N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
CITTà DI FONDAZIONE FASCISTA
La Pentapoli pontina
di Chiara Donati
L’impronta
che
la
politica
fascista
lasciò
sulla
struttura
urbana
italiana
ma
anche
sull’intero
territorio
nazionale
fu
talmente
pesante
da
risultare,
anche
volendo,
difficilmente
cancellabile.
Non
a
caso,
Emilio
Gentile,
ha
coniato
il
termine
di
“fascismo
di
pietra”
poiché
esso
racchiude
in
sé
la
molteplicità
delle
strutture
che
vennero
in
un
qualche
modo
modificate,
distrutte,
ricostruite
secondo
i
progetti
del
duce.
Vi
era
l’intenzione
di
materializzare
in
strade,
monumenti,
edifici,
piazze
di
antiche
città
italiane
o di
città
di
recente
fondazione
il
modello
di
una
nuova
civiltà
imperiale
che
pretendeva
di
essere
universale
come
lo
era
stata
la
civiltà
romana
nel
mondo
antico.
Ma
con
il
fascismo,
il
mito
della
romanità
assunse
fin
dall’inizio
un
orientamento
antiliberale,
che
divenne
sempre
più
esplicito
dopo
la
conquista
del
potere.
Ad
ispirare
la
romanità
fascista
erano
i
concetti
di
autorità,
disciplina
e
gerarchia,
pilastri
di
una
nuova
politica
che
vedeva
nella
vocazione
imperiale
la
missione
della
nuova
Italia
uscita
dalla
Grande
Guerra.
Il
fascismo
si
proclamò
l’avanguardia
di
una
rinascita
della
stirpe
italiana
e
per
rinnovare
in
essi
lo
spirito
imperiale
e
universale
della
tradizione
romana,
Mussolini
iniziò
col
muovere
guerra
alla
Roma
reale,
“capitale
inerte,
insufficiente,
meschina”
(Gentile
2007,
52).
Componente
essenziale
dell’esperimento
totalitario
fu
proprio
la
rigenerazione
della
Roma
reale,
condotta
nel
mito
della
Roma
antica
e
nell’intenzione
di
creare
la
Roma
fascista,
per
una
nuova
Italia
imperiale.
Oltre
ai
lavori
di
demolizione
e
agli
scavi
per
far
grandeggiare
nell’isolamento
i
monumenti
restaurati,
il
fascismo
lavorò
molto
per
effettuare
dopo
la
conquista
politica,
una
“conquista
monumentale”
della
capitale
mediante
la
fascistizzazione
del
suo
spazio
urbano
occupandolo
con
i
propri
riti,
simboli
e
monumenti.
In
questa
prospettiva,
la
fondazione
di
“città
nuove”
può
essere
letta
anche
come
la
volontà
di
trasmettere
una
propagandistica
immagine
di
Mussolini
quale
emulo
dei
romani
che
al
tempo
furono
grandi
costruttori.
Eppure,
il
panorama
delle
nuove
fondazioni,
per
essere
ben
compreso,
deve
essere
inserito
nel
contesto
di
quella
che
era
la
situazione
economica
e
demografica
italiana
del
tempo,
rispetto
alla
quale
l’azione
di
governo
si
dimostrò
contraddittoria
e
funzionale
a
obbiettivi
particolari.
Delineerò
il
quadro
generale
sinteticamente,
ma
in
ogni
suo
aspetto.
Innanzitutto,
tra
le
due
guerre,
un
numero
crescente
di
popolazione
lasciò
le
campagne
per
trasferirsi
in
città.
Il
fenomeno
dell’urbanesimo
si
scontrò
con
l’ideologia
fascista
che
ha
sempre
individuato
nella
città
il
luogo
elettivo
di
una
serie
di
fenomeni
reputati
negativi
come
l’abbassamento
della
natalità
o la
spinta
verso
la
formazione
di
una
coscienza
di
classe.
