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N. 35 - Novembre 2010 (LXVI)

Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte IV - C’è vita al fronte

di Gianluca Seramondi

 

La separata alterità del mondo civile si parava di fronte ai fanti in licenza con le sembianze fastidiose dell’imboscato – cosa che la propaganda bellica sfruttò a proprio vantaggio costruendo artatamente « tra «fanti-contadini» e «operai-imboscati» … una contrapposizione che mirava a dividere le classi subalterne e a dirottare su obiettivi pretestuosi il loro prevedibile risentimento per i sacrifici cui erano sottoposti» (Antonio Gibelli La grande guerra degli italiani, 1915-1918, Milano, Rcs, 2007, p. 89) - o perturbanti delle fidanzate e delle mogli che non hanno resistito alla lontananza dell’amante partito soldato (Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, La grande guerra 1914-1918, Firenze, La Nuova Italia, 2001, p. 333).

 

C’è qui uno degli aspetti dell’altra faccia della vita al fronte, quella composta dalla agognata licenza a casa e dall’altrettanto desiderato periodo di riposo lontano dalla prima linea tra un turno di servizio e l’altro. Periodi di riposo che però Cadorna non esitava a far rientrare nell’universo militare: «Il soldato deve restare soldato. E avere una vita quotidiana, anche qui, istituzionalizzata e sotto controllo, fatta di saluti d’ordinanza, divisa in ordine, presenza, diversità e distacco dai civili; e fatica fisica, lavoro, esercizi militari. Noia, anche» (Ibidem, pp. 257). Sesso, anche, ma organizzato, gestito, sorvegliato e disciplinato dai comandi militari stessi, dunque anch’esso militarizzato. I comandi disseminarono le zone di guerra di postriboli per i soldati, cui la Chiesa rispose con le Case del soldato, già presenti prima della guerra quando, insieme alle Case dell’operaio, assolvevano al compito di «contendere i soldati al vino e al socialismo: due pericoli sociali che spesso… si riunivano nell’osteria, luogo topico della sociabilità proletaria» (Ibidem, pp. 259).

 

Durante la guerra, don Giovanni Minozzi aumentò il numero della Case del soldato con fini di organizzazione del divertimento, dell’educazione e dell’istruzione dei fanti (Ibidem, pp. 261). Egli comprese che la costruzione del consenso doveva basarsi su strutture accoglienti e confortevoli, consigli, assistenza personale, conforto e ricreazione (Antonio Gibelli, op. cit. p. 132). Ad esse si affiancarono i Teatri al fronte in cui si rappresentavano commedie umoristiche o drammi patriottico-risorgimentali. Evidentemente, sia le Case del soldato che i Teatri al fronte avevano lo scopo non dichiarato ma neppure tanto nascosto di convertire i fanti al fronte allo sforzo bellico riletto, ovviamente, in chiave cattolica.

 

È utile ricordare che la dottrina cattolica interpretava la guerra secondo lo schema sancito dal De Maistre. In base a questo modello la guerra è il castigo con cui Dio punisce gli uomini per il disprezzo e la noncuranza con cui lo hanno trattato.

 

In altri termini, la guerra è la punizione con cui Dio colpisce la società macchiatasi del peccato di apostasia, ma è anche l’opportunità per riportare l’umanità sotto la legge di Cristo.

 

Durante il primo conflitto, ciascuna chiesa nazionale piegò questa spiegazione a tutto vantaggio della nazione di appartenenza. In tal modo, l’apostata era l’avversario; mentre la vittoria del proprio schieramento avrebbe significato la restaurazione della società cristiana rovesciata dal peccato commesso dal nemico. In Francia, questa posizione portò alla sacralizzazione della nazione francese e all’utilizzazione in chiave nazionalistica della devozione del Sacro Cuore, la cui immagine fu infine apposta sul tricolore. (Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 15-45).

 

A proposito dell’utilizzo del Sacro Cuore in chiave nazionalistica, Benedetto XV rispose componendo una preghiera al Sacro Cuore. Così facendo, il papa che denunciò «l’inutile strage» collegò la pace alla devozione del Sacro Cuore, cioè all’osservanza dei dettami evangelici. Soprattutto, riaffermò i sovrani diritti sul mondo tanto di Cristo quanto del suo vicario in terra, annullando il valore nazionalistico assunto dalla devozione religiosa nei vari paesi. Pio XI approfondirà questa linea e, ponendo come obiettivo “la pace di Cristo nel regno di Dio”, affermò che la pace può essere mantenuta solo in una società pienamente cristiana. (Ibidem, pp. 47-77).

