N. 62 - Febbraio 2013
(XCIII)
CIUDAD JUÁREZ
femminicidio e paradigma della frontiera - parte i
di Giulia Capotorto
Se
fare
storia
vuol
dire
porsi
domande
senza
mai
potersi
dire
pienamente
soddisfatti
delle
risposte,
osservare,
pensare
ed
avere
dubbi,
allora,
a
volte,
chi
fa
storia
sente
il
bisogno
di
una
bussola
per
potersi
orientare,
o
meglio
una
lente
dalla
quale
guardare
e
riflettere
sui
fatti
e
sulle
parole
che
si
trova
di
fronte.
Frederick
Jackson
Turner
nel
saggio
«Il
significato
della
frontiera
nella
storia
americana»
del
1893,
offrì
a sé
stesso,
agli
accademici
dell'epoca,
agli
statunitensi,
e,
in
seguito,
agli
studiosi
delle
epoche
successive,
una
di
queste
lenti.
Un'idea,
una
prospettiva
dalla
quale
guardare
ciò
che
è
accaduto
e
ciò
che
accade.
Esattamente
nel
momento
in
cui
la
frontiera
dell'Ovest
si
chiudeva,
Turner
espose
una
teoria
della
storia
degli
Stati
Uniti,
destinata
a
rappresentare
un
apporto
fondamentale
alla
successiva
storiografia.
Lo
storico
individuò
nella
«frontiera»
la
specificità
di
un'identità
tipicamente
americana.
Vedendola
nel
suo
dinamismo,
nel
suo
essere
superficie
fluida
e
mobile,
scorse
in
essa
l'evolversi
del
processo
di
“americanizzazione”
del
colono.
Al
di
là
delle
critiche
sull'esattezza
di
tale
lettura,
del
significato
reale
di
ciò
che
Turner
chiama
democrazia,
di
ciò
che
include
e
soprattutto
di
chi
esclude,
il
suo
più
grande
contributo,
come
Mauro
Calamandrei
illustra
nell'Introduzione
al
saggio,
fu
proprio
“la
frontiera”
come
paradigma
interpretativo
della
storia.
Successivamente,
infatti,
fu
ripreso
e
riutilizzato,
di
volta
in
volta
scoprendo
altre
possibili
applicazioni
e
nuove
potenzialità.
Nel
mondo
che
ha
vissuto
la
decolonizzazione,
che
vive
la
crisi
degli
Stati-nazione
in
una
contemporaneità
globalizzata,
i
concetti
di
sovranità,
appartenenza,
identità,
confine
e
frontiera
diventano
centrali
e
subiscono
una
ridefinizione
di
senso.
La
frontiera
cede,
scompare
e
riappare
in
altri
spazi;
si
svuota
di
alcuni
contenuti
semantici
e si
riempie
di
altri.
Spazio
grigio,
ambiguo,
di
incontro,
di
scambio,
comunque
non
risolto,
diventa
culturale,
ideologico,
immateriale.
In
America
Latina
la
frontiera,
per
poter
continuare
ad
avere
una
sua
capacità
epistemologica,
diventa
più
frontiere,
declinandosi
al
plurale.
In
qualche
caso,
però,
la
sua
capacità
di
interpretare
la
storia
si
esaurisce.
Il
tentativo
di
questa
ricerca,
apparentemente
arduo,
è
proprio
quello
di
studiare
il
fenomeno
del
femminicidio
a
Ciudad
Juárez,
città
di
frontiera
tra
Messico
e
Stati
Uniti,
utilizzando
la
frontiera
come
paradigma
interpretativo,
mettendo
alla
prova
la
sua
capacità
euristica
nell'affrontare
un
tema
così
lontano
nel
tempo
e
nello
spazio.
La
frontiera
turneriana
può
essere
presa
solo
come
punto
di
partenza.
È di
nuovo
fisica,
ma
l'elaborato
non
segue
il
suo
spostamento
come
processo
di
creazione
di
un'identità,
non
la
guarda
nella
sua
dinamicità,
ma
si
limita
a
prendere
in
esame
le
sue
intrinseche
caratteristiche.
