N. 11 - Novembre 2008
(XLII)
Civitates
di Sicilia
Il comportamento di
Roma
di Francesco
Cristiano
Il presente articolo,
già comparso nel numero due di "InStoria quaderni di
storia e informazione", viene qui riproposto con alcune
correzioni e integrazioni che l’autore ha ritenuto
necessario apportare per una comprensione più chiara e
scientificamente esaustiva del testo precedentemente
pubblicato.
«Noi accogliemmo le città
della Sicilia in amicizia e ‘fides’ in modo che
esse restassero con gli stessi diritti di prima e
obbedissero al popolo romano nella stessa condizione, in
cui prima avevano obbedito ai propri governanti.
Pochissime città della Sicilia sono state sottomesse con
la guerra dai nostri antenati; il loro territorio,
benché divenuto proprietà del Popolo Romano, fu tuttavia
restituito loro; di consueto la riscossione dell’imposta
su questo terreno è data in appalto dai censori.
Ci sono due città
federate, non sottoposte di norma al sistema di
aggiudicazione delle decime, Messina e Taormina, e
inoltre cinque città non federate immuni e libere,
Centuripe, Halaesa, Segesta, Alicie, Palermo; tutto il
resto del territorio delle città siciliane è sottoposto
al versamento della decima, e così era anche prima del
dominio del popolo romano, per volontà dei Siciliani
stessi e secondo le norme da loro stabilite » (Cicerone,
Verrine, III, 6, 12-13).
Come è noto, nelle Verrine
Cicerone si scaglia contro Gaio Verre, per le gravi
scorrettezze compiute nell’esercizio delle sue funzioni
di governatore della Sicilia dal 73 al 71 a.C. L’intera
opera rappresenta la principale fonte d’informazione
sugli affari interni della provincia Sicilia sotto la
Res Publica.
Il processo
politico-amministrativo di romanizzazione della Sicilia
ebbe inizio con la deditio mamertina che, nel 264
a.C., portò allo scoppio della I Guerra Punica, al
termine della quale i romani divennero padroni della
maggior parte dell’isola, già soggetta ai Cartaginesi.
Durante la Seconda Guerra Punica, invece, per opera di
C. Marcello e M. Valerio Levino venne conquistato il
regno siracusano di Ierone II e unificata l’isola sotto
le insegne romane.
Indicative, in questo
senso, sarebbero due date: il 241 e il 227 a.C. La prima
è quella della conclusione della I Guerra Punica,
momento in cui la Sicilia, ancora politicamente divisa
fra la provincia romana ed il regno di Ierone II, aveva
potuto godere di un periodo di pace e ricevere un primo
parziale assestamento di carattere amministrativo da
parte Q. Lutazio Catulo. L’unità fiscale venne
raggiunta probabilmente nel 227 a.C., data che sancisce
l’istituzione della Provincia Sicilia, con l’invio
nell’isola di G. Flaminio, il cui compito «deve aver
necessariamente riguardato anche il piano tributario,
con una razionalizzazione del sistema delle imposte »
(A. Pinzoneª).
Solo nel 210 a.C., con
Levino, si ebbe il definitivo ordinamento
giuridico-amministrativo e soprattutto economico della
provincia. Era questa la lex provinciae che,
completata e fissata dopo la I Guerra Servile dal
console P. Rupilio, nel 132 a.C. (Lex Rupilia),
costituì il definitivo assetto dell’isola quale si
riscontra al tempo di Cicerone. La legge fissava lo
stato giuridico delle singole città e del loro
territorio di fronte allo Stato Romano. A ragione si
ritiene, quindi, che «la Sicilia descritta da Cicerone
[…] è, in effetti, la Sicilia di Rupilio» (G. Manganaro),
cioè riflette l’assetto ricostituito da L. Rupilio nel
131 a.C, anche se, a parere dello studioso, il modulo di
base impostato dal proconsole Levino per la
riorganizzazione della provincia (208-207 a.C.), deve
aver già compreso le diverse categorie di città quali si
ritrovano nel passo, sopra riportato, delle Verrine.
