori
dovuti
principalmente
all’inesperienza.
Insomma
erano
sfruttati
come
ai
tempi
della
prima
industrializzazione.
Ma
quello
che
più
impediva
alla
tradizionale
classe
operaia
specializzata
di
coalizzare
con
loro
era
il
fatto
che
ai
nuovi
operai
«la
guerra
offrì
[…]
una
inattesa
fonte
di
reddito,
che
[li]
portò
in
un
primo
periodo,
a un
atteggiamento
di
disposizione
verso
il
lavoro
nel
suo
complesso
e
comunque,
a
una
sottomissione
alle
condizioni
imposte.
Ciò
rendeva
difficile
un’unione
con
la
classe
operaia
prebellica,
spesso
quadri
sindacali
o
militanti
di
partito,
nei
confronti
della
quale
la
nuova
classe
operaia
fu
all’inizio
diffidente,
restia
a
partecipare
alle
sue
forme
di
organizzazione
e di
lotta»
(Giovanna
Procacci,
1999,
p.65).
Nei
primi
tempi
non
mancarono
proteste
che
vedevano
protagonisti
i
nuovi
operai,
ma
erano
agitazioni
improvvise,
brevi,
che
si
esaurivano
nel
giro
di
poco
tempo,
non
ottenevano
risultati
e
soprattutto
non
univano
gli
operai.
Con
il
prosieguo
della
guerra
la
delusione
delle
aspettative
legate
al
lavoro
in
fabbrica,
l’oggettivo
peggioramento
delle
condizioni
di
vita
e di
lavoro
e
infine
il
fatto
che
la
normativa
disciplinare
introdotta
negli
impianti
colpisse
innanzitutto
i
nuovi
operai,
per
evitare
che
una
riduzione
troppo
accentuata
di
personale
specializzato
influisse
negativamente
sulla
produzione,
fecero
sì
che
fosse
la
nuova
classe
operaia
la
protagonista
pressoché
assoluta
delle
agitazioni
operaie
almeno
fino
al
1917.
Si
noti
che
questa
sensibilità
nei
confronti
delle
esigenze
della
produzione
si
manifestò
inoltre
con
un
più
intenso
ricorso
alle
multe
che
ad
altri
provvedimenti
disciplinari.
Le
multe,
infatti,
non
danneggiavano
la
produzione
e
nel
contempo
erano
estremamente
gravose
per
l’operaio
che
vedeva
ulteriormente
ridotto
il
potere
d’acquisto
del
suo
già
eroso
salario.
Nel
1918
quasi
un
operaio
su
tre
fu
raggiunto
da
questo
provvedimento.
Come
già
per
il
mondo
rurale
anche
per
le
città
un
punto
di
svolta
fu
segnato
dalla
Strafexpedition.
Come
già
si è
detto,
le
cause
dei
tumulti
urbani
furono
l’oggettiva
scarsità
di
generi
di
prima
necessità
accompagnata
dalla
percezione
del
tenore
di
vita
mantenuto
dalle
classi
più
agiate,
e
dunque
la
lampante
disparità
tra
le
classi.
Difatti,
tra
la
fine
del
1916
e
l’aprile
1917
vi
furono
circa
500
manifestazioni
urbane,
per
lo
più
spontanee,
le
cui
cause
erano
la
scarsità
o
assenza
dei
generi
di
prima
necessità,
l’alto
costo
della
vita,
dunque
l’insufficienza
dei
sussidi,
il
licenziamento
di
operai
o
l’invio
al
fronte
degli
operai
più
“indisciplinati”
cioè
sindacalmente
combattivi.
La
collera
popolare
si
rivolse
contro
i
benestanti
il
cui
tenore
di
vita
non
scese
durante
la
guerra
e
che
essi
sembravano
ostentare
anche
con
le
loro
forme
di
assistenza
e di
solidarietà
nei
confronti
delle
famiglie
dei
richiamati.
Non
mancò
di
inveire
contro
i
commercianti
esosi
che
speculavano
sulla
scarsità
di
cibo
e
contro
i
ricchi
“pescecani
di
guerra”.
Attaccò
lo
Stato
le
cui
disposizioni
per
contrastare
l’acquisto
di
merce
in
misura
superiore
al
proprio
bisogno
e
per
combattere
il
mercato
nero
o
l’aumento
indiscriminato
di
prezzi
presunti
calmierati,
erano
rimaste
lettera
morta.
Lo
Stato
era
accusato
pure
di
disorganizzazione
e
inefficienza
che
rendevano
ancora
più
disagevole
la
vita
in
regime
di
guerra.
