N. 63 - Marzo 2013
(XCIV)
CIUDAD JUÁREZ
femminicidio e paradigma della frontiera - parte iI
di Giulia Capotorto
Riprendendo quanto scrive
Rita
Laura
Segato
nel
saggio
Territorio,
sovranità
e
crimini
da
secondo
stato:
la
scrittura
sul
corpo
delle
donne
assassinate,
«tra
l'eccesso
e la
mancanza,
tra
nord
e
sud
[…],
dove
i
grandi
imprenditori
vivono
da
una
parte
e
“lavorano”
dall'altra;
la
frontiera
della
grande
espansione
e
rivalutazione
territoriale,
letteralmente
territori
rubati
ogni
giorno
al
deserto
[…].
La
frontiera
del
traffico
più
lucrativo
al
mondo:
traffico
di
droga
e di
corpi».
Quella tra Stati Uniti e
Messico
non
è
una
frontiera
qualunque.
Non c'è dubbio nell'affermare
che
ancora
oggi
sia
apertissima,
forse
più
aperta
che
mai,
nonostante
sia
più
chiusa
di
sempre
al
movimento
degli
essere
umani.
Dopo diversi tentativi
di
respingere
o
legalizzare
il
passaggio,
infatti,
nel
1993
la
frontiera
diventò
confine:
con
l'Operazione
Hold-The-Line
–
seguita
nel
1995
dalla
più
nota
Operazione
Gatekeeper
di
San
Diego
- si
cercò
di
renderne
più
difficile
e
pericoloso
l'attraversamento,
militarizzandola,
aumentando
gli
agenti
della
Border
Petrol,
demonizzando
l'emigrante
messicano,
e
creando
una
serie
di
strumenti
di
impedimento
come
recinzioni,
illuminazione
permanente
ad
alta
intensità,
uso
dei
raggi
infrarossi
e
sensori
sotterranei,
filo
spinato
e
sistemi
biometrici.
Una
sorta
di
rigida
selezione
all'ingresso,
che,
da
allora,
porta
i
migranti
a
passare
per
vie
impervie
rischiando
la
vita.
A livello economico,
invece,
dagli
anni
'70
gli
Stati
Uniti
hanno
aperto
le
barriere,
mediante
la
delocalizzazione
delle
aziende
favorita
dalla
deregulation,
aprendo
soprattutto
stabilimenti
in
Messico,
sfruttando
la
manodopera
sottopagata
e la
mancanza
di
normative
ambientali
e
sindacali.
Ma l'apertura più gravida
di
conseguenze
fu
quella
del
1994
con
la
firma
del
NAFTA
(TLC
in
lingua
spagnola),
ossia
quel
trattato
di
libero
scambio
tra
Stati
Uniti,
Canada
e
Messico,
risultato
dell'impulso
neoliberista
caro
agli
Usa
e
all'amministrazione
Clinton.
Fu
proprio
negli
anni
'90
che
l'America
Latina
entrò
nel
flusso
della
globalizzazione.
Le politiche neoliberiste
hanno
avuto
effetti
devastanti
sugli
standard
di
vita
della
maggioranza
della
popolazione,
soprattutto
lì
dove,
come
in
Messico,
i
governi
apparentemente
di
stampo
civile
e
democratico
hanno
smantellato
i
programmi
interni
di
sviluppo
sociale,
le
misure
a
protezione
dei
prodotti
interni
e
hanno
dato
vita
piuttosto
a
politiche
repressive
di
controllo
militare,
portando
a un
abuso
dei
diritti
umani.
Le inevitabili conseguenze
di
un'apertura
alle
importazioni
senza
limiti,
senza
sussidi
o
investimenti
pubblici
per
sostenere
l'agricoltura
interna,
portò
all'impoverimento
di
coloro
che
della
vendita
dei
loro
prodotti
vivevano.
Molti hanno dovuto lasciare
le
loro
terre,
comprate
poi
dalle
multinazionali
o
dai
narcotrafficanti.