Secondo alcuni studiosi,
Cicerone tenderebbe a sottolineare la continuità delle
condizioni tributarie della Sicilia e poiché
tradizionalmente decumana era tutta l’isola, prima della
conquista romana, è naturale che l’oratore cerchi di
mettere in evidenza il piccolo numero di città che si
trovano, per un motivo o per un altro, in condizioni
diverse (S. Calderone). Altri studiosi ritengono,
invece, che le parole di Cicerone farebbero parte di una
sequenza retorica incentrata sul contrasto tra Sicilia e
ceterasque provinciae e tenderebbero a far
risaltare la situazione privilegiata dell’isola, prima
dell’intervento di Verre. In tal senso è ben evidente
come Roma si presentasse agli occhi dei siciliani
semplicemente come colei che aveva preso il posto dei «
beneficiari del sistema impositivo previgente, e per di
più magnanimamente rispettosa delle regole che i siculi
stessi si erano date ». (M. Genovese).
Dal passo delle Verrine,
proposto in apertura, dunque risultano:
- due civitates
foederatae (quarum decumae venire
non soleant): Messina e Taormina (più
tardi si aggiungerà anche Noto), che avevano
sottoscritto con Roma un trattato (foedus)
formalmente bilaterale che definiva con molta precisione
la situazione della città, i suoi obblighi e i suoi
diritti, e postulava la sua indipendenza. Qualsiasi
prestazione richiesta a tali città sarebbe rientrata
sempre nel campo del diritto internazionale;
- cinque civitates
sine foedere immunes ac
liberae: Centuripe, Halaesa, Segesta, Alicie e
Panormo, la cui posizione dipendeva da un atto
unilaterale di Roma, che accordava dei privilegi, ma non
li garantiva con un trattato;
- un numero imprecisato di
città il cui ager è soggetto alla decuma, che
cioè dovevano versare una quota decimale dei prodotti
del loro territorio (praeterea omnis
ager Siciliae civitatum decumanus).
Cicerone evita riferimenti numerici precisi per le città
decumane, indicate come una categoria pressoché
generalizzata alla quale attribuisce un’omogeneità sul
piano prettamente amministrativo-tributario (soggezione
al versamento della decuma);
- le perpaucae […]
civitates […] bello subactae, il
cui ager a censoribus locari
solet, ossia le sei città vi captae
(conquistate con la forza), il cui territorio,
dichiarato ager publicus (proprietà del
popolo romano), era destinato a essere affittato dietro
pagamento di un canone. Dal punto di vista tributario,
la sola differenza tra città censorie e decumane stava
nel fatto che, per le seconde, l’appalto della decuma
avveniva in Sicilia, mentre per le prime a Roma.
Nell’ordinamento imposto
alla Sicilia, prima provincia di Roma, cinque città
vengono, quindi, riconosciute come immunes ac
liberae: Centuripe, Halaesa, Segesta, Alicie e
Palermo.
Nel tempo numerosi
studiosi hanno provato a spiegare il significato e le
implicazioni dei due termini indicati da Cicerone in
riferimento a questa categoria di città. Agli inizi del
’900 le civitates liberae atque
immunes (con l’inversione dei termini rispetto alla
formula ciceroniana) sono state definite come quelle
città che, «pur non essendo garantite da un vero e
proprio trattato di alleanza, godevano tuttavia
d’autonomia e d’immunità» (A. Holm).
Questi privilegi potevano
anche revocarsi ad arbitrio di chi li aveva concessi (G.
De Sanctis). Fondamentalmente le condizioni di favore di
queste città dovevano derivare da benemerenze e funzioni
speciali riconosciute da Roma fin dal 241 a.C. (L.