La
scomparsa
sistematica
di
donne
al
confine
tra
Messico
e
Stati
Uniti,
e il
ritrovamento
dei
corpi
di
alcune
di
loro,
è un
fenomeno
che
comincia
nel
1993
e
che,
purtroppo,
continua
ancora
oggi.
Più
di
trecento
donne
–
numero
approssimativo
e
oggetto
di
una
macabra
guerra
di
cifre
-
hanno
perso
la
vita
in
questo
spazio
di
frontiera.
Ciudad
Juárez
è
diventato
negli
anni
il
caso
emblematico
del
femminicidio
a
livello
internazionale,
eppure
la
fine
sembra
ancora
molto
lontana,
ancora
nessun
reale
colpevole
è
stato
trovato
e
ancora
non
si
sono
accertate
le
reali
motivazioni.
Un
problema
dell'oggi,
dunque,
inconcluso.
Ma
si
può
fare
storia
di
fenomeni
molto
recenti
e
tuttora
in
corso?
La
“storia
del
tempo
presente”
ha
ragion
d'essere?
Certamente
un
primo
ostacolo
è
rappresentato
dalla
difficoltà
emotiva
di
affrontare
questioni
che
toccano
fortemente
la
sensibilità
di
chi
le
studia
e
che,
proprio
per
il
loro
essere
“presente”,
la
scuotono.
Occorre
quindi
trovare,
prima
di
cominciare,
una
distanza,
capace
di
rendere
possibile
uno
sguardo
critico
e
storico
dei
fatti.
Che
la
“storia
del
tempo
presente”
sia
realmente
storia,
poi,
sono
i
grandi
protagonisti
degli
Annales
a
dimostrarlo.
L'orco
della
fiaba
di
Bloch,
che
va
lì
dove
fiuta
carne
umana,
basterebbe
a
far
svanire
ogni
domanda,
ma è
lui
stesso
che,
nella
sua
«Apologia
della
Storia»,
tocca
più
volte
il
punto
in
questione.
Dopo
aver
analizzato
“l'idolo
delle
origini”
e
criticato
coloro
che
«si
augurano
semplicemente
di
risparmiare
alla
casta
Clio
dei
contatti
troppo
ardenti»,
passa
a
distinguere,
con
le
parole
di
Henri
Pirenne,
“l'antiquario”
dallo
storico
vero
e
proprio:
«ma
io
sono
uno
storico.
È
per
questo
che
amo
la
vita».
E
commenta:
«questa
capacità
di
afferrare
il
vivente,
ecco
davvero,
in
effetti,
la
qualità
sovrana
dello
storico».E
conclude
“Non
v'è
dunque
che
una
scienza
degli
uomini
nel
tempo,
la
quale
senza
posa
necessita
di
unire
lo
studio
dei
morti
a
quello
dei
viventi.
Come
chiamarla?
Ho
già
detto
perché
l'antico
nome
di
storia
mi
paia
il
più
comprensivo».
In
sostanza,
Marc
Bloch
sostenne
che
ogni
generazione
ha
il
diritto
di
scrivere
per
prima
la
storia
degli
eventi
di
cui
è
stata
partecipe,
di
darne
cioè
una
prima
sistemazione.
La
seconda
questione
che
va
posta
è la
necessità
di
non
incorrere
nell'errore
di
far
ricadere
un
fenomeno
come
questo
in
quella
che
Fernand
Braudel
chiama
histoire
événementiel.
È
difficile,
ma
importante,
uscire
dall'abbondanza
formata
dai
fatti
di
cronaca,
dalle
indagini,
dai
singoli
episodi,
che
sono
fonte
più
indicata
per
un'analisi
di
tipo
giornalistico,
piuttosto
che
di
tipo
storico.
Il
tentativo
è
proprio
quello
di
guardare
a
questo
tipo
di
fonti
e di
conoscenze
da
un
altro
punto
di
vista
e
studiarle,
coglierne
il
senso,
in
modo
tale
che
si
possa
parlare
di
storia
profonda.