 

Tornando al fronte, attraverso le forme di organizzazione del tempo libero dei soldati più sopra ricordate, anche in Italia non si tentava solo di cooptare questi ultimo nello sforzo bellico ma anche di instillare in esse un odio nei confronti del nemico che inevitabilmente era vestito dell’immagine dell’anticristo.

 

I tempi “ameni” delle licenze e dei riposi, tuttavia, non potevano far dimenticare ai soldati che stavano di fatto lavorando in «un'industria per il macello umano specializzato» (Antonio Gibelli, L'officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 104). La guerra era una sorta di «laboratorio del moderno, in cui per milioni di uomini si ripete l’impatto traumatico con la meccanizzazione e la serializzazione della vita e della morte militari»( Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, op. cit, pp. 251), in cui l’anonimato è la cifra dell’esperienza del fronte, in cui la morte è oscena e insignificante. Non a caso il monumento che meglio celebra la grande guerra è quello al milite ignoto, il cui rito consisteva nello scegliere a caso uno dei tanti fanti sconosciuti recuperati sui campi di battaglia e nell’immolarlo in un tempio dedicato (Antonio Gibelli, La grande Guerra, op. cit., p. 345).

 

Al “paesaggio” desolante della trincea, in tutti i paesi belligeranti molti fanti cercarono rifugio e conforto nella dissociazione dal reale, dalla depressione al diniego della realtà. Furono fenomeni che si ebbero non solo al fronte ma anche all’interno.

 

E colpirono anche personaggi di primo piano della politica italiana, quali ad esempio Leonida Bissolati in cui si manifestarono i tipici segni della ciclotimia: l’abbattimento seguito dall’onnipotenza (Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni Editore, 1999, pp. 375 e sgg).

 

Quei fanti che non si decisero per queste forme più radicali di fuga dalla guerra opposero alla legge della no man’s land il sistema del «vivi e lascia vivere» articolato in: accordi di pace tra i fanti, per esempio quelli del Natale 1914 sul fronte occidentale presidiato dagli inglesi; inerzia, aggressività limitata nei confronti del nemico, soprattutto al fine di evitarne la replica; ritualizzazioni, per cui i fanti obbedivano agli ordini di offensiva dei rispettivi superiori, ma in modo tale che le azioni eseguite fossero prevedibili, non fossero, nei limiti del possibile, letali e provocassero la reazioni del nemico.

 

Così le opposte pattuglie impegnate nelle perlustrazioni evitavano scientemente di incontrarsi, gli artiglieri sparavano sempre negli stessi punti, e si cercava di non disturbare il momento del rancio (Suart Robson, The First World War, London- New York, Longmann, 1998, trad. It. Di Nicola Rainò, La prima Guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, ©2002, pp. 51-52). Situazioni che esprimevano tangibilmente «la convinzione profonda [dei soldati tutti] di essere … vittime di una inesorabile macchina distruttiva della quale sembrava che nessuno controllasse più il funzionamento» (Antonio Gibelli, La grande Guerra, op. cit., p.207).

 

In Italia la crudezza e crudeltà della guerra di trincea furono rese ancor più intollerabili da un Codice militare che, datato 1859, il generale Cadorna si premunì di aggiornare moltiplicando le figure di reato, aggravando le pene e imponendo forme di giustizia sommaria come le decimazioni.

 

Le decimazioni, peraltro contemplate dal codice penale militare, consistevano nell’estrarre «a sorte e fucilare un certo numero di soldati tra gli indiziati [di un malfatto] o semplicemente tra gli appartenenti al reparto dove si fossero verificati gli incidenti» (Antonio Gibelli, op. cit. p. 123).

 

Come sottolineano Isnenghi e Rochat, «L’aspra pedagogia dell’intervento esemplare – che si espanderà sino alla dottrina e alla prassi spietata della decimazione – si ispira al criterio che in guerra l’essenziale non sia individuare e colpire, in un singolo, il colpevole effettivo e provato, ma sanzionare immediatamente agli occhi dei responsabili e di tutti un crimine sociale» (Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, op. cit, pp. 244).