Pareti). In questa data, infatti, le cinque città
dovevano apparire già liberae et
immunes, datesi volontariamente a Roma nel 263 a.C.
e rimaste fedeli. Di conseguenza, l’iscrizione alle
varie categorie di città, dovette variare almeno due
volte nel corso del III sec. a.C.: la prima volta,
quando nel 227 a.C., la Sicilia divenne provincia; la
seconda quando, dopo la sconfitta di Siracusa, nel 210
a.C., fu data dal console Levino una nuova sistemazione
generale all’isola.
Per quanto concerne il
concetto di libertas si è ritenuto che la
dichiarazione di essa, illimitata nei primi tempi, fosse
un privilegio concesso ad alcune città siciliane sulla
base di un rapporto di ‘clientela’ che, come nel diritto
pubblico dei cives romani legava il cliente al
patrono, sul piano del diritto pubblico internazionale
vincolava le città datesi in fidem populi
Romani al patronato di Roma (E. Badian). I privilegi che
Roma concesse alle città della Sicilia furono, quindi,
la conseguenza della loro deditio in fidem, un
atto che aveva le caratteristiche di un ‘contratto
verbale’ che generalmente poneva fine alla guerra.
I suoi effetti
consistevano nel trasferire, volontariamente, al potere
romano tutti gli elementi giuridici della sovranità e
della collettività pubblica. La città che se dedit in
fidem doveva essere fisicamente risparmiata e
giuridicamente lasciata in stato di libertà, una
condizione formale del tutto analoga, probabilmente, a
quella in cui si trovavano i socii italici e
sulla quale siamo informati dalle fonti. Apprendiamo,
infatti, da Tito Livio (XXV 40,4) che le città “che
prima della conquista di Siracusa o non avevano fatto
defezione o erano tornate all'amicizia romana, furono
accolte e onorate come fedeli alleate”.
L’affermazione liviana è
emblematica poiché fornisce la classificazione romana
delle città datesi in fidem: si
tratterebbe di socii, non di civitates
liberae. Per quanto riguarda l’esatta posizione ed
il significato dei due termini che qualificano tale
categoria di città è doveroso sottolineare che
immunes civitates ac liberae è la formula corretta,
quella usata da Cicerone e non liberae et immunes,
come si legge sempre tra i moderni.
Tale inversione avrebbe un
significato non trascurabile: non tanto la libertas,
bensì l’immunitas, era il carattere distintivo di
queste città, il più importante concreto privilegio che
distingueva la loro posizione rispetto alle rimanenti
città dell’isola. Il fatto, poi, che tali città siano
dette, oltre che immunes, anche liberae,
non avrebbe grande importanza: immunes esse
erano, e per ciò stesse anche liberae. La
libertas era quindi il principale risultato della
loro immunitas: liberae dall’antico
tributo della decuma, che aveva costituito per anni il
segno della soggezione a Cartagine o a Siracusa. La
libertas altro non era se non uno ‘slogan’
propagandistico: ogni qual volta era possibile, i Romani
cercavano di salvaguardarla con clausole specifiche che,
alla fine, si rivelavano semplici espedienti
propagandistici. Dunque, “una vuota parola, un concetto
che la classe romana applicò non tanto a città veramente
greche ma a città d’impianto panellenico, anche se
fortemente ellenizzate: siculo come Halaesa e Centuripe,
elimo come Segesta, punico come Palermo” (S. Calderone).
Un contributo rilevante è
stato dato alla tematica negli ultimi vent’anni. Secondo
alcuni studiosi l’immunitas e la libertas
andrebbero viste non da un punto di vista politico
generale ma dal punto di vista tributario, ossia solo
“exempt et libre de taxes” (J.L. Ferrary). Una conferma
si avrebbe in un passo ciceroniano (Verr. II 69
166) in cui i due aggettivi immunis e liber
sono riferiti, nello stesso ordine, agli agri e non alle
civitates liberae.