Soprattutto
perché
i
fatti
sono
crudi,
macabri,
violenti
tanto
da,
ed è
questo
il
terzo
ed
ultimo
problema,
rendere
pericoloso
il
solo
parlarne.
Come
illustra
brillantemente
Laura
Silvestri
«col
parlare
e
scrivere
della
violenza
si
corre
il
rischio
di
creare
un'inevitabile
aporia
[…].
Affidata
alla
narrazione,
da
evento
traumatico
e
straordinario,
la
violenza
si
trasforma
in
qualcosa
di
familiare
e
normalizzato»,
finendo
spesso
con
il
suscitare
«indifferenza
e
assuefazione»
e
perdendo
così
il
suo
valore
di
testimonianza
e di
denuncia.
Non
tutti
gli
omicidi
di
donne
sono
femminicidi
e
non
solo
gli
omicidi
di
donne
sono
femminicidio.
Sembra
scontato,
eppure
non
lo è
affatto.
«Femminicidio
si
ha
in
ogni
contesto
storico
o
geografico,
ogni
volta
che
la
donna
subisce
violenza
fisica,
psicologica,
economica,
normativa,
sociale,
religiosa,
in
famiglia
e
fuori,
quando
non
può
esercitare
i
diritti
fondamentali
dell'uomo,
perché
donna,
ovvero
in
ragione
del
suo
genere».
Una
tale
complessità
e
completezza
non
è
solo
il
risultato
di
evoluzioni
teoriche,
ma
anche
di
un
percorso
pratico,
nato
e
cresciuto
all'interno
del
contesto
latinoamericano,
grazie
al
pensiero
e
all'agire
delle
donne
e,
in
particolare,
delle
femministe.
Sono
loro,
infatti,
ad
aver
fatto
del
neologismo
uno
strumento
di
interpretazione
del
reale
e di
decostruzione
del
patriarcato
in
America
Latina.
Il
vero
significato
del
termine,
che
ne
rende
l'uso
fondamentale
per
la
lotta
contro
un
ordine
sociale
maschilista
che
relega
le
donne
ad
un
piano
di
subordinazione,
sta
proprio
nell'individuare
una
responsabilità
sociale
nella
violenza
contro
le
donne
in
quanto
donne.
La
violenza
che
individua,
quindi,
non
appartiene
più
all'ambito
privato,
ma a
quello
politico.
Diana
Russel,
sociologa
e
criminologa
femminista
statunitense,
fu
la
prima
studiosa
a
individuare
con
il
termine
femicide
(in
lingua
inglese
il
termine
femicide
indica
sia
il
femmicidio
che
il
femminicidio.
Con
il
tempo,
i
due
termini
assumeranno
diverse
valenze
e si
preferisce
utilizzare
la
traduzione
nelle
lingue
neolatine,
ndr)
la
natura
politica,
strutturale
e
genericamente
connotata
delle
uccisioni
delle
donne
perché
donne.
Fu
lei
a
inquadrarlo
all'interno
del
contesto
patriarcale
in
cui
ciò
avveniva,
come
forma
di
punizione
e di
controllo
sociale,
che
contava
peraltro
sul
supporto
della
demistificazione
da
parte
di
media
e
Istituzioni.
Se
la
Russel
si
può
definire
la
teorica
del
femicide,
Marcela
Lagarde
può
essere
considerata
la
teorica
del
femminicidio.
Femminista,
Professoressa
di
Antropologia
e
Sociologia
alla
UNAM,
deputata
al
Congreso
Federal
mexicano
e
creatrice
della
Comisión
Especial
de
Feminicidios,
la
Lagarde
accolse
ed
ampliò
la
definizione
di
femicide
estendendola
anche
alle
livings
dead.
Femminicidio
c'è
pertanto
anche
quando
la
violenza
non
causa
la
morte
della
donna,
ma è
tale
da
provocare
il
suo
annientamento
fisico
o
psicologico.