Perciò,
sebbene
il
narcotraffico
esistesse
da
molto
prima
della
firma
del
Nafta,
le
politiche
neoliberiste
hanno
però
creato
le
condizioni
ottimali
per
la
crescita
dei
cartelli
della
droga
e
l'esplosione
della
situazione
all'interno
del
paese,
che
portò
i
narcos
ad
avere
un
potere
effettivo
nelle
realtà
locali.
Inoltre la firma del
Nafta
significò
l'aumento
esponenziale
delle
maquilas
di
Ciudad
Juárez,
impiantate
per
la
prima
volta
nel
1965
in
base
al
Programa
Maquilas.
Queste
sono
fabbriche
per
l'abbattimento
dei
costi:
le
aziende
nordamericane
(e
non
solo)
hanno
la
possibilità
di
esportare
a
costo
zero
macchinari
e
componentistica
in
impianti
di
assemblaggio
costruiti
oltre
frontiera,
lì
dove
si
trova
facilmente
manodopera
a
basso
prezzo.
Si preferisce infatti
personale
non
qualificato,
composto
soprattutto
da
donne,
alle
quali
spetta
un
salario
esiguo
e
nessun
tipo
di
tutela.
Sono
soggette
a
vessazioni,
prepotenze
e
regole
inflessibili,
come
non
poter
andare
in
bagno,
dimostrare
ogni
mese
con
un
test
di
gravidanza
di
non
essere
incinte
(in
caso
contrario
il
rischio
del
licenziamento
è
sostanzialmente
assicurato)
e
con
i
loro
turni
devono
coprire
le
24
ore.
Oltre
a
ciò
sono
continuamente
a
contatto
con
sostanze
tossiche
che
causano
malformazioni,
aborti
e
gravi
casi
di
asma.
Ma crea lavoro, ed è per
questo
che
Ciudad
Juárez
ha
visto
un'esplosione
di
immigrazione
di
donne
sole
o
con
famiglia
in
cerca
di
un
impiego.
Sono
loro,
le
operaie
delle
maquiladoras,
le
vittime
preferite
del
femminicidio
(almeno
un
quarto
dei
casi
accertati
lavorava
in
queste
fabbriche).
Perché?
L'incremento
accelerato
della
popolazione
e
l'assenza
di
un
piano
coordinato
che
facesse
eco
con
opere
e
servizi
pubblici
al
crescente
numero
dei
parchi
industriali
ha
avuto
un'incidenza
decisamente
negativa
sulla
città.
Ma l'effetto più grave è
stato
stato
sicuramente
quello
relativo
alle
relazioni
sociali
e al
sovvertimento
di
quelle
preesistenti.
Non
sembra
difficile
pensare
a
quanto
una
società
maschilista
come
quella
messicana
abbia
potuto
trasferire
la
sua
idea
del
ruolo
della
donna
anche
nel
nuovo
ambito
lavorativo:
la
vulnerabilità,
l'adattabilità,
la
flessibilità
oraria
e,
in
generale,
un
trattamento
non
dignitoso,
sono
diventate
le
caratteristiche
del
lavoro
femminile
nelle
fabbriche.
Dall'altro lato, però,
lavorare
reca
comunque
con
sé
un
valore
emancipatorio
per
le
donne,
che
spesso
si
trovano
a
reggere
da
sole
l'economia
della
famiglia.
Non
sorprende
perciò
pensare
a
quanto
questo
abbia
potuto
portare
negli
uomini
un
senso
di
frustrazione
per
la
sostituzione
e
l'alterazione
dei
ruoli
sociali.
Come spiega M. Dean nel
saggio
Assemblando
donne,
La
maquila
–
o di
per
sé
il
senso
di
emancipazione
femminile
che
ne
deriva
in
una
realtà
patriarcale
–
non
spiega
il
femminicidio,
ma
la
sua
tolleranza
generalizzata,
e
l'impunità
che
ne
deriva,
da
parte
di
quegli
uomini
che
sentono
di
poter
così
avere
una
rivincita
contro
chi
ha
tolto
loro
il
consolidato
ruolo
sociale.