Quanto agli ordini
contributivi, sembrerebbe praticamente certa la loro
esenzione da regolari prestazioni tributarie sotto forma
di decuma (M. Genovese). Secondo altri, la traduzione
della formula immunis ac libera con
“exempt et libre de taxes” comporterebbe una fastidiosa
ed inutile ripetizione quando gli aggettivi sono
riferiti al medesimo tema, gli obblighi tributari. I due
termini, invece, potrebbero essere letti come
qualificanti due privilegi diversi benché legati da
probabili rapporti causa-effetto, una sorta di
accomodamento o di compromesso utilizzato dai Romani per
far comunque scattare aiuti sul piano militare: liberi
(probabilmente dai Cartaginesi), autonomi, ma comunque
socialmente obbligati a fornire ai romani aiuti militari
e soprattutto frumento (A. Pinzoneb).
Alla luce di queste
riflessioni, proviamo a trarre alcune conclusioni sul
ruolo che le civitates immunes ac
liberae svolsero all’interno del sistema
provinciale romano, prendendo come esempio l’antica
Halaesa Archonidea (odierna Tusa, in provincia di
Messina), città che, in età ciceroniana, in tale sistema
appare del tutto inserita, come si può desumere da
alcuni importanti indicatori sociali: decumanizzazione
del suo ager quando a coltivarlo fosse un
forestiero; le non irrilevanti sanzioni frumentarie ed
aderative cui la città era sottoposta; fornitura di
navi, equipaggi e vettovaglie per la flottiglia
siciliana messa a guardia delle coste; autonomia
dell’amministrazione e rispetto delle tradizioni locali
della città (libertas).
Presumibilmente tra la
fine della I e l’inizio della II Guerra Punica, Halaesa
venne nominata civitas immunis ac
libera, e tale privilegio vantava ancora
all’epoca di Verre. In questo periodo, l’onore in cui
era tenuta la città è ben evidenziato da Cicerone (Verr.
III 73, 170): «Vi sono in Sicilia [...] molte città
belle e importanti, tra le quali va annoverata fra le
prime la città di Halaesa; non ne troverete una più
scrupolosa nell’adempimento dei suoi doveri, o più ricca
di risorse o più importante per prestigio». L’oratore fa
riferimento al titolo onorifico accordato alla città da
Roma, quello di essere, cioè, civitas immunis
ac libera.
L’immunitas
riguardava la prima decuma e concerneva la terra, se
coltivata da un abitante di Halaesa (esente dall’obbligo
di versare allo stato il 10% dell’intero raccolto). Il
pagamento di questa tassa che, a differenza di Halaesa e
delle altre sette civitates (le tre foederatae e le
quattro immunes ac liberae), ricadeva sul territorio
della maggior parte delle città siciliane, avveniva in
natura. In particolare imponeva il versamento di un
decimo del raccolto di grano e orzo, e un’imposta
(probabilmente anche questa una decima) sul vino, l’olio
e gli ortaggi.
Halaesa non era immunis
dalle cosiddette alterae decumae. I
produttori alesini, infatti, pur esenti dalla prima
decuma, avevano verso Roma il dovere di versare una
seconda decuma (frumentum emptum, cioè ‘acquistato’),
e se questo non bastava si ricorreva ad un’altra
requisizione (frumentum imperatum, cioè ‘ordinato’).
Per queste due clausole, Verre aveva imposto ad Halaesa
la requisizione di 60.000 moggi di grano all’anno, per
poi pretendere, al posto del grano, una somma di denaro.
Stando alle verifiche fatte da Cicerone sui documenti
ufficiali di Halaesa «[…] gli Alesini diedero a Verre 15
sesterzi per medimno […] ».