Si
riuscì
così,
dando
il
nome
a
ciò
che
accadeva,
ad
individuare
il
fenomeno
e a
comprenderlo
nel
suo
significato
sociale
e
politico.
Nel
contesto
di
maschilismo
dilagante
e
dell'impunità
che
ne
consegue,
sono
proprie
le
donne
ad
aver
per
prime
superato
il
confine
del
silenzio.
A
pretendere
indagini
trasparenti
e
serie,
ad
esigere
risposte,
sono
le
famiglie
delle
vittime,
in
particolare
le
loro
madri.
La
ricerca
della
verità
sulle
morti
o
sulle
sparizioni
delle
figlie
non
può
non
ricordare
quella
delle
Madres
de
Plaza
de
Mayo,
che
disperatamente
e
ostinatamente
si
incontravano
– e
tuttora
si
incontrano
–
nella
piazza
di
Buenos
Aires,
sede
del
palazzo
presidenziale,
alla
ricerca
dei
loro
figli
desaparecidos
all'epoca
della
dittatura
argentina.
Nell'America
latina
degli
anni
'70
e
'80,
le
donne,
proprio
nel
loro
ruolo
di
madri,
uscirono
dal
loro
tradizionale
ambito
del
privato
ed
entrarono
inaspettatamente
sulla
scena
politica.
«La
maternità,
dunque,
utilizzata
fino
a
quel
momento
dalle
forze
politiche
e
sociali
come
strumento
per
garantire
la
subalternità
e la
sottomissione
delle
donne,
permette
la
costruzione
di
un
movimento
sociale
nuovo
nella
storia,
che
continua
ancora
oggi
ad
avere
una
sua
forza».
Come
loro,
anche
le
Madres
de
Juárez
si
incontrano
le
une
con
le
altre,
cercano
aiuto
e
contatti,
esigendo
giustizia
pubblicamente
e
collettivamente.
Da
loro
hanno
appreso
molto,
dalle
strategie
al
coraggio
di
resistere,
anche
di
fronte
alle
minacce
di
morte
ricevute.
Ad
accomunarle,
determinando
un
altro
elemento
di
continuità,
è la
tecnica
dell'improvvisa
e
sistematica
scomparsa.
Le
ragazze
di
Ciudad
Juárez
non
possono
non
ricordare
in
parte
i
desaparecidos
in
Guatemala,
in
Cile,
in
Uruguay
e in
Argentina,
anche
se,
come
per
tutte
le
analogie,
bisogna
essere
cauti.
Sono
vittime
della
stessa
tecnica,
che
genera
oggi
come
allora
anche
la
spirale
di
lotta
e
speranza
che
ne
consegue.
Non
si
ha
il
numero
esatto
delle
donne
scomparse
e
dunque
non
si
sa
quante
non
siano
mai
state
ritrovate.
I
corpi
rinvenuti
spesso
non
erano
neanche
riconoscibili.
In
Argentina
«i
corpi
mutilati,
spesso
irriconoscibili,
ritrovati
sui
bordi
delle
strade
o
deposti
in
luoghi
pubblici
con
lo
scopo
di
terrorizzare
una
potenziale
opposizione,
non
sono
identificabili
[…].
Alla
vittima
è
negato
il
martirio;
ai
suoi
parenti
è
impedito
il
rito
della
sepoltura».
Analogamente
accade
a
Ciudad
Juárez,
in
un
contesto
in
cui
la
violenza
è
all'ordine
del
giorno,
è
normale,
la
si
accetta.
Qui
le
donne
scompaiono
e
perdono
la
vita,
spesso
nel
doppio
anonimato
dell'esclusione
sociale
e
della
cancellazione
individuale,
causata
dal
mancato
riconoscimento
del
corpo.
Parlare
di
femminicidio
porta
la
mente
immediatamente
a
Ciudad
Juárez.
