N. 135 - Marzo 2019
(CLXVI)
lA CIVILTà COMUNALE ITALIANA
L’evoluzione del sistema politico
di Francesco Giannetti
Nonostante
la
portata
del
fenomeno
comunale
abbia
estensione
europea,
si
può
affermare
che
l’area
italica
è
sicuramente
all’avanguardia
per
questo
aspetto
e in
particolare,
nelle
regioni
centro-settentrionali:
si
sviluppa
una
sorta
di
vera
e
propria
civiltà
comunale
con
aspetti
comuni
tra
i
diversi
centri
interessati.
Tra
le
caratteristiche
è
importante
ricordare:
dal
punto
di
vista
politico,
l’alto
grado
di
effettiva
autonomia
che
è un
tratto
tipico
solo
dei
comuni
italiani;
dal
punto
di
vista
istituzionale,
l’intensa
circolazione
di
esperienze
da
un
centro
all’altro,
contribuisce
a
uniformare
il
fenomeno;
sotto
il
profilo
sociale,
la
forte
articolazione
e
differenziazione,
che
offre
possibilità
di
ascesa
e
promozione;
dal
punto
di
vista
territoriale,
lo
stretto
legame
con
le
aree
extraurbane
coincidenti
tendenzialmente
con
le
diocesi,
oggetto
della
costruzione
di
contadi;
dal
punto
di
vista
culturale,
l’esperienza
comunale
italiana
esprime
un
nesso
organico
tra
la
politica
e le
elaborazioni
intellettuali
che
si
impegnano
a
legittimare
i
regimi
di
autonomia.
Le
città
dell’Italia
meridionale
al
contrario
non
conoscono
una
vera
esperienza
comunale.
Lo
sviluppo
delle
autonomie
urbane
è
qui
bloccato
dall’affermazione
di
una
forte
autorità
centrale
in
seguito
all’instaurarsi
della
monarchia
normanna.
Grandi
città
come
Napoli,
Salerno,
Bari,
Palermo,
Bari
o
Messina
e
moltissimi
centri
pugliesi,
campani
e
siciliani,
anche
se
ricchi
di
abitanti,
commercianti
e
attività
produttive,
sono
inquadrati
nell’amministrazione
regia.
Nelle
città
i
magistrati
sono
nominati
dal
re e
le
cittadinanze
non
esprimono
un
autentico
autogoverno.
Esse
ricevono
limitate
prerogative,
amministrative,
pur
conservando
e
vedendosi
confermate
le
proprie
consuetudini.
In
Sardegna
non
si
attua
nessun
processo
spontaneo
verso
il
Comune
che
vi è
parzialmente
importato
solo
dai
pisani
e
dai
genovesi.
Inoltre
le
città
non
raggiungono
un
pieno
controllo
del
proprio
territorio,
essendo
la
loro
proiezione
espressione
dei
legami
economici,
sociali
e
religiosi
delle
società
locali,
dove
forte
rimane
il
condizionamento
dell’aristocrazia
rurale.
La
proiezione
territoriale
dei
comuni
dell’Italia
centro-settentrionale
si
traduce
invece
nel
controllo
diretto
del
“contado”,
cioè
di
un’area
corrispondente
in
larga
misura
alla
diocesi
cittadina,
erede
a
sua
volta
del
territorio
su
cui
la
città
esercitava
già
in
età
romana
una
funzione
di
coordinamento.
La
conquista
del
contado,
avviata
nel
XII
secolo
e
consolidata
nel
successivo,
ricorre
alle
armi
a
agli
accordi,
utilizzando
anche
i
vincoli
feudali
per
legare
alla
città
i
signori
rurali,
meno
forti
rispetto
ad
altre
aree
europee
e
che
spesso
decidono
di
integrarsi
nel
mondo
comunale.
I
comuni
si
preoccupano
di
legittimare
ideologicamente
la
formazione
dei
contadi,
che
risponde
a
logiche
concrete.
L’assoggettamento
politico
e
fiscale
delle
comunità
rurali
garantisce
approvvigionamenti
alimentari
e
favorisce
la
diffusione
della
proprietà
fondiaria
dei
cittadini
che
sono
la
fonte
di
reddito
tutelata
dagli
statuti
comunali.
Anche
la
liberazione
dei
contadi
messe
in
atto
da
alcuni
comuni
nel
corso
del
Duecento
ha
per
fine
quello
di
sottrarre
uomini
ai
signori
rurali,
di
aumentare
il
numero
di
contribuenti
fiscali
e di
liberare
manodopera
pe
le
manifatture
urbane.