Per
di
più,
l’affollamento
delle
città
avrebbe
comportato
anche
alti
costi
sociali
dovuti
all’esigenza
di
più
scuole,
ospedali,
chiese,
ecc.,
cosa
che
sarebbe
divenuta
insostenibile
per
le
casse
del
regime.
La
lotta
contro
la
crescita
delle
masse
proletarie
di
immigrati
nelle
città
si
formalizzò
in
alcuni
provvedimenti
legislativi
a
partire
dal
1926
quando
la
questione
delle
migrazioni
interne
fu
messa
sotto
il
controllo
di
un
apposito
Comitato
permanente.
Ma
soltanto
nel
’39,
con
la
legge
“contro
l’urbanesimo”
vennero
vietati
i
trasferimenti
di
residenza
nei
capoluoghi
di
provincia,
nelle
città
con
più
di
25
mila
abitanti
e in
certi
comuni
di
“notevole”
importanza
industriale
a
chi
non
fosse
obbligato
per
documentate
ragioni
di
lavoro
stabile.
Alla
generale
e
generica
ideologia
antiurbana
del
regime
corrispondeva
la
fioritura
di
una
quantità
di
proposizioni
tecniche
relative
al
decentramento
in
campagna
dei
quartieri
operai,
allo
sviluppo
di
insediamenti
suburbani,
ma
anche
di
una
vasta
letteratura
in
materia
di “ruralesimo”.
Oltre
a
ciò,
è
necessario
tenere
presente
un
secondo
aspetto
ovvero
la
tendenza
accentratrice
dello
stato
fascista
ebbe
effetti
anche
in
periferia.
Infatti,
la
riorganizzazione
della
disciplina
degli
enti
locali
e il
riassetto
delle
circoscrizioni
amministrative
interferirono
con
modifiche
della
gerarchia
urbana
negli
anni
tra
i
’20
e i
’30.
Varie
città
nel
’23
ebbero
un
nuovo
ruolo
di
capoluogo
di
provincia
con
tutto
ciò
che
comportava
in
materia
di
dotazione
di
uffici,
servizi
e
attrezzature;
altre
vi
diventarono
nel
’27
e
Littoria
si
aggiunse
nel
’34.
Gli
obbiettivi
perseguiti
erano
essenzialmente
politici
perché
si
trattava
di
togliere
autonomia
agli
enti
locali
e di
diffondere
sul
territorio
nazionale
le
strutture
necessarie
al
pieno
controllo
economico
e
sociale
da
parte
dello
Stato.
Gli
effetti
sul
funzionamento
del
sistema
territoriale
coincisero
con
la
creazione
di
nuovi
bacini
di
gravitazione
funzionale,
nuovi
flussi
di
interessi
e
nuove
gradazioni
nei
livelli
di
importanza
delle
città.
Nello
stesso
tempo
ci
fu
una
campagna
contro
i
piccoli
comuni,
fissando
una
soglia
minima
di 5
mila
abitanti
per
quelli
di
nuova
istituzione.
Inoltre
alcuni
comuni
vennero
uniti
a
centri
della
stessa
portata
oppure
a
grandi
città
confinanti,
più
o
meno
partecipi
di
un
sistema
metropolitano
in
gestazione
e
comunque
sedi
di
cospicue
attività
industriali
indotte
dal
capoluogo
in
espansione.
I
cambiamenti
della
geografia
amministrativa
avevano
dunque
effetti
indiretti
durevoli
non
solo
sulle
carte,
ma
nel
corpo
dei
rapporti
tra
città
e
città,
e
tra
città
e
campagna.
Da
non
sottovalutare
è il
ruolo
che
il
regime
ebbe
nel
verticalizzare
e
irrigidire
nei
suoi
legami
interni
la
gerarchia
urbana
nazionale.
Inoltre,
da
non
sottovalutare
che
l’economia
italiana
era
uscita
dalla
Grande
Guerra
profondamente
indebolita:
notevoli
debiti
con
gli
alleati,
necessità
di
importare
per
coprire
i
bisogni
alimentari
del
Paese
e
scarsa
possibilità
di
collocare
i
nostri
prodotti
sul
mercato
estero.