Verre mandava così a Roma
il dovuto quantitativo di frumento prendendolo dalle
provviste che aveva a sua disposizione, avendo ammassato
grosse quantità di frumento a titolo di decime. Di
conseguenza il denaro dello Stato, che doveva essere
versato alle città per il frumento, si trasformava in un
totale profitto privato. Halaesa versava inoltre il
portorium, il dazio del 5% che si esigeva sopra il
valore delle merci che entravano o uscivano dai porti
dell’isola, detta anche vicesima portorii
o sex publica, probabilmente dai sei
distretti in cui si riscuoteva e tra i quali viene
menzionata anche Halaesa.
Doverosa è un’altra
considerazione sull’immunitas di Halaesa.
All’epoca della II Guerra Punica, durante l’assedio di
Siracusa, il Proconsole Marcello convocò le milizie
ausiliarie delle città suddite ed alleate di Roma. Silio
Italico fa un catalogo di tutte le città che si
segnalarono con questi soccorsi, nominando Halaesa. La
possibilità di fornire uomini, navi e vettovaglie ai
Romani, oltre a costituire per Halaesa un pretium
pacis, deve aver in primo luogo contribuito alla
sua immunitas in agrorum
vectigalium ratione. La libertas era,
indubbiamente, l’altra importante prerogativa di cui
godeva la città e che comportava, innanzi tutto, una
indipendenza dalla giurisdizione dei magistrati
provinciali: Halaesa, cioè, non dipendeva dal pretore
provinciale ma era governata dai propri magistrati.
Ciò è quanto si ricava da
un episodio che ci narra sempre Cicerone (Verr.
II 49, 122). Nel 95 a.C. i cittadini di Halaesa,
coinvolti in numerose discordie e lotte intestine,
dovevano eleggere i membri del senato urbano (de
senatu cooptando): giovani e non nobili si
impegnavano a ottenere queste cariche quantunque si
trovassero le porte sbarrate da vecchi e nobili.
Affinché si smorzassero i torbidi, si decise di
rimettere la decisione di queste controversie al senato
di Roma. Quest’ultimo inviò il pretore C. Claudio Pulcro,
al quale venne affidato il compito di elaborare i nuovi
criteri che dovevano regolare la composizione del
senato. Il pretore, dopo aver consultato i Marcelli,
allora patroni della Sicilia, seguendo il loro parere,
diede agli alesini le norme che comprendevano numerose
disposizioni relative all’età (de aetate),
alla fonte di guadagno (de quaestu) e al
censo (de censu).
Tutto questo testimonia
che Halaesa, civitas libera, fosse esente dalla
giurisdizione del pretore provinciale. Se la città fosse
stata soggetta all’autorità del pretore, Claudio Pulcro
si sarebbe impegnato a quietare quelle discordie già
prima di averne ordine dal senato. La restituzione della
pace sociale fu considerata un prezioso contributo,
omaggiato con una statua togata di C. Claudio Pulcro
che oggi, seppur mutila e corrosa, è conservata nelle
stanze del Municipio di Tusa. Ma la libertas
consisteva pure, per gli alesini, nella libera elezione
del loro senato e dei magistrati. Per raccogliere
testimonianze di prima mano da poter utilizzare nel
processo contro Verre, l’azione di Cicerone si esplicò
attraverso contatti diretti con le autorità locali delle
diverse comunità siciliane.
L’oratore fu dunque ad
Halaesa, ed in questa occasione conobbe l’alesino Enea,
il quale era stato incaricato dal senato di informare
Cicerone dei fatti che riguardavano il processo (Verr.
III 73, 170). La menzione di Enea, cittadino di
Halaesa, come colui al quale il senato aveva assegnato
quest’incarico ufficiale, rivela come nel senato
l’elezione dei membri era libera: Enea era di Halaesa e
non di Roma. La città viveva, pertanto, con proprie
leggi: non era regolata dallo ius romanus,
ma da quelle norme con le quali si era governata anche
prima della venuta dei Romani.
Per Roma, del resto, era
utile servirsi dei magistrati cittadini: la provincia
doveva essere amministrata ed era comodo che le comunità
siciliane vivessero secondo le loro consuetudini.
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