L’esperienza
comunale
matura
nella
prima
metà
del
XIII
secolo,
dando
luogo
a un
primo
ampliamento
del
gruppo
dirigente,
alla
stabilizzazione
delle
istituzioni
e a
un
decisivo
riordinamento
amministrativo
e
giuridico.
Simbolo
di
questa
nuova
fase
politica
è la
magistratura
del
“podestà”,
affiancata
da
un
consiglio
ristretto
di
cittadini.
Il
podestà
è
reclutato
ogni
anno
tra
un
novero
di
professionisti
della
politica
che
si
muovono
tra
i
comuni
contribuendo
a
prendere
i
consigli
cittadini,
guidare
l’esercito,
mantenere
l’ordine
e
amministrare
la
giustizia,
fanno
parte
dei
suoi
incarichi.
Il
nuovo
regime
consente
di
allargare
a
famiglie
cresciute
in
ricchezza,
talora
anche
provenienti
dal
contado,
la
partecipazione
ai
consigli
e
agli
uffici
del
comune,
superando
il
sistema
consolare
che
era
stato
egemonizzato
da
una
ristretta
cerchia
di
famiglie
potenti
provocando
conflitti
crescenti.
Il
podestà
comincia
anche
a
fare
redigere
per
iscritto
ai
propri
giudici
e
notai
i
diritti
del
Comune,
le
sue
leggi
e
consuetudini
e a
tenere
registrazioni
delle
quotidiane
attività
amministrative
in
volumi
e
poi
in
archivi
pubblici.
Ai
notai
viene
riconosciuta
sin
dal
XII
secolo
la
capacità
di
redigere
atti
autentici
e
validi
come
prova
legale,
apponendovi
direttamente
i
marchi
professionali,
i
signa
tabellionis
e
curandone
la
conservazione
documentaria
dei
diritti
e
delle
attività
amministrative
dei
comuni
che
sarà
poi
consolidata
dai
regimi
di
“popolo”:
una
vera
e
propria
“rivoluzione
documentaria”
centrata
sull’uso
pratico
della
scrittura
e
sulla
redazione
di
registri.
Il
termine
statuto
deriva
dall’espressione
“statutum
est”,
(è
stabilito)
e si
riferisce
ai
regolamenti
e
agli
insiemi
di
norme
che
si
danno
tutte
le
associazioni
e
comunità
che
esercitano
qualche
forma
di
autorità.
I
Comuni
emanano
testi
legislativi
complessi,
spesso
costituiti
da
centinaia
di
leggi
divise
in
libri
che
regolano
i
principali
aspetti
della
vita
pubblica
e
privata
dei
cittadini.
La
crescita
demografica
e lo
sviluppo
economico
hanno
promosso
la
continua
ascesa
di
gruppi
sociali
“popolari”,
costituita
da
mercanti,
banchieri
e
artigiani,
esclusi
inizialmente
dalla
partecipazione
politica.
Per
tutto
il
‘200
i
Comuni
sono
al
centro
di
conflitti
violenti,
che
spesso
danno
luogo
a
vere
e
proprie
guerre
urbane.
Sono
prima
i
fanti
a
lottare
contro
i
privilegi
dei
cavalieri
dell’esercito
comunale
per
una
più
equa
ripartizione
delle
imposte
e
per
l’accesso
ai
consigli
del
Comune.
Alla
metà
del
secolo
le
società
di
“popolo”
che
hanno
riunificato
le
corporazioni
di
mestiere
e le
società
armate
a
base
rionale,
riescono
a
imporre
sul
piano
politico
proprie
istituzioni
che
affinano
le
preesistenti:
un
consiglio
generale
e
uno
ristretto,
un
collegio
esecutivo
di
“anziani”
e
una
magistratura
di
vertice,
il
“capitano
del
popolo”,
modellata
su
quella
podestarile.
Il
sistema
politico
si
allarga
a
comprendere
nuove
forme
di
partecipazione
politica,
estese
a
gruppi
sociali
e
familiari
fino
ad
allora
rimaste
fuori
dal
governo
del
Comune.
Nella
seconda
metà
del
‘200
si
moltiplicano
però
le
esclusioni
dal
gruppo
dirigente.
In
alcune
città
i
regimi
di
“popolo”
che
si
battono
per
l’allargamento
della
base
sociale
del
comune
cominciano
a
escludere
dagli
uffici
politici,
sotto
minaccia
di
gravi
pene,
famiglie
di
origine
nobile
e
mercantile
ritenute
potenti
e
accusate
di
minacciare
i
popolani
e
indicate
con
il
termine
di
“magnatizie”.