A
peggiorare
la
situazione
contribuirono
anche
le
misure
restrittive
sull’emigrazione
degli
USA
che
chiusero
uno
sbocco
tradizionale
per
l’esuberante
mano
d’opera
italiana.
A
questo
quadro,
Mussolini
rispose
con
una
politica
a
favore
dell’industria
(rivalutazione
della
lira,
razionalizzazione
dei
processi
produttivi
con
conseguente
espulsione
di
mano
d’opera)
che
esigeva,
contemporaneamente,
una
politica
agraria
mirante
a
sostenere
le
scelte
operate
nel
settore
industriale:
contenere
la
disoccupazione,
limitare
i
consumi
della
popolazione,
arginare
il
malcontento
del
paese
che
rischiava
nei
centri
urbani
di
sfociare
in
conflittualità
sociale.
Quindi,
per
alleviare
il
numero
dei
disoccupati
e
contemporaneamente
creare
un
ceto
di
piccoli
proprietari
conservatori
e
fedeli
al
regime
si
utilizzarono
strumenti
quali
la
realizzazione
di
opere
pubbliche,
bonifiche
integrali
e
sbracciantizzazione.
Ma,
la
politica
dei
lavori
pubblici
e
della
bonifica
integrale
deve
essere
inserita
anche
all’interno
della
volontà
del
regime
di
darsi
una
giustificazione,
una
immagine,
una
proiezione
“realizzatrice”
all’interno
del
paese.
Pur
prevedendo
un
sistema
di
bonifica
esteso
a
tutto
il
territorio
nazionale,
la
sua
attenzione
fu
rivolta
soprattutto
alle
Paludi
Pontine.
Nella
mentalità
popolare
così
come
nell’immaginazione
straniera,
le
Paludi
erano
legate
ad
una
miriade
di
leggende
di
ogni
tipo,
ma
soprattutto
la
loro
celebrità
era
legata
alla
loro
perenne
inviolabilità
e
alla
loro
capacità
di
infrangere
ogni
tentativo
di
recuperarle.
Effettivamente
anche
se
il
regime
fascista
ne
faceva
un
gran
vanto,
la
bonifica
era
un
obbiettivo
che
si
perseguiva
da
tempo
insieme
a
tutta
una
serie
di
iniziative
per
il
progresso
economico
e
l’urbanizzazione
delle
campagne.
È
lecito
pertanto
sostenere
che
il
fascismo
ha
soprattutto
agevolato
molte
iniziative
più
che
inventarne
di
nuove.
L’innovazione
non
stette
tanto
nei
fatti
quanto
nella
pretesa
di
razionalizzare
attraverso
un
controllo
autoritario
la
gestione
delle
trasformazioni
dell’assetto
insediativo
e
produttivo.
Inoltre,
il
regime
si
avvalse
di
una
oculata
propaganda
volta
ad
ottenere
un
ampio
consenso,
soprattutto
internazionale.
È
indicativo
il
voler
insistere,
anche
per
mezzo
di
articoli
o di
discorsi
pubblici
sull’immensità
sconfinata
della
pianura.
In
realtà,
tutto
l’Agro
Pontino
non
è
che
800
kmq
circa,
cioè
80.000
ha.
È
chiarissima,
quindi,
l’intenzione
di
voler
creare
un
collegamento
fra
la
descritta
immensità
degli
spazi
e
l’immensità
dell’opera
intrapresa
dal
regime.
Allo
stesso
modo,
ricorre
molto
nei
discorsi
ufficiali
il
presentare
l’opera
di
bonifica
usando
toni
epici
da
“chiamata
alle
armi”.
Il
paragone
bonifica-impresa
militare
apparve
il
migliore
espediente
propagandistico
atto
a
giustificarne
gli
aspetti
politico-organizzativi
più
discutibili
mascherandoli
dietro
la
facciata
dell’”emergenza”.