Per
quanto
riguarda
più
specificamente
le
lotte
operaie,
il
momento
di
maggiore
conflittualità
naturalmente
coincideva
con
le
fasi
delle
vertenze.
Le
cause
principali
delle
manifestazioni
di
protesta
furono:
salari
in
costante
ritardo
rispetto
al
costo
della
vita;
sperequazioni
retributive
tra
specializzati
e no
e
tra
operai
di
grandi
aziende
e
quelli
di
piccole
aziende;
uso
indiscriminato
del
cottimo
le
cui
tariffe
erano
state
inoltre
ridotte;
nessuna
estensione
delle
concessioni
ottenute
in
una
azienda
alle
aziende
cosettoriali
specialmente
se
di
dimensioni
inferiori;
rigida
disciplina;
nulla
o
parziale
applicazione
aziendale
delle
ordinanze
degli
arbitrati;
turni
di
lavoro
fino
a
sedici
ore;
straordinari
obbligatori.
Gli
ultimi
due
fattori
fecero
aumentare
infortuni,
malattie
professionali
e, a
causa
della
fatica,
gli
aborti
e la
mortalità
infantile,
ma
non
segnarono
un
motivo
sufficiente
di
sciopero
per
la
ancora
scarsa
sensibilità
operaia
a
questi
temi.
La
questione
salariale
fu
la
principale
causa
di
agitazione,
soprattutto
considerando
l’alto
costo
della
vita,
mentre
la
parte
normativa
e
organizzativa
del
lavoro
non
fu
oggetto
di
contestazioni
poiché
l’azione
arbitrale
della
Mobilitazione
Industriale
impediva
la
trattativa
su
questi
temi.
Gli
scioperi
operai
per
il
salario
e
suoi
accessori
diminuirono
nel
corso
del
1918
quando
si
ricorse
più
diffusamente
all’arbitrato
e
quando
gli
sproni
di
Alfredo
Dallolio,
che
alla
guida
della
MI
cercava
di
abbassare
il
livello
dello
scontro
favorendo
aumenti
salariali
e
miglioramenti
nelle
condizioni
di
lavoro,
riuscirono
finalmente
a
far
breccia
nel
muro
degli
industriali.
Ciò
nonostante,
il
fatto
che
gli
elementi
economici
fossero
la
prima
causa
di
sciopero,
non
deve
far
dimenticare
innanzitutto
che,
per
la
stessa
condiscendenza
sindacale,
questi
rappresentavano
le
uniche
questioni
ammesse
in
sede
di
trattativa
con
le
aziende,
quindi
è
probabile
che
attraverso
le
rivendicazioni
salariali
fossero
veicolati
altri
contenuti:
organizzativi,
disciplinari
o
addirittura
politici.
In
secondo
luogo
molti
scioperi
nati
per
problemi
salariali
si
allargavano
e
coinvolgevano
operai
non
direttamente
coinvolti
nella
vertenza,
a
inveramento
di
quella
rete
di
solidarietà
che
la
coscienza
di
classe
riusciva
ancora
a
creare.
A
questo
proposito,
non
sono
da
dimenticare
gli
scioperi
di
pura
solidarietà
operaia
a
sostegno
di
compagni
di
lavoro
raggiunti
da
provvedimenti
disciplinari
pesanti
come
il
licenziamento,
l’arresto
o
l’invio
al
fronte.
Che
poi
le
agitazioni
del
1918
non
si
costringessero
nell’urgenza
del
lavoro,
lo
testimonia
il
fatto
che
esse
ripresero
con
una
certa
virulenza
in
coincidenza
con
la
ripresa
dell’offensiva
italiana
sul
Piave.
Se
si
guarda
alle
lotte
operaie
dal
punto
di
vista
cronologico,
si
può
notare
che
a
partire
dalla
fine
del
1916
iniziarono
più
stretti
collegamenti
tra
la
tradizionale
classe
operaia
maschile
e la
nuova
classe
operaia
in
particolare
femminile:
un
connubio
reso
possibile
dal
fatto
che
spesso
operai
e
operaie
provenivano
dalla
stessa
comunità
quando
non
dalla
stessa
famiglia.
Nel
1917
si
assistette
ad
un
ritorno
di
scioperi
più
duraturi,
strutturati,
e
che
facilmente
si
estendevano
a
tutte
le
categorie.
Indubbiamente
ebbero
un
loro
peso
anche
i
fatti
russi
e
infatti
a
Torino
e in
Liguria,
per
esempio,
«gli
operai
volevano
come
in
Russia»:
un’ulteriore
riprova
che
le
proteste
operaie
se
pure
muovevano
da
motivi
legati
al
lavoro
potevano
porsi
obiettivi
molto
più
ambiziosi.
