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N. 34 - Ottobre 2010 (LXV)

le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte III - Contadini soldati

di Gianluca Seramondi

 

Come si evince dal quadro sociale dell’Italia Giolittiana, da un giorno all’altro i contadini di tutta Italia si trovarono gettati in luoghi che non conoscevano. Dapprima attraversarono città che apparvero ai loro occhi mitiche (Su questi temi Antonio Gibelli La grande guerra degli italiani, 1915-1918, Milano, Rcs, 2007, pp. 142-148).

 

Le città industriali del nord offrivano un regime di vita in cui umano e macchina iniziavano a sincronizzarsi in maniera sempre più coartante per il primo; in cui le macchine, anche quelle belliche che apparivano allora divertenti e suscitavano ammirazione, iniziavano ad affollare i luoghi pubblici, in cui il rumore che annullava i suoni della natura e la luce che vanificava l’alternarsi di giorno e notte dominavano il paesaggio urbano.

 

Il quale era affatto più spettacolare di quello costituito essenzialmente dalla natura, perché tutti i suoi luoghi diventarono supporto di immagini pubblicitarie ammiccanti, affascinanti e ovviamente patriottiche: «In questo senso si può dire che il manifesto murale è il primo mezzo di comunicazione di massa moderno, che non si rivolge, come il giornale, a un pubblico selezionato di lettori acquirenti, ma al pubblico generico e involontario, spesso passivo, che popola l’ambiente urbano, e che dev’essere raggiunto e colpito con tecniche grafiche di grande efficacia» (Ibidem, p.243).

 

In queste città la piccola comunità rurale da cui i contadini soldati provenivano si espandeva a dismisura nella moderna società di massa. Le persone e le norme che regolavano la vita sociale del villaggio si tramutavano in una burocrazia che riduceva a cifre più o meno complesse tutte le dimensioni della vita.

 

I ritmi propri dei campi, legati al succedersi delle stagioni, delle semine e dei raccolti, si concretavano infine nell’uniformità del tempo meccanico dell’orologio ora fordista ma da tempo segreto e presente organizzatore della vita umana.

 

Di conseguenza i contadini e non solo essi cominciarono a fare esperienza «di una integrazione sempre più stretta tra l’elemento naturale e quello artificiale, anzi di un primato … del fattore tecnologico su quello biologico» (Ibidem, p. 147). La natura come fattore che determina lo scorrere della vita si dissolveva ai loro occhi, sbiadiva in un’immagine che solo la nostalgia poteva riportare a più vivida luminosità.

 

Dopo aver sostato in questi luoghi della meraviglia e dell’inverosimile, i contadini furono costretti in cunicoli e tane da cui il semplice sporgersi poteva risultare esiziale. E il paradosso di questo passaggio risiedeva tutto nel fatto che nelle trincee ora avevano a che fare con il risvolto tenebroso di quella stessa seconda rivoluzione industriale di cui le città si compiacevano di mostrare il lato più corrusco.

 

Da quel sottosuolo che erano le trincee i contadini combatterono una guerra di cui non comprendevano le ragioni. E come accadde per i contadini, anche le trincee nell’immagine propagandata ai civili si mitizzarono e si trasformarono in luoghi ben costruiti, sicuri, ordinati in cui la mortale quotidianità della vita di trincea era trasfigurata nella quotidianità di una vita rurale arcadica fatta di gesti sia di fatica che di distrazione ma mai di morte e di violenza, quasi a voler segnare la continuità tra la vita nei campi e quella nelle trincee (Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, La grande guerra 1914-1918, Firenze, La Nuova Italia, 2001, p. 233).

 

Ma la realtà della trincea era ben altro. Era il fango, la mancanza di sicurezza, la precarietà e la provvisorietà. Era condizionata e forgiata sia dalle caratteristiche del terreno in cui cunicoli, ridotti e camminamenti erano scavati, sia dai proietti dell’artiglieria del nemico che ne sconquassavano la linearità.

 

Lo storico Eric J. Leed nel suo Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna ha osservato che la metafora del labirinto ricorre spesso nei resoconti dei combattenti per la sua idoneità «… a simboleggiare la natura frammentata, disintegrata e disgiuntiva del paesaggio in cui erano inseriti i combattenti della guerra di trincea» (Eric J. Leed, op. cit, p. 109). Con le parole di Charles Carrington, in trincea « È impossibile mantenere il senso dell’orientamento ed ogni passo costa una fatica immensa.