La
vicenda
della
fondazione
di
città
nuove
è
una
storia
di
improvvisazioni
alternate
a
programmi
a
breve
e
medio
termine,
quasi
sempre
con
l’intervento
diretto
e
personale
di
Mussolini.
Nel
panorama
delle
nuove
fondazioni,
il
caso
più
noto,
anche
per
l’enorme
risalto
ottenuto
dalla
stampa
nazionale
e
internazionale,
è
quello
delle
cinque
città
dell’Agro
Pontino-Romano,
ovvero
Littoria,
Sabaudia,
Pontinia,
Aprilia
e
Pomezia.
La
“Pentapoli”
pontina
venne
impostata
quasi
occasionalmente,
senza
un
piano
organico,
quando
invece
gli
architetti
urbanisti
razionalisti
sostenevano
la
necessità
di
un
Piano
Regolatore
Nazionale
concatenato
in
una
serie
di
Piani
Regolatori
Regionali,
come
indispensabile
quadro
di
riferimento
per
la
preparazione
e la
messa
a
punto
dei
singoli
Piani
Regolatori.
La
bonifica
dell’O.N.C.
(Opera
Nazionale
a
favore
dei
Combattenti)
fu
in
verità
condizionata
sia
dall’asse
romano
della
Via
Appia
(una
sorta
di
decumanus
maximus
del
territorio)
sia
dalla
bonifica
di
Pio
VII,
impostata
sul
reticolo
di
venti
canali
o
“Fosse
Miliarie”,
ortogonali
alla
Via
Appia
e
alla
“Linea
Pio”.
La
pianificazione
fascista
riprese
questi
allineamenti
per
tracciare
attraverso
la
selva
e la
palude
la
serie
di
strade
“Migliare”
fra
i
due
estremi
dell’Appia
e
della
Litoranea.
In
questa
griglia
si
inseriscono
in
modo
irregolare
i
poderi,
mentre
ancora
più
casuale
è
l’appoderamento
nella
zona
nord,
distribuita
intorno
agli
snodi
viari
di
Littoria
e
Borgo
Piave.
Al
di
là
di
questa
impostazione
piuttosto
casuale,
è
possibile
comunque
individuare
un
disegno
che
ricollegherebbe
tutte
le
città
con
l’eccezione
di
Sabaudia
che
è
l’unica
presso
il
mare.
Infatti,
anno
dopo
anno,
le
quattro
città
sorgono
lungo
l’asse
che
congiunge
Terracina
con
Ostia
Antica
e
che
in
parte
coincide
con
la
nuova
strada
Pontina
o
Mediana.
Tale
strada
veniva
vista
come
l’emblema
dell’avanzata
ideale
delle
nuove
legioni
nella
guerra
di
bonifica
e
può
essere
considerata
in
sostanza
come
asse
ideale
delle
bonifiche
che
collega
l’Agro
Pontino
e
l’Agro
Romano
con
l’area
della
storica
bonifica
di
Ostia,
oltre
la
quale
si
distendono
le
bonifiche
di
Porto
e di
Maccarese,
portate
a
compimento
dal
regime
fascista.
Le
città
maggiori
sono
a
distanza
di
15-25
chilometri
l’una
dall’altra,
proprio
come
le
stationes
di
una
via
consolare.
Ripercorriamola:
dopo
Terracina
incontriamo
a
una
ventina
di
chilometri
in
linea
d’aria
Pontinia,
che
dista
a
sua
volta
una
dozzina
di
chilometri
da
Littoria;
dopo
venticinque
chilometri
si
incontra
Aprilia,
e
dopo
altri
quindici
Pomezia
(a
sua
volta
distante
venticinque
chilometri
dal
centro
di
Roma
e
meno
di
venti
da
Ostia
Antica).
Eppure,
solo
molto
parzialmente
si
può
considerare
l’Agro
Pontino
come
una
delle
prime
esperienze
di
pianificazione
del
territorio
in
Italia.