«Le morte di Juárez rappresentano
gli
effetti
collaterali
del
traffico
della
droga».
Sono
parole
di
Sergio
Dante,
avvocato
di
“El
Cerillo”
(uno
dei
quei
capri
espiatori
del
femminicidio
di
Ciudad
Juárez
condannato
in
base
a
una
confessione
estorta
sotto
tortura)
riportate
da
M.
Fernandez
e J.
C.
Rampal
nel
libro
La
città
che
uccide
le
donne.
Inchiesta
a
Ciudad
Juárez.
Opinione condivisa è
che,
a
spiegare
il
mistero
dei
femminicidi,
siano
l'incompetenza
della
polizia,
le
piste
non
seguite,
le
prove
fuorvianti,
gli
indiziati
torturati,
la
creazione
di
colpevoli
e la
corruzione
e i
legami
tra
agenti
e
narcotrafficanti.
Ad essere sconcertante è
la
coincidenza
delle
date:
il
primo
caso
di
femminicidio
riconosciuto
risale
al
1994,
esattamente
un
anno
dopo
la
nascita
del
Cartello
di
Juárez
di
Amado
Carrillo
Fuentes,
che
è
diventato
da
allora
uno
dei
più
potenti
al
mondo.
Negli
anni
'80,
infatti,
i
signori
della
droga
messicani
furono
contattati
dai
narcos
colombiani,
alla
ricerca
di
nuove
rotte
per
il
traffico
con
gli
Stati
Uniti.
Ciudad
Juárez
era,
per
la
sua
posizione
geografica,
la
meta
preferibile
e
acquisì
presto
un
ruolo
di
primo
piano.
In vent'anni l'attività
dei
narcotrafficanti
messicani
si è
evoluta
e,
con
lo
smantellamento
dei
cartelli
colombiani,
da
corrieri
si
son
trasformati
in
produttori.
Secondo
i
dati
resi
noti
da
M.
Fernandez
e J.
C.
Rampal,
oggi
il
70%
degli
stupefacenti
consumati
negli
USA
proviene
dal
Messico,
che
fattura
più
di
15
miliardi
di
dollari,
pari
al
5%
del
PIL.
Si
calcola
che,
se
il
narcotraffico
fosse
debellato,
l'economia
del
Paese
crollerebbe
del
63%.
Il traffico della droga,
dunque,
non
vive
quella
chiusura
tra
Messico
e
Stati
Uniti
ed è
ben
lontana
dall'essere
un
confine.
All'interno
del
Cartello,
però,
con
il
tempo,
si
fece
strada
una
guerra
tra
le
varie
organizzazioni,
che
è
costata
più
di
mille
vittime
solamente
nel
2004.
Come facilmente immaginabile,
quindi,
la
presenza
dei
narcos
ha
significato
non
poche
ripercussioni
sulla
vita
della
città.
Le
esecuzioni
sono
all'ordine
del
giorno,
così
come
gli
scontri
e i
regolamenti
di
conti
tra
pandillas
nelle
strade.
I
narcos
detengono
l'effettivo
controllo
sulla
città,
ricordando
così
una
delle
più
importanti
caratteristiche
della
frontiera
di
cui
si è
parlato.
Un
controllo
che
porta
alla
loro
completa
impunità,
grazie
allo
stretto
contatto
con
il
potere
politico
ed
economico,
talmente
stretto
che
talvolta
vi
si
confonde.
Questo clima di violenza
quotidiana
gode
ormai,
dopo
un
primo
periodo
di
sconvolgimento,
della
tolleranza
di
gran
parte
della
popolazione,
favorendo
inoltre
altri
tipi
di
delitti,
tra
cui
quelli
sessuali
e
seriali
(in
particolare
contro
le
donne),
potendo
anch'essi
poggiarsi
sulla
cecità
di
una
giustizia
corrotta.