 

Quando poi il sistema di trincee è stato squassato dalla battaglia, la confusione raggiunge il suo grado massimo [e] un vecchio e tormentato campo di battaglia come quello della Somme, diventa infine un labirinto di trincea senza criterio alcuno» (ibidem, p. 109). Gli armamenti moderni e la loro quantità «…definirono una struttura fisica - il sistema di trincea - che assunse le sembianze di un mondo labirintico, in grado di dettare il comportamento, le relazioni sociali, la coscienza di sé del combattente» (Ibidem, p. 106).

 

In questo labirinto dominavano innanzitutto e per lo più la noia e la monotonia. Difatti, la guerra di posizione e di logoramento conferiva al fronte una immobilità che vanificava tutti gli sforzi di manovra dei comandi. In queste circostanze, i fanti, nell’attesa dell’ordine di assalto, occupavano il tempo con la manutenzione delle trincee, con la costruzione di collegamenti che rendessero più agevoli i rifornimenti dalle retrovie, con l’”arredo” degli spazi in cui trascorrevano le giornate al fine di renderli più confortevoli e familiari.

 

Da questo punto di vista assumeva un rilievo esistenziale di primo ordine il momento della posta il cui mancato arrivo «priva il soldato di ciò di cui ha maggiormente bisogno: qualcuno che, scrivendogli, gli dia un nome, lo tenga in collegamento con la vita normale, gli parli del paese e delle cose di casa. L’inesausto bisogno di leggere e scrivere lettere – testimoniato dai numerosi reperti di “scrittura popolare” - è il frutto precipuo della guerra come «evento separatore»; e – come l’altro storico evento separatore, l’emigrazione, che è anch’essa partenza per un nuovo mondo – costringe una massa illetterata a industriarsi» (Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, op. cit., p. 237).

 

Non a caso durante la guerra aumentò considerevolmente il volume della corrispondenza nonostante che nel prosieguo della guerra«le lettere [giungessero] alle famiglie con sempre minor frequenza, anche perché, in seguito all’affollarsi di posta non distribuita per mancanza di personale, la corrispondenza veniva spesso distrutta» (Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p. 212). Significativamente tra il 1911 e il 1921 il tasso di analfabetismo scese dal 48,5% al 27,4%.

 

I soldati sentivano l’urgenza di scrivere per una «spiccata esigenza autobiografica» (Antonio Gibelli, La grande Guerra, op. cit., p. 138). Infatti, la lettura della corrispondenza e la scrittura erano sentiti come uno strumento per riallacciare i legami con il proprio passato e con il mondo in cui si era vissuti prima della guerra perché solo ad essi si poteva ancorare un’identità personale che l’esperienza della guerra rischiava di rovinare irrimediabilmente. Così, nelle lettere che i fanti scrivevano ai propri cari l’orizzonte che definiva la loro identità era la famiglia, e la moglie in particolare. Vi traspare inoltre una identificazione nostalgica con il paese d’origine che difficilmente può corrispondere all’Italia.

 

L’identità era loro garantita meglio dalla cerchia dei familiari e dei compaesani, al limite dai corregionali, perché «Tanto la famiglia quanto la comunità paesana sono istituzioni ben più concrete, vicine e rassicuranti dello stato nazionale» (Ibidem, p. 159). Non a caso allora «il riferimento ai vincoli «orizzontali» familiari e comunitari si intreccia a quello «verticale» della deferenza verso i maggiorenti (il sindaco, il farmacista, l’avvocato): le lettere indirizzate a costoro professavano in genere fedeltà inalterata a dispetto della lontananza, promettono appoggi elettorali e chiedono naturalmente favori, aiuti, sostegno per le famiglie in difficoltà, secondo i principi classici dello scambio clientelare» (Ibidem, p. 161).

 

La lettura della corrispondenza e il rancio erano gli unici momenti “lieti” di giornate che, se non venivano squassate da un assalto, si ripetevano stanche, monotone, in cui ci si assuefaceva ai gemiti dei corpo disseminati nella terra di nessuno che non potevano essere recuperati, ai cadaveri la cui decomposizione produceva tanfi pungenti ma dietro cui si poteva trovare riparo in caso di attacco (Ibidem, p. 337).