Infatti
se
si
può
parlare
di
pianificazione
idraulica,
visto
che
un
piano
di
massima
per
il
convogliamento
delle
acque
fu
realmente
predisposto,
mancava
però
la
previsione
del
comune
di
Littoria;
e
dopo
averlo
realizzato,
Mussolini
annunciò
la
costruzione
di
Sabaudia
e
Pontinia
senza
conoscerne
preventivamente
l’ubicazione.
In
seguito
nacquero
Aprilia
e
Pomezia,
e la
scelta
della
loro
localizzazione
derivò
da
un
frettoloso
sopralluogo
dei
tecnici
dell’ONC.
Al
posto
della
pianificazione,
ci
fu
sempre
la
volontà
di
Mussolini
che
inaugurando
un
centro
fissava
la
data
di
inaugurazione
di
quello
successivo,
senza
badare
alle
maestranze
che
avrebbero
dovuto
lavorare
anche
di
notte
e
fare
doppi
turni
per
completare
un’opera
muraria
con
svantaggi
tecnici
evidenti.
Ma
se
ciò
era
comunque
fattibile,
non
era
però
possibile
accelerare
il
processo
di
bonifica
dei
terreni
una
volta
prosciugati,
cosicché
il
giorno
dell’assegnazione
la
maggior
parte
dei
coloni
oltre
a
una
casa
fresca
di
muratura,
riceveva
un
podere
di
nome
ma
non
di
fatto.
Inoltre,
una
vera
pianificazione
avrebbe
dovuto
prevedere
l’invio
di
agricoltori
esperti
del
loro
mestiere,
ma
anche
in
questo
ambito,
non
ci
fu
nessuna
preparazione
o
selezione
professionale,
ma
quasi
esclusivamente
politica.
Definire
tutto
ciò
“pianificazione”
è
dunque
azzardato,
eppure
non
si
può
escludere
che
anche
questa
specifica
esperienza
abbia
fornito
indicazioni
per
la
futura
legge
urbanistica
del
1942.
Il 7
aprile
1932
Mussolini
annunciò
da
un
balcone
dell’abitato
di
Quadrato
(nucleo
di
alloggi
per
gli
operai
impiegati
nei
lavori)
che
in
quel
luogo
stesso
sarebbe
sorta
una
borgata
rurale,
Littoria,
per
5000
abitanti.
Il
progetto
dell’architetto
romano
Frezzotti,
che
era
stato
incaricato
di
studiare
in
tempi
molto
brevi
lo
schema
urbanistico
del
futuro
centro,
prevedeva
la
forma
di
una
città
ottagonale
radiocentrica,
del
tutto
avulsa
dal
dibattito
urbanistico
di
quegli
anni.
Il
piano,
tralasciando
ogni
considerazione
di
orientamento,
suddivisione
del
traffico
e
coordinamento
delle
funzioni,
si
presentava
secondo
il
vecchio
schema
di
una
grande
piazza
centrale,
il
“Foro”,
la
piazza
del
Littorio,
che
conteneva
le
principali
funzioni
politico-amministrative.
Essa
era
circondata
da
strade
radiali
e
anulari
e da
alcune
piazze
a
giardino:
la
piazza
Quadrato
a
ovest
era
il
centro
agrario
con
la
sede
dell’ONC,
la
piazza
Savoia
a
sud
era
il
centro
religioso-educativo.
Con
l’eccezione
della
Stazione
e
del
Palazzo
delle
Poste,
capolavori
“futuristi”
di
Angiolo
Mazzoni,
i
più
importanti
edifici
pubblici
furono
affidati
allo
stesso
Frezzotti,
architetto
che
si
rifaceva
alla
prima
maniera
di
Marcello
Piacentini.