 

Contro questa disciplina ferrea i fanti adottarono diverse strategie, tra cui quella della partecipazione affettiva agli scioperi che avvenivano all’interno incoraggiando le donne a protestare contro la guerra (Giovanna Procacci, op. cit., p.123).

 

La diserzione era tra le strategie seguite per nascondersi dalle fauci del conflitto: «8.000 casi tra il 1915 e il 1916, nel primo anno di guerra, che salgono a 25.000 nel secondo, mentre il 1917 … vede già raggiunta la cifra di 22.000 nei mesi che precedono Caporetto». Di questi solo una minima parte si configurò come passaggio al nemico: «Dalle carte processuali risulta che ai circa 3.000 disertori verso le linee nemiche si affiancano gli oltre 150.000 che si avviano, semplicemente, verso casa o che, ancora più spesso, vengono dichiarati disertori perché – facendolo apposta o no – ritardano di qualche giorno o di qualche ora il loro rientro ai reparti al ritorno da una licenza» ( Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, op. cit, p. 247). Dalle lettere inviate ai propri cari si arguisce che molti dei disertori sentivano il bisogno di giustificare il loro gesto per timore della nomea di codardi che poteva poi colpire anche i parenti (Antonio Gibelli, La grande guerra, op. cit.,. p. 113).

 

Inoltre, la diffidenza e l’astio che opponevano i contadini ad uno stato avvertito come oppressore sfociò nel fenomeno della renitenza all’arruolamento. Pratica diffusa fin dai tempi di Napoleone – a testimonianza del fatto che la guerra fosse percepita come un flagello da cui fuggire -, la si attuava o nascondendosi o espatriando.

 

Questa seconda opzione fu resa impossibile nel 1915 dalla chiusura degli sbocchi migratori e dall’efficiente apparato poliziesco-burocratico di controllo dell’identità personale. Difatti le statistiche ci informano che molti dei renitenti erano persone già espatriate per motivi di lavoro. In ogni caso il 10% dei cittadini non espatriati chiamati alle armi, concentrati soprattutto nel Meridione e nelle isole, non risposero al richiamo della patria e preferirono in molti casi darsi al banditismo (Antonio Gibelli, La grande Guerra, op. cit., pp. 108-109).

 

Un’altra via di fuga dalla guerra era ricercata nell’autolesionismo. Durante il conflitto assunse un’intensità prima sconosciuta – nonostante anch’essa fosse diffusa tra i contadini – e più drammatica perché i fanti arrivarono a colpirsi organi essenziali come la vista e l’udito.

 

Il motivo di ciò risiede nel fatto che «certe malattie erano diffuse in alcune aree geografiche del paese e ben conosciute … e per ciò stesso suggerivano ai soldati la strada da tentare. I percorsi dell’autolesionismo seguivano insomma la geografia della miseria e delle malattie sociali più diffuse» (Ibidem, p. 117).

 

I bombardamenti dell’artiglieria, il ritrovarsi seppelliti sotto le macerie e sotto o accanto i cadaveri, e una paura intensa e inenarrabile potevano provocare disagi mentali dai risvolti somatici che, in alcuni casi, erano gravi, per es. la paralisi.

 

Lo stato maggiore predispose dei servizi psichiatrici che, però, affrontavano il problema muovendo dal presupposto che queste malattie mentali fossero da attribuire, oltre che a simulazione, a riottosità, tare ereditarie, insomma, fossero manifestazioni di caratteri indisciplinati e asociali.

 

Di conseguenza, il loro approccio non fu terapeutico, ma investigativo e punitivo. Certo, i fanti cedevano alla simulazione del disagio psichico pur di allontanarsi dalla prima linea. Eppure da qui a considerare una sceneggiata, una impostura, ogni manifestazione di un malessere mentale significava con ciò stesso essere ciechi nei confronti di un’umanità disperata che si ritrovava a vivere la morte quotidianamente.

 

Autolesionismo, malattia provocata o simulata, malattia mentale reale o anch’essa recitata potevano rappresentare benissimo fughe dalla guerra per coloro che non riuscivano a elaborare appieno sul piano cosciente l’esperienza bellica.

 

Tuttavia dalla corrispondenza emergono chiaramente i segni della protesta contro una guerra non voluta, celati o velati da dichiarazioni opportunistiche di patriottismo utili ad eludere la censura militare ma in cui le nozioni di Italia e patria non sono per nulla idee chiare e distinte.