Di conseguenza, la guerra di trincea fu a tutti gli effetti un’esperienza biologica per i soldati di tutti gli eserciti. Innanzitutto perché «L’esperienza della guerra e quella della prigionia avevano […] fatto emergere con forza la dimensione del corporeo e al suo interno quella della contaminazione, vale a dire della commistione tra elementi opposti e incompatibili come il vivo e il morto, il commestibile e il fecale, la nutrizione e la decomposizione, il sano e l’infetto» (Ibidem, p. 324).

 

In secondo luogo perché «per circa 4 anni … milioni di corpi per lo più giovani e in buona salute erano stati trasformati in cadaveri in putrefazione» (Ibidem, p. 7).

 

In terzo luogo perché dopo la guerra «si dovettero contare i propri morti, collaborare al loro riconoscimento, seguire le operazioni del loro recupero, talvolta visitare per questo i campi di battaglia in mesti pellegrinaggi» in cui ci si trovò faccia a faccia con una morte massificata per nulla serena e riservata e con cadaveri astratti come merci e come tali accatastati e accantonati (Ibidem., pp. 336-338). Un altro caratteristica, quest’ultima, che fa della prima guerra mondiale una guerra totale.

 

Questo punto di vista biologico sul primo conflitto mondiale permette di ricordare un altro aspetto della vita in trincea. Se è vero che la Grande Guerra è stata la prima guerra, in cui il numero di morti per ferita sopravanza quello dei morti per malattia(Mario Isnenghi - Giorgio Rochat, op. cit, pp. 265-268), tuttavia il numero di soldati italiani ricoverati negli ospedali per malattie varie fu incredibilmente alto: 1.057.000 nel 1917 e 1.310.300 nel 1918.

 

Queste cifre tengono conto anche degli ospedalizzati provenienti dal paese ma sono ben distanti per eccesso dai dati degli altri paesi europei. Questa diversità può essere spiegata adducendo: il ritardo dello sviluppo italiano rispetto al resto d’Europa; l’allargamento della platea degli arruolati, dovuta alla chiamata anche di uomini già affetti da malattie; l’introduzione della vaccinazione contro il colera e il tifo solo nell’inverno 1915-1916.

 

Infine, si può senz’altro imputare un’incidenza così estesa delle malattie alle pessime condizioni di vita in cui Cadorna costringeva i suoi soldati. Così, mentre i soldati francesi nel 1915-1916 «avevano già quello che i soldati italiani ottennero soltanto nel 1918: turni regolari di riposo, vitto abbondante, licenze garantite, propaganda effige, regime disciplinare senza eccessi terroristici […] Le truppe italiane fruirono di minori riguardi» (Ibidem, pp. 267).

 

L’altra faccia del fronte era l’assalto. Non la battaglia, ma una successione di assalti settoriali che poteva durare mesi. L’attacco era sempre preparato da un artiglieria comunque insufficiente a distruggere reticolati e trincee austriache. Dopo questo fuoco di preparazione, la fanteria attaccava in formazioni compatte, subendo le raffiche delle mitragliatrici e i proietti dell’artiglieria che sconvolgevano la terra di nessuno.

 

Se raggiungevano le trincee austriache le truppe dovevano sostenere i contrattacchi austriaci. Nel caso si fossero fermate a ridosso dei reticolati nemici, i fanti dovevano costruire precarie posizioni da cui preparare un nuovo attacco o ripiegare (Ibidem., p. 165). Le offensive finivano così per «consistere soltanto in una successione di attacchi frontali, settore per settore, ripetute fin quando le truppe non crollano» (Ibidem, p. 163).

 

Nella memorialistica di guerra il momento dell’assalto è argomento centrale. Vi si descrivono uomini che rifiutavano di uscire dalle trincee e che quindi erano passibili di immediata esecuzione ad opera dei loro superiori.

 

Trapela «la natura sanguinosa e spietata della tattica offensiva di Cadorna, che dal Comando supremo, discende per gradi sino ai reparti minori: uomini contro macchine, avendo ancora abbondanza di uomini e penuria di macchine, come avviene in particolare nei primi mesi, e andando a urtare contro posizioni munite, sovrastanti e predisposte alla difesa» (Ibidem, p. 241).