Tutto
ciò
a
testimonianza
sia
del
fatto
che
la
classe
operaia
si
stava
ricomponendo
sia
del
fatto
che
essa
si
stava
riallacciando
alle
grandi
lotte
del
periodo
antecedente.
Non
a
caso
le
piattaforme
rivendicative
contenevano
la
richiesta
del
riconoscimento
della
rappresentatività
delle
commissioni
operaie,
l’introduzione
dei
contratti
di
categoria
e la
riduzione
collettiva
dell’orario.
Ritornarono
anche
rivendicazioni
egualitarie
quali
il
minimo
salario
garantito,
gli
aumenti
della
paga
base
e
l’aumento
dell’indennità
caroviveri,
che
stabilivano
un
ponte
tra
la
nuova
classe
operaia
e la
ora
più
solidale
tradizionale
classe
operaia.
La
quale,
dopo
che
Caporetto
fece
rifluire
le
lotte
– ma
nello
stesso
tempo
consigliò
alle
autorità
una
minore
veemenza
repressiva,
considerato
che
la
disfatta
costrinse
a
riportare
al
fronte
tutti
gli
operai
militari
-,
riprese
controllo
e
iniziativa
delle
agitazioni
affiancata
sempre
dalle
nuove
leve
e di
nuovo
supportata
dagli
organismi
di
rappresentanza
sindacale.
Nel
maggio
1918,
per
esempio,
la
CGdL
si
pronunciò
decisamente
contro
la
repressione
e
per
il
ripristino
delle
libertà
politiche
e
sindacali.
Sempre
nello
stesso
anno
le
Camere
del
lavoro,
che
pure
avevano
visto
crescere
la
propria
importanza
durante
la
guerra,
raggiunsero
una
vitalità
pari
a
quella
pre-bellica.
La
FIOM
riacquistò
energia,
influenza
e
combattività
e
riuscì
a
catalizzare
gli
operai
soprattutto
nei
centri
siderurgici
e
metallurgici
dove
la
manodopera
era
meno
specializzata
e
dove
«già
prima
della
guerra
[la
FIOM
svolse,
insieme
alle
Camere
del
lavoro,]
una
intensa
opera
di
stimolo
e di
organizzazione,
traducendo
l’insofferenza
dei
lavoratori
in
lotte
a
forte
contenuto
politico».
Si
può
così
dire
che
la
«la
guerra
produsse
una
veloce
maturazione
sindacale
e
politica
delle
maestranze»
(Giovanna
Procacci,
199,
p.
192)
e
che
le
lotte
operaie
durante
la
guerra
anticiparono
le
grandi
lotte
del
dopoguerra.
Dal
punto
di
vista
della
distribuzione
territoriale
delle
lotte,
certamente
il
più
alto
livello
di
alfabetizzazione,
una
più
capillare
diffusione
dei
quotidiani
e
una
organizzazione
operaia
più
strutturata
e
ancora
forte,
nonostante
le
misure
repressive,
conferivano
alle
agitazioni
che
si
svolgevano
al
Nord
una
più
marcata
coscienza
politica
e,
inoltre,
obiettivi
meno
legati
alle
condizioni
di
lavoro
e
più
connessi
con
la
fine
della
guerra
e
con
l’instaurazione
di
un
nuovo
ordine
sociale.
Le
proteste
arrivarono
a
mettere
in
discussione
il
sistema
sociale
e
politico
vigente.
Non
a
caso
le
notizie
degli
eventi
del
febbraio
russo,
che
giunsero
in
Italia
lacunose
e
frammentate,
furono
recepite
dalla
popolazione
italiana
«come
l’esempio,
con
esito
vittorioso,
di
un
atto
di
giustizia
[che
si
concludeva]
con
la
punizione
esemplare
dei
principali
colpevoli:
a
partire
dalla
primavera
del
1917
gran
parte
delle
espressioni
popolari
di
protesta
contenevano
la
minaccia
della
rivoluzione
se
non
si
fosse
posto
fine
alla
guerra»
(Giovanna
Procacci,
199,
p.
93).
Ora,
sebbene
la
tradizione
apocalittica
fosse
ben
radicata
nella
mentalità
popolare
perché
rispondeva
a un
bisogno
di
risarcimento
escatologico
e di
giustizia,
tuttavia
la
promessa
propria
dell’utopismo
socialista
e
anarchico,
rivitalizzato
dalla
rivoluzione
d’ottobre,
consisteva
in
un
mondo
nuovo
conquistato
e
non
preparato
da
altri,
fosse
pure
Dio.