3. Fattori endemici:
il
maschilismo
e
l'impunità
L'essere territorio di
frontiera
ha
portato
Ciudad
Juárez
ad
offrire
un
luogo
e le
condizioni
fertili
per
il
femminicidio:
la
sua
storia,
le
maquiladoras,
la
povertà,
uno
Stato
pressoché
assente,
il
traffico
di
droga
verso
il
nord
e le
violenze
quotidiane.
Finora si è pertanto
offerto
un
quadro
della
realtà
di
frontiera
della
città,
seppur
tramite
brevi
accenni,
ma
c'è
un
fil
rouge
che
ha
finora
fatto
da
sfondo
a
tutto
ciò,
e
sembra
prescindere
da
Ciudad
Juárez.
La
cultura
maschilista
è
infatti
radicata
in
tutto
il
Messico.
È in
un
contesto
di
questo
tipo
che
si
comprende
meglio
il
profondo
sconvolgimento
all'interno
della
società,
“causato”
del
lavoro
e
dal
ruolo
pubblico
delle
donne.
Nonostante la Costituzione
degli
Stati
Uniti
del
Messico
tuteli
il
diritto
alla
non
discriminazione
di
genere
(art.1)
e
all'uguaglianza
tra
uomo
e
donna
(art.4),
nel
Paese
è
fortemente
presente
un
disprezzo
misogino
verso
le
donne,
producendo
quella
tolleranza
generalizzata
alla
violenza
maschile,
domestica
e
politica,
che
a
sua
volta
facilita
l'impunità.
Come scrive l’illustre
giurista
Barbara
Spinelli
nel
libro
Femminicidio.
Dalla
denuncia
sociale
al
riconoscimento
giuridico
internazionale,
che
offre
una
storia
completa
delle
lotte
delle
donne
e
delle
riflessioni
che
hanno
permesso
di
creare
il
neologismo
e di
far
riconoscere
il
fenomeno
dal
diritto
internazionale
e
dunque
base
per
qualsiasi
studio
sul
fenomeno,
spesso
la
violenza
contro
le
donne
non
viene
neanche
considerata
reato
dalla
società
e
dalle
Istituzioni.
Uno dei fattori di maggiore
ostacolo
alle
indagini
sul
femminicidio
e
messo
in
evidenza
dal
Report
del
2003
di
Amnesty
International,
«Mexico:
muertes
intolerables»,
fu
proprio
lo
stereotipo
misogino
che
portava
i
poliziotti
a
insinuare
una
presunta
Doble
Vida
delle
ragazze,
come
se
questo
fosse
uno
standard
applicabile
a
tutte
le
vittime
e
come
se
potesse
legittimare
la
loro
scomparsa.
A documentarlo furono
infatti
anche
gli
organismi
internazionali,
e
prima
di
tutti
Amnesty
International.
Nel
2003,
infatti,
in
occasione
della
visita
a
Ciudad
Juárez
dell'allora
Segretario
Generale
Irene
Khan,
fu
pubblicato
tale
Report,
nel
quale,
tra
le
diverse
informazioni,
veniva
denunciato
l'atteggiamento
delle
autorità
nel
trattare
i
differenti
crimini
come
violenza
domestica
nell'ambito
privato,
senza
riconoscere
una
matrice
comune,
un
modello
che
aveva
le
sue
radici
profonde
nella
discriminazione.
Questo e il pregiudizio
stereotipato
sulle
ragazze,
portarono
alla
colpevolizzazione
delle
donne
stesse
per
la
loro
scomparsa
o
assassinio.