L'attenzione
internazionale,
infatti,
si è
focalizzata
su
questo
caso
per
diversi
fattori
che
lo
hanno
reso
emblema
della
violenza
misogina
sulle
donne
all'interno
di
un
contesto
di
tolleranza
e
impunità.
La
sua
posizione
geografica
di
frontiera
con
gli
USA
-
tutto
intorno
il
deserto
- il
narcotraffico
e le
vendette
tra
bande
rivali,
la
migrazione
clandestina,
le
sordide
vendette
contro
le
rivendicazioni
sindacali
delle
giovani
donne
che
lavorano
nelle
maquiladoras
e
la
corruzione
dei
funzionari
governativi
locali,
creano
terreno
fertile
per
il
ripetersi
di
questo
fenomeno
e
catalizzano
l'attenzione
dei
media,
attratti
anche
dalle
più
disparate
ipotesi
pittoresche
(ad
esempio
quella
degli
snuff
movies).
Ipotesi
che
hanno
sviato
l'attenzione
dalla
connessione
con
la
«cultura
machista
che
permea
non
solo
la
collettività
ma
anche
le
Istituzioni
e
rende
la
vita
di
giovani
donne
povere
e
spesso
indigene
di
nessun
valore,
uccidibile».
Alcune
caratteristiche
della
frontiera
analizzate
rispondono
perfettamente
alla
realtà
della
città.
È
uno
spazio
fisico
che
può
generare
situazioni
negative,
è
una
zona
grigia
non
risolta
in
cui
permane
un
conflitto
tra
poteri,
facilitato
dalla
lontananza
di
queste
zone
periferiche
dal
centro
decisionale
e di
potere.
È
anche
luogo
di
scambi,
creatore
di
circolarità,
che
a
volte,
invece
di
apportare
qualcosa
di
nuovo
e di
culturalmente
e
concretamente
ricco,
degenera
in
fenomeni
di
sfruttamento
e
ambiguità.
La
frontiera
edifica
anche
la
nuova
identità,
spesso
ancora
in
costruzione,
della
popolazione
fronteriza.
Pur
se
interessante
e
attinente
alla
teoria
di
Turner,
abbandoniamo
qui
quest'ultimo
punto.
Il
lavoro
parte
infatti
da
una
precisa
domanda:
può
la
prospettiva
della
frontiera,
con
le
sue
caratteristiche,
spiegare
(almeno
parzialmente)
il
femminicidio
a
Ciudad
Juárez
e la
sua
tolleranza
generalizzata?
Per
rispondere
sembra
necessario
rifarsi
agli
studi
di
Silvia
Salvatici
sul
rapporto
tra
centro
e
periferia
e
quelli
di
Boaventura
di
Sousa
Santos.
Sousa
Santos,
infatti,
nel
suo
saggio
dedicato
alle
caratteristiche
della
vita
di
frontiera,
individua,
tra
le
altre,
quella
della
presenza
di
gerarchie
deboli
e di
una
pluralità
di
poteri
e
ordini
giuridici
in
conflitto
fra
loro.
Non
a
caso
Ciudad
Juárez
ha
una
storia
fatta
di
stratificazioni
di
violenza.
Oggi
conta
1.392.000
abitanti,
e la
maggior
parte
di
loro
provengono
dalle
aree
rurali
del
Messico,
arrivate
massicciamente
per
trovare
lavoro.
A
queste
ondate
migratorie
tuttora
non
corrisponde
un
adeguato
livello
di
infrastrutture:
la
metà
delle
strade
non
è
asfaltata
e le
zone
industriali
dominano
sul
territorio.
Il
traffico
e il
consumo
di
droga
mettono
in
serio
pericolo
la
vita
dei
giovani
e
degli
altri
abitanti
e il
clima
di
corruzione
e
impunità
è
talmente
generalizzato
che
l'80%
dei
delitti
non
viene
denunciato.
I
fattori
di
rischio
sono
tanti
e
molti
derivano
dalla
vicinanza
con
gli
Stati
Uniti
e
dai
caratteri
propri
di
un
territorio
di
frontiera.