Dopo
la
morte
di
Federico
II e
la
sempre
più
forte
ingerenza
del
papato
nelle
vicende
interne
dei
comuni,
la
nobiltà
urbana
e i
grandi
banchieri
e
mercanti
che
ne
imitano
lo
stile
di
vita
tendono
a
organizzarsi
in
parti.
Queste
associazioni
cercano
di
egemonizzare
la
politica
cittadina,
raccordandosi
a
reti
di
alleanze
intercomunali
filo-pontificie
o
filo-imperiali,
che
assumono
i
nomi,
rispettivamente
di
guelfa
e
ghibellina.
Quando
una
parte
riesce
ad
affermarsi
promuovo
l’esclusione
dalla
città
dei
nemici
della
parte
avversaria,
spogliandoli
dei
beni
e
privandoli
della
cittadinanza.
Matrice
delle
lotte
di
fazione
cittadine
è
sempre
la
cultura
della
vendetta.
I
fuoriusciti,
banditi
o
esiliati,
si
rifugiano
nei
castelli
del
contado
o
nelle
città
amiche
congiurando
per
rientrare
militarmente
nel
comune
di
origine
e
costituendo
una
minaccia
costante.
La
tradizione
di
esercizio
di
prerogative
pubbliche
da
parte
del
vescovo
ha
rappresentato
la
base
per
la
legittimazione
dei
regimi
di
autogoverno
cittadino
in
cui
si
impegnano
varie
generazioni
di
intellettuali.
Il
richiamo
all’antica
“libertà”,
di
cui
le
città
erano
sede,
serve
alla
costruzione
di
un
modello
politico
“repubblicano”,
fondato
sull’idea
della
libera
elezione
dei
rettori
e a
fornire
strumenti
per
il
governo
delle
città.
I
regimi
di
“popolo”
elaborano
un
sistema
di
regole
di
convivenza
civica,
ammantato
dall’ideologia
della
pace,
della
giustizia
e
del
bene
comune.
I
notai
e
soprattutto
i
giudici
sono
gli
intellettuali
laici
che
adattano
alle
nuove
esperienze
politiche
la
tradizione
del
pensiero
antico
ed
ecclesiastico
elaborando
i
tratti
dell’ideologia
comunale.
A
loro
si
devono
i
richiami
espliciti
alla
romanità
o
gli
echi
biblici
del
vocabolario
politico:
consules,
res
publica
ecc.,
da
un
lato,
libertas,
iustitia,
paradisus,
ecc.,
dall’altro.
Essi
si
impegnano
anche
nella
stesura
di
trattati
morali
destinati
all’educazione
dei
cittadini
e
dei
rettori,
come
l’opera
enciclopedica
Li
Livres
dou
Tresor,
(Libri
del
Tesoro)
del
notaio
Brunetto
Latini,
cancelliere
del
Comune
di
Firenze
nel
secondo
Duecento.
In
larga
misura
sono
notai
anche
gli
autori
delle
numerose
cronache
delle
vicende
cittadine
che
vengono
stese
a
partire
dal
XII
secolo
e in
lingua
volgare
dal
XIII
secolo.
La
partecipazione
politica
che
i
regimi
comunali
offrono
ai
propri
cittadini
riguarda
però
una
minoranza
degli
abitanti
della
città:
ne
rimangono
esclusi,
oltre
alle
donne,
anche
i
lavoratori
manuali,
gli
immigrati,
i
servi,
ecc.
Per
questo
è
improprio
affermare
che
si
tratti
di
regimi
“democratici”:
nei
consigli
oltretutto,
non
si
discute
liberamente,
ma
si
ratificano
leggi
decise
in
comitati
ristretti.
I
meccanismi
di
esclusione
e le
lotte
di
fazione
della
fine
del
Duecento
palesano
inoltre
la
crisi
dei
regimi
comunali
e il
loro
superamento
in
forme
signorili
o
oligarchiche,
cioè
verso
forme
di
governo
concentrato
nelle
mani
di
pochi
individui
potenti.
Riferimenti
Bibliografici:
Menant
F.,
L’Italia
dei
comuni
(1100-1350),
Viella,
2011;
Milani
G.,
I
comuni
italiani.
Secoli
XII-XIV,
Laterza,
2009;
Occhipinti
E.,
L’Italia
dei
comuni.
Secoli
XI-XIII,
Carocci,
2000;
Wickham
C.,
Sonnambuli
verso
un
nuovo
mondo.
L’affermazione
dei
comuni
nel
XII
secolo,
Viella,
2017.