 

Tattica sanguinosa e spietata anche perché «gli attacchi italiani dovevano essere condotti in salita, sotto il fuoco d’artiglieria ben diretto da osservatori che dominavano tutta la zona dei combattimenti, mentre le riserve e i movimenti austriaci erano sottratti al fuoco italiano» (Ibidem, p. 156).

 

La paura di morire dominava i momenti precedenti l’attacco. Oppure incuteva terrore la certezza di essere sventrati dalle mitragliatrici, o l’immagine dei corpi che giacevano agonizzanti nel territorio desolato tra i reticolati o impigliati in essi, o l’assoluta insensatezza di un assalto che non avrebbe portato a nulla, o quantomeno a nulla di significativo per la distante causa italiana, certo non lo sfondamento delle linee nemiche.

 

In uno dei film più intensi dedicati alla strage che si consumò lungo il fronte occidentale, Paths of Glory (1957) di Stanley Kubrick, la sequenza che precede l’attacco alla posizione tedesca detta il Formicaio, ritrae due soldati che disquisiscono “amabilmente” della morte:

 

Arnaud: “Io non ho paura di morire domani... Ho paura che mi uccida...

Soldato: “è chiaro come la notte”

Arnaud: “Preferiresti essere ucciso da una baionetta o da una mitragliatrice?”

Soldato: “Ma da una mitragliatrice”

Arnaud: “Anch’io la penso così: tra le due armi la mitragliatrice è più veloce, più pulita e meno dolorosa”

Soldato: “Cosa vuoi dimostrare?”

Arnaud: “Che la maggior parte ha più paura del dolore che di morire [pausa] Guarda Bernard. Ha il panico se gli parli di gas. Invece a me non dà fastidio. Lui ha visto gente fregata dal gas e questo lo ha spaventato. Ti dico una cosa. Mi sentirei perduto senza elmetto in testa, mentre non mi importa di non avere un elmetto sul sedere, e sai perché”

Soldato: “si, perché c’è il cervello...”

Arnaud: “perché so che una ferita in testa fa molto più male. Là c’è soltanto carne ma la testa è tutto un osso”

Soldato: “già è il caso tuo”

Arnaud: “Dimmi un po’: baionetta a parte, di che cosa hai più paura?”

Soldato: “Ma di una grossa bomba!”

Arnaud: “Esatto! Proprio come me! Perché ti può dilaniare più di qualsiasi altra cosa; vedi, se hai paura di morire dovresti viver nel panico per tutta la vita perché sai che un giorno devi morire; e poi, se è la morte che veramente ti spaventa, perché ti preoccuperesti di cosa ti uccide?”

Soldato: “Ah, sei troppo profondo per me (..). So solo che nessuno vuole morire”»

 

La morte può essere causata dalla baionetta - una morte che, se ricorda il corpo a corpo delle battaglie con la spada, non è detto che arrivi subito, è potenzialmente agonizzante. La mitragliatrice è migliore della baionetta perché veloce, pulita e meno dolorosa, a meno che le sue pallottole non impattino le ossa del cranio.

 

La morte è, ancora, quella data dal gas - una morte psichica e fisica insieme, che può distruggere la persona negandole anche il conforto della morte. Oppure la morte è quella provocata da una grossa bomba, una morte che dilania il corpo, che frantuma le ossa, che decapita il corpo. Quest’ultima è la morte, “l’essere uccisi”, che fa più paura, che incute terrore perché dilania, spezza, manda in mille pezzi una corporeità ultimo baluardo dell’identità anche nella morte.

 

Ecco allora che dietro le quinte dell’assalto è tutto un montare di sentimenti che l’esperienza diretta della guerra inevitabilmente provocava e che scavava «non solo fra i soldati semplici, ma fra i migliori degli ufficiali di complemento – un senso profondo di diversità e di rancore fra combattenti e comandi, alti e intermedi» (Ibidem, p. 242), e fra il fronte e la società civile.

 

Frattura quest’ultima acuita da una stampa per di più specialistica che degli assalti descriveva l’ardore, il coraggio, la passione, la bellezza, il lirismo e che misconosceva il lezzo che avvolgeva il fronte nel suo insieme.

 



 

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