Una
denuncia
condivisa
anche
dal
Rapporto
CEDAW
sul
Messico
del
2006,
in
cui
si
esprimeva
preoccupazione
per
«il
contesto
generalizzato
di
insicurezza
che
prevale
nella
comunità»
e si
raccomandava
allo
Stato
Messicano
di «mettere
in
atto
gli
strumenti
necessari
a
eliminare
la
violenza
contro
le
donne
commessa
dagli
agentes
estatales
a
tutti
i
livelli
governativi,
e
riformare
il
codice
penale
per
tipizzare
il
delitto
di
femminicidio».
Alla luce delle considerazioni
svolte,
si
può
affermare
con
certezza
che
l'intuizione
turneriana
di
«frontiera»
come
principio
di
interpretazione
della
storia
continua,
per
il
caso
esaminato,
ad
avere
una
-
almeno
parziale
-
capacità
euristica.
La
frontiera
in
senso
fisico
con
gli
Stati
Uniti
e i
suoi
aspetti
caratterizzanti
possono
infatti
rendere
comprensibili
molti
di
quei
fenomeni
che
rendono
il
femminicidio
possibile
in
tal
luogo.
Tuttavia, la frontiera
non
è di
per
sé
sufficiente
ad
esaurire
la
complessità
del
tema.
Non
è
infatti
fronterizo,
o
almeno
non
è
possibile
affermarlo
in
base
a
questa
breve
ricerca,
il
modello
maschilista
della
cultura
messicana,
tema
che
meriterebbe
un'approfondita
analisi
storica,
sociologica
e
antropologica
che
in
questo
studio
non
è
stato
possibile
fare.
Probabilmente
risulterebbero
utili
a
tal
fine
altre
categorie
storiografiche,
quale
quella
del
«corpo».
È necessario inoltre
sottolineare
che,
negli
anni,
altre
frontiere
sono
state
varcate,
fisiche
e di
genere:
l'attenzione
internazionale
ha
di
fatto
portato
agli
occhi
del
mondo
il
caso
emblematico
dei
femminicidi
a
Ciudad
Juárez,
creando
uno
spazio
altro
per
la
condivisione,
la
lotta
e il
cammino
verso
una
soluzione.
Ma
le
vere
protagoniste
di
questa
battaglia
sono
le
donne.
Marcela Lagarde ha agito
a
livello
politico,
creando
la
Commissione
Speciale
sul
Femminicidio
all'interno
del
Senato
e
istituendo
a
livello
statale
e
federale
una
Procura
Speciale
che
indaga
sul
femminicidio.
Ma non è l'unica ad aver
contribuito
alla
ricerca
delle
soluzioni
e
agli
aiuti
per
i
familiari
delle
vittime.
Insieme
a
lei
tante
donne
che
scendono
in
piazza,
in
strada,
viaggiano
per
il
mondo
per
raccontare
quanto
avviene
ed
altre
ancora
che
hanno
creato
associazioni
che
quotidianamente
offrono
un
posto
sicuro,
un
appoggio
psicologico
e
legale
e
che
proseguono
coraggiosamente
nella
loro
battaglia.
Tra loro Ester Chavez
Cano
fondò
nel
1999
Casa
Amiga,
centro
di
accoglienza
e
organizzazione
civile
e
non
governativa
finalizzata
alla
promozione
di
una
cultura
del
rispetto
dell'integrità
fisica
emozionale
e
spirituale
delle
donne
e
non
solo,
e
Marisela
Ortíz
Rivera
che,
con
Norma
Andrade,
realizzò
il
progetto
Nuestras
Hijas
de
Regreso
A
Casa,
per
offrire
aiuti
di
ogni
tipo
ai
familiari
delle
donne
scomparse
o
assassinate.
Sembra
doveroso
concludere
con
i
loro
nomi.
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Sousa
Santos
Boaventura,
La
frontiera
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AAVV,
«Fronteras:
imaginadas,
imaginarias,
reales,
“Confluenze”»,
Vol.
1,
No.
1
(2009);
Spinelli
Barbara,
Femminicidio.
Dalla
denuncia
sociale
al
riconoscimento
giuridico
internazionale,
Franco
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