Un
mondo
nuovo
che,
inoltre,
si
imperniava
sulla
figura
dell’operaio,
affiancato,
ma
in
posizione
subordinata,
dal
contadino
e
dal
combattente.
Dunque
non
era
un
mondo
nuovo
che,
come
quello
di
ispirazione
cattolica,
aveva
tutti
i
sensi
rivolti
ad
un
passato
più
immaginario
che
reale.
Ma
era
un
mondo
nuovo
che
assumeva
la
modernità
integralmente
e
che
nello
stesso
provvedeva
ad
epurarla
di
tutte
le
sperequazioni,
squilibri,
ineguaglianze,
ingiustizie
a
partire
dalla
divisione
in
classi.
Anche
sul
fronte
urbano
le
donne
dimostrarono
una
nuova
maturità
sociale.
A
questo
proposito
vi è
da
ricordare
che
i
fatti
di
Pietroburgo
del
febbraio
1917
furono
iniziati
anch’essi
da
un’agitazione
voluta
il
23
febbraio
(8
marzo
del
calendario
gregoriano)
dalle
donne
per
chiedere
la
fine
della
guerra.
Tornando
in
Italia,
i
primi
di
maggio
del
1917
donne
del
contado
– le
quali,
come
scrisse
un
prefetto
del
capoluogo
lombardo,
erano
convinte
che
la
guerra
fosse
stata
voluta
dai
signori
e
che
sarebbe
finita
solo
con
manifestazioni
pubbliche
ostili
-
giunsero
a
Milano
gridando
il
proprio
rifiuto
della
guerra,
chiedendo
pace
immediata
coinvolgendo
le
colleghe
operaie,
scagliando
sassi
contro
le
fabbriche
ausiliare
e
spingendo
gli
operai
a
sospendere
il
lavoro
e a
dichiarare
lo
sciopero
generale.
Significativamente
le
autorità,
e
anche
Turati,
sospettavano
che
dietro
queste
manifestazioni
ci
fosse
«lo
zampino
dei
preti»
e si
ingegnavano
a
dimostrare
come
i
«torbidi»
sorgessero
in
zone
dove
il
sacerdote
si
diceva
avere
più
ascendente
sulla
popolazione
(Luigi
Bruti
Liberati
1982,
p.
57).
La
protesta
comunque
rifluì
perché
non
fu
appoggiata
né
dalle
Camere
del
lavoro
né
dai
socialisti.
L’episodio
di
Milano
testimonia
di
un
rapporto
tre
città
e
campagne
e
tra
classe
operaia
e
contadini
che
superava
le
tradizionali
ostilità
e
diffidenza
che
li
tenevano
lontani.
Furono
diverse
infatti
le
manifestazioni
collettive
contro
la
guerra
che
vedevano
uniti
contadini
e
operai.
Certo,
questo
riavvicinamento
fu
più
marcato
nel
centro
nord.
Qui,
infatti,
si
era
andata
a
configurare
la
figura
dell’
“operaio-contadino”;
la
nuova
classe
operaia
era
formata
da
donne
e
ragazzi
delle
campagne,
giunti
in
massa
in
fabbrica
ma
che,
«proseguendo
a
vivere
nelle
campagne,
…
seguitavano
ad
avere
con
la
terra
un
rapporto
organico»
(Giovanna
Procacci,
1999,
104),
cosa
che
instaurò
un
proficuo
scambio
tra
città
e
campagna
di
esperienze,
mentalità
e
modi
di
vita.
Anche
quando
l’iniziativa
muoveva
dalle
fabbriche
delle
città,
al
corteo
degli
operai
«si
univa
gran
parte
della
popolazione
urbana,
del
suburbio
e
delle
campagne
vicine»
(Giovannei
Procacci,
1999,
105),
a
testimonianza
del
riavvicinamento
tra
le
classi
popolari
urbane
e
contadine,
che
però
si
riallontanarono
nell’anno
seguente.
Riferimenti
bibliografici:
L.
Bruti
Liberati,
Il
clero
italiano
nella
grande
guerra,
Editori
Riuniti,
Roma
1982;
A.
Gibelli,
La
grande
guerra
degli
italiani,
1915-1918,
Rcs,
Milano
2007;
G.
Procacci,
Dalla
rassegnazione
alla
rivolta.
Mentalità
e
comportamenti
popolari
nella
grande
guerra,
Bulzoni
Editore,
Roma
1999.