Immaginata
inizialmente
per
soli
5-6000
abitanti,
al
centro
di
un
territorio
costellato
da
borgate
rurali
e
case
coloniche
isolate,
Littoria
nel
1934
veniva
elevata
a
capoluogo
di
provincia,
e
l’anno
successivo
si
chiedeva
a
Frezzotti
un
piano
di
ampliamento
per
uno
sviluppo
fino
a
50.000
abitanti
(cifra
che
era
stata
ipotizzata
già
nel
discorso
inaugurale
del
‘32).
Ma
fino
alla
guerra
la
popolazione
si
sarebbe
fissata
a
20.000
abitanti
(oggi
il
centro
di
Latina
ne
conta
più
di
100.000).
Già
al
termine
degli
anni
Trenta
si
andavano
insediando
una
serie
di
stabilimenti
industriali,
anticipando
l’impetuosa
svolta
del
dopoguerra,
condizionata
dalle
incentivazioni
della
Cassa
per
il
Mezzogiorno.
Da
questa
ricerca
sulle
città
nuove
è
emerso
chiaramente
come
una
delle
maggiori
caratteristiche
del
regime
fosse
l’elaborazione,
all’interno
di
una
stessa
logica,
di
espressioni
contrastanti
e
apparentemente
opposte.
Uno
dei
dati
più
sicuri
della
politica
urbanistica
del
regime
è il
dichiarato
tentativo
di
unificare
al
suo
interno
ideologia
e
prassi;
quindi,
riconosciuta
la
crescita
urbana
come
fenomeno
disgregante
della
civiltà,
se
ne
propone
l’arresto
in
favore
del
suo
contrario.
Se
urbanesimo
è
“anti-civiltà”,
ruralesimo
diviene
costruzione
attiva
della
“civiltà”.
In
questa
logica,
la
fondazione
di
nuove
città
potrebbe
sembrare
assolutamente
contrastante
con
la
politica
antiurbana.
Ed è
per
questo
che
Mussolini
crea
di
Littoria
e
delle
altre
città
pontine
l’immagine
di
un
comune
rurale,
di
un
centro
di
servizio
corollario
alla
grande
opera
di
bonifica
e di
costruzione
di
un
“orto
produttivo”
intorno
a
Roma.
Quindi
è di
per
sé
esplicativo
il
suo
ordine
di
cambiare
la
dizione
corrente
di
città
in
comune
rurale.
Parlare
di
città
fascista,
nel
caso
delle
fondazioni
pontine,
significa
dunque
parlare
della
non
città.
Apparentemente
più
meditata
sembra
la
vicenda
di
Sabaudia.
Infatti,
l’anno
dopo
l’inaugurazione
di
Littoria,
l’ONC
bandisce
un
concorso
nazionale
fra
architetti
e
ingegneri
italiani
per
la
compilazione
di
un
progetto
di
piano
regolatore
del
centro
comunale
di
Sabaudia
da
costruirsi
in
Agro
Pontino.
L’insediamento
doveva
sorgere
in
una
penisoletta
del
lago
costiero
di
Paola,
separato
dal
mare
da
una
striscia
di
dune,
in
un
paesaggio
dominato
dalla
montagna-isola
del
Circeo.
Dei
tredici
progetti
presentati,
vinse
quello
firmato
da
Gino
Cancellotti,
Eugenio
Montuori,
Luigi
Piccinato
e
Alfredo
Scalpelli.
Questo
progetto
fece
di
Sabaudia
un
vero
e
proprio
caso
tra
le
varie
realizzazioni
del
regime
nel
campo
dell’urbanistica,
tanto
da
essere
ovunque
menzionato
come
il
modello
della
città
nuova.
Insieme
alla
Stazione
di
Firenze,
realizzata
quasi
contemporaneamente,
Sabaudia,
venne
addirittura
eretta
a
simbolo
della
lotta
sostenuta
dagli
architetti
moderni
contro
la
prevaricante
cultura
di
Stato,
divenne
l’esempio
di
una
posizione
“antifascista”
rispetto
alle
perentorie
indicazioni
del
regime.