 

Insomma, sebbene la guerra, convogliando le molteplici diversità peninsulari, stesse ottenendo una certa omologazione degli uomini al fronte, ciò non favoriva il sorgere di un nuovo orizzonte nazionale cui legare l’identità individuale.

 

Piuttosto essa sospingeva i fanti nelle braccia, oltremodo virtuali, delle famiglie e delle comunità di provenienza, proprio con il tessere un’idea di Italia troppo intrecciata con la morte di massa che si consumava al fronte, e troppo poco aderente all’aspettativa di un’Italia fondata su di un rapporto fiduciario tra cittadini e stato. «La prima patria e [è] la famiglia», si legge in una cartolina anonima (Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p. 249).

 

Questo sfondo è da tenere ben presente per comprendere quei gesti di più aperta e decisa opposizione alla guerra e alle condizioni di vita che essa imponeva alle truppe, quali furono, oltreché le diserzioni, le ribellioni individuali o collettive, cioè gli ammutinamenti.

 

Gli episodi di ammutinamento che interessarono l’esercito italiano soprattutto nel 1917 non furono così estesi e gravi come avvenne nell’esercito francese durante lo stesso anno (Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, op. cit, pp. 274-275). Sul fronte francese, infatti, il generale ammutinamento del 1917 fu provocato dall’assurda decisione del generale Nivelle di continuare un attacco tra Soisson e Reims che già il secondo giorno aveva causato ben 120.000 morti tra i francesi.

 

I protagonisti di questo sciopero di massa furono le riserve alloggiate nelle retrovie che avrebbero dovuto sostituire le truppe in prima linea. Tra la fine di aprile e la metà di giugno tutto il settore centrale del fronte si ammutinò contro il modo in cui Nivelle stava conducendo la guerra (Stuart Robson, op. cit., pp. 118-120).

 

In Italia furono celebrati 60 processi militari per il reato militare di ammutinamento che aveva come motivazioni la lunga permanenza sul fronte e la sospensione delle licenze (Antonio Gibelli, op. cit. p. 121).

 

Tuttavia, a differenza di quanto avvenne in Francia dove Petain, che sostituì Nivelle, comprese le ragioni dei soldati e ne migliorò le condizioni di vita (Stuart Robson, op. cit., p. 120), questi fatti non spinsero i comandi italiani e Cadorna ad un ripensamento sul modo in stavano trattando le truppe.

 

Essi, piuttosto, «puntarono principalmente sul terrore, per evitare il prodursi di crepe nella compagine dei combattenti. Era questo un riflesso della convinzione diffusa nelle autorità secondo la quale solo coi metodi repressivi si poteva costringere le truppe a fare una guerra non capita e non voluta.

 

Almeno fino all’autunno del 1917 vennero quasi completamente ignorate quelle che erano le condizioni indispensabili per assicurare alla lunga le tenuta dell’esercito: rispettare la dignità dei soldati, migliorare le loro condizioni, esaudire il loro bisogno di licenze e di riposo» (Antonio Gibelli, op. cit. pp. 123-124).

 

Solo dopo Caporetto gli alti comandi compresero la necessità di ottenere un consenso dalle truppe che non fosse alimentato dal timore di incorrere in una punizione esemplare ed edificante.

 

Ci si premurò di curare sostentamento e vestiario ai fanti, si aumentarono le licenze, furono erogati ingenti sussidi alle famiglie dei militari e si promise (incautamente) la distribuzione di terre ai contadini (Giovanna Procacci, op.cit., p. 28).

 

Si prese poi esempio dalla attività di Don Minozzi e si istituì un Ufficio Propaganda (l’ufficio P) il cui obiettivo era di formulare le ragioni della guerra nel linguaggio dei soldati contadini.

 

Furono così pubblicati giornali di intrattenimento, divulgazione e propaganda che insieme alle Case del soldato e ai Teatri al fronte, implementavano «il primo grande esperimento di pedagogia di massa, di condizionamento e di formazione dell’opinione pubblica popolare» (Antonio Gibelli, op. cit. p. 134).

 

Tutto ciò tuttavia non significò un mitigamento del rigore della disciplina al fronte: «ad esempio una serie di norme permise di considerare disertore… chiunque avesse ritardato di 24 ore il ritorno al proprio reggimento, seppure non situato al fronte» (Giovanna Procacci, op.cit., p. 28).


 

 

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