N. 33 - Settembre 2010
(LXIV)
Le classi subalterne in Italia durante la Grande Guerra
parte II - un quadro sociale
di Gianluca Seramondi
L’Italia
che
si
apprestava
ad
entrare
in
guerra
presentava
una
«variegata
geografia
economica,
sociale
e
politica
[…]
Nord
e
Sud,
città
e
campagna,
Roma
e
Milano,
governanti
e
governati:
i
segni
della
diversità
di
situazioni
si
potrebbero
moltiplicare.
Neanche
del
partito
politico
più
vicino
a
una
forma
di
partito
moderna
e di
massa
–
quello
socialista
– si
può
dire
che
disponga
di
un
insediamento
realmente
omogeneo
e
nazionale;
se
poi
diciamo
«cattolici»…
copriamo
anche
in
questo
caso
diversità
profonde.
La
parrocchia
e il
prete
veneto
ben
poco
assomigliano
a
quelli
siciliani».
Dato
il
contesto
così
frammentato
è
difficile
comprendere
quali
fossero
e
come
agissero
le
classi
subalterne
italiane.
Antonio
Gibelli
nella
Grande
Guerra
degli
Italiani
descrive
la
situazione
sociale
dell’Italia
giolittiana
fornendo
così
un
quadro
di
riferimento
utile
per
capire
chi
fossero
i
soldati
inviati
al
fronte
e
quali
fossero
i
riferimenti
delle
classi
popolari
in
generale.
L’Italia
prebellica
soffriva
di
analfabetismo
-
circa
il
40%
della
popolazione
(con
punte
del
70%
in
Calabria)
-, e
non
vedeva
crescere
la
scolarizzazione:
nel
1906,
ben
46
bambini
su
100
tra
i 6
e
gli
11
anni,
non
si
iscrivevano
alle
elementari.
Tra
la
popolazione
prevaleva
l’uso
del
dialetto
e in
tutta
la
penisola
erano
radicate
forti
tradizioni
localistiche:
retaggio
insuperato
della
frammentazione
territoriale
che
l’Italia
unitaria
stentava
a
ricomporre.
Infatti,
l’unificazione
non
aveva
prodotto
un
insieme
di
valori
diffuso
e
condiviso
che
poteva
tradursi
in
un
consenso
collettivo
alle
regole
istituzionali.
Tutto
ciò
ostacolava
un
processo
di
identificazione
nazionale,
giacché
agli
occhi
delle
classi
meno
agiate,
la
patria
non
era
certo
l’Italia,
bensì
il
villaggio
o
addirittura
il
borgo
di
nascita.
E la
guerra
stessa
«non
sviluppò
una
coesione
nazionale
ma
piuttosto
solidarietà
parziali
(di
battaglione,
di
paese
d’origine,
di
fronte
di
comunità,
di
professione
che
accentuarono
il
tradizionale
particolarismo
italiano
dando
vita
ad
una
sorta
di
corporativismo
sociale».
Crescevano
la
popolazione
(alti
tassi
di
natalità,
bassi
tassi
di
mortalità)
e le
città.
Le
quali
soprattutto
al
Nord
ospitavano
fabbriche
siderurgiche,
meccaniche,
chimiche
e
legate
al
settore
elettrico,
che
davano
lavoro
al
23,7%
della
popolazione.
L’Italia
giolittiana
però
viveva
fondamentalmente
di
agricoltura:
stando
ai
dati
del
censimento
del
1911,
il
58%
della
popolazione
attiva
lavorava
ancora
nei
campi.
E
furono
i
contadini
che
ingrossarono
le
fila
dell’esercito,
e in
particolare
della
fanteria,
più
degli
altri
settori
sociali:
dei
4,8
milioni
di
uomini
maggiori
di
18
anni
che
lavoravano
in
agricoltura,
2,6
milioni
furono
chiamati
alle
armi.
I
contadini
rappresentavano
il
45%
degli
arruolati,
contro
il
14,3%
degli
operai
non
qualificati,
il
13,7%
degli
artigiani,
l’11,5%
degli
operai
di
industrie
e
commercio
e il
2,5%
dei
commercianti.
E,
ovviamente,
pagarono
il
tributo
in
vite
umane
più
alto:
il
64%
degli
orfani
di
guerra
era
figlio
di
contadini,
il
30%
di
operai,
il
3,3%
di
imprenditori
e
commercianti,
il
2,7%
di
professionisti
e
impiegati.
Questa
situazione
innescò
una
modificazione
strutturale
delle
società
rurali.
In
campagna
continuarono
ad
operare
2,2
milioni
di
uomini
maggiori
di
18
anni,
affiancati
da
1,2
milioni
di
contadini
di
età
compresa
tra
i 10
e i
18
anni.
Di
questi
2,2
milioni
di
contadini
molti
erano
anziani,
poiché
il
richiamo
riguardava
uomini
fino
al
quarantaduesimo
anno
di
età.
Ad
essi
si
contrapponeva
una
platea
femminile
composta
da
6,2
milioni
di
donne
con
età
maggiore
di
10
anni
le
quali
dovevano
inoltre
accudire
bambini
di
entrambi
i
sessi
al
di
sotto
dei
10
anni.
Per
quanto
riguarda
il
processo
di
industrializzazione,
lo
sviluppo
dei
settori
manifatturieri
interessò
soprattutto
il
Nord
e
comportò
uno
sviluppo
intenso
dell’urbanizzazione,
per
via
delle
migrazioni
interne.
La
guerra
agì
anche
qui
come
fattore
di
modificazione
sociale
giacché
portò
in
città
decine
di
migliaia
di
donne
che
turbarono
l’ordine
innanzitutto
nelle
fabbriche
e
non
a
caso
furono
protagoniste
assolute
delle
proteste
operaie.
La
forte
concentrazione
di
forza
lavoro
stimolava
l’organizzazione
operaia
e la
nascita
di
movimenti
per
l’emancipazione
guidati
soprattutto
ma
non
esclusivamente
dai
socialisti.
Dal
1907
l’Italia
era
in
recessione
dovuta
ad
un
forte
calo
delle
esportazioni
che
nemmeno
i 10
mesi
di
neutralità
tra
il
1914
e il
1915
riuscirono
a
risollevare.
Per
questo
motivo
i
grossi
gruppi
capitalisti
italiani
si
decisero
per
la
guerra:
vi
vedevano
sia
l’opportunità
di
un’espansione
territoriale
che
aprisse
nuovi
mercati,
sia
l’occasione
di
riprendere
il
controllo
sulla
«disciplina
di
fabbrica
minacciata
dalle
lotte
operaie».
Da
questo
punto
di
vista,
Giovanna
Procacci
ha
definito
la
prima
conflagrazione
mondiale
come
«Un
conflitto
usato
per…
scongiurare
le
minacce
di
un
movimento
operaio
in
ascesa».
Il
quadro
qui
tratteggiato
conferisce
all’Italia
giolittiana
il
carattere
di
paese
late
comer
per
il
ritardo
con
cui
giunse
allo
sviluppo
industriale
e
civile,
ritardo
che
ebbe
conseguenze
sul
piano
sociale.
Infatti,
vi
permanevano
caratteri
tipici
di
società
in
transizione
da
modelli
pre-industriali
a
modelli
industriali:
preminenza
dell’esecutivo
sul
legislativo,
interventismo
statale
in
economia,
ampia
influenza
del
potere
militare
in
ambito
civile,
scarse
riforme
sociali,
industrializzazione
territorialmente
circoscritta
e
ancora
troppo
recente
per
permettere
il
riassorbimento
dei
mutamenti
e
squilibri
sociali
che
aveva
generato.