A
mio
parere,
bisogna
andare
al
di
là
dall’etichettare
un
progetto
con
il
semplice
aggettivo
di
fascista
o
antifascista,
e
inserire,
invece,
ciascun
episodio
all’interno
della
lotta
tra
opposte
tendenze
di
fare
e
intendere
l’architettura.
L’opera
di
approfondimento
già
intrapresa
da
vari
gruppi
del
movimento
razionalista
poteva
infatti,
a
lungo
andare,
denunciare
la
non
consonanza
tra
le
forme
e il
loro
senso
politico,
ma
in
questo
momento,
cioè
alla
nascita
di
Sabaudia,
si
tratta
ancora
di
esercitazioni
formali
“prese
a
prestito”
da
altre
esperienze
e
paludate
di
significati
commissionati
dallo
Stato:
un
compromesso
tra
la
forma
e la
sua
ideologia.
Che
cosa
intendesse
il
fascismo
per
architettura
nessuno
ancora
poteva
dirlo,
c’erano
delle
indicazioni
spesso
contraddittorie,
ma
che
certamente
non
escludevano
in
quel
momento
alcuna
possibilità.
C’era
il
lavoro
del
“Gruppo
7”,
la
mostra
del
MIAR
e
quella
del
RAMI,
le
due
triennali
del
1933
e
del
1936,
la
stazione
di
Firenze,
Sabaudia,
la
Casa
del
Fascio
di
Terragni,
i
padiglioni
di
Persico
e
Nizzoli,
Palazzo
Gualino
di
Pagano
e
altri.
L’interpretazione
che
Riccardo
Mariani
dà
delle
vicende
dell’architettura
italiana
durante
il
ventennio
è
alquanto
esplicativa:
il
problema
era
nella
contrapposizione
di
“gusti”
piuttosto
che
in
un
autentico
scontro
di
posizioni.
Il
caso
delle
città
pontine
è
ancora
una
volta
emblematico:
“al
suo
interno
si
trovano
tutte
o
quasi
le
parti
di
un
unico
discorso,
suddivise
tra
loro
da
problemi
di
“gusto”“
(Mariani
1976,
92).
Pertanto
le
cinque
città
pontine
possono
essere
considerate
cinque
varianti
sullo
stesso
tema,
la
loro
differenza
sta
nella
pratica
di
fare
l’architettura,
nella
diversa
professionalità
espressa
in
ciascuna
realizzazione.
Ciò
che
accomuna
tutte
le
relazione
degli
architetti
progettisti
dei
centri
comunali
è
l’assenza
di
qualsiasi
riferimento
a
quelli
che
saranno
i
futuri
abitanti
di
quei
centri.
Sembra
che
la
progettazione
sia
un
fatto
che
riguarda
soltanto
loro:
i
progettisti,
mentre
i
coloni
restano
anonima
gente
da
recuperare
alla
vita
dei
campi.
Di
fatto,
quella
che
era
partita
come
una
grande
opera
di
bonifica
viene
più
ricordata
per
le
realizzazioni
“urbane”
che
per
i
nuovi
livelli
di
vita
raggiunti
sulle
terre
bonificate
e
questo
perché
fin
dai
primi
mesi
il
regime
poté
contare
quotidianamente
le
macroscopiche
inefficienze
di
tutto
l’apparato
costruito.
Sebbene
in
tutto
il
mondo
si
stesse
dando
ampio
rilievo
alle
straordinarie
realizzazioni
di
Mussolini,
in
verità
la
situazione
dei
coloni
pontini
era
tutt’altro
che
soddisfacente.
Il
carattere
dominante
in
Agro
Pontino
è
l’autoritarismo
con
il
quale
vengono
imposti
tutti
i
rapporti
tra
le
alte
gerarchie,
i
coloni
e i
ceti
medi
residenti
nelle
“città
nuove”.
In
effetti
costituivano
tre
categorie
sociali
fisse
e
assolutamente
non
comunicanti
fra
loro:
i
gerarchi
dell’ONC
e
del
partito
che
risiedevano
a
Roma
e
raramente
a
Littoria;
i
piccoli
funzionari
di
queste
organizzazioni
decentrati
con
le
loro
famiglie
nelle
“città
nuove”
e i
coloni
sparpagliati
nei
poderi.
Tra
loro
non
esisteva
alcuno
scambio
sociale,
né
occasioni
in
cui
intrecciare
una
relazione
anche
casuale.
Inoltre
i
coloni
non
avevano
vita
in
comune
anche
perché
non
esisteva
neppure
uno
spazio
in
cui
esercitare
un
minimo
di
attività
sociale.
Gli
architetti
avevano
progettato
le
piazze
per
le
grandi
adunate
e
solo
per
occasioni
particolari
come
le
visite
del
Duce
o
qualche
commemorazione.
Inoltre
non
esistono
luoghi
chiusi
ricreativi
di
alcun
genere
e in
questo
le
“città
nuove”,
moderne
o
tradizionali,
sono
praticamente
identiche:
non
si
sono
tenute
in
alcun
conto
le
necessità
associative
delle
colonie.
Tra
le
tante
interpretazioni
date,
è
molto
interessante
quella
che
vede
nell’ambito
delle
ex
paludi
un
vago
senso
di
utopia,
da
intendere
soprattutto
come
il
recupero
di
ricordi
utopici
ottocenteschi
di
comunità
appartate
e
perfette
come
punti
di
origine
di
una
nuova
società.
In
realtà
questa
intenzione
non
è
mai
manifestata
né
tra
gli
scritti
né
tra
i
discorsi,
ma
dall’insieme
dell’intera
realizzazione
esce
l’immagine
di
un
organismo
con
particolari
parentele,
di
cui
il
falansterio
è il
capostipite.
Se
osserviamo
la
planimetria
di
Sabaudia,
come
delle
altre
città
nuove,
risulta
evidente
che
si
basa
su
un
sistema
geometricamente
chiuso,
come
poteva
essere
un
borgo
medievale.
È
presente
un
nucleo
centrale
in
cui
sono
raccolte
le
funzioni
sociali
quali
la
chiesa,
il
comune,
la
casa
del
fascio,
il
dopolavoro,
la
scuola
elementare,
la
casa
del
balilla,
le
poste,
l’ospedale,
il
mercato.
A
raggiera
intorno
al
nucleo
si
intervallavano
una
serie
di
“borghi”
equidistanti
dal
centro
comprensivi
di
chiesa,
scuola,
poste,
armadio
farmaceutico.
Tra
il
centro
e i
borghi
si
inserivano
una
serie
di
unità
produttive
costituite
dai
poderi
che
fornivano
materia
prima,
di
trasformazione
e di
scambio.
Caratteri
fondamentali
di
questa
“comunità”
dovrebbero
essere:
il
lavoro,
la
moralità,
il
numero
chiuso,
in
espansione
ma
come
frutto
della
comunità
stessa;
ma
anche
il
recupero
sociale
dei
componenti
“salvati”
dalla
crisi
generata
dall’urbanesimo
e
che
può
avvenire
solo
con
l’osservanza
di
rigide
regole
di
vita.
Riportando
le
specifiche
parole
di
Mariani:
“Il
tutto
insomma
è
ispirato
dal
tentativo
della
riforma
sociale
attraverso
l’espiazione
che
trova
il
suo
momento
di
massima
concentrazione
nel
lavoro
agricolo”.
Tentativi
di
questo
genere
furono
“frequenti”
anche
nell’Inghilterra
industriale
e
nell’America
di
fine
Ottocento,
ma
non
si
ricorda
che
esperienze
simili
abbiano
avuto
successo,
date
le
ribellioni
anche
violente
che
spesso
vi
mettevano
fine.
Sabaudia
procedette
nel
suo
iter
di
sviluppo
demografico
molto
più
lentamente
di
Littoria.
Al
censimento
del
1936
la
popolazione
residente
è di
4.890
persone
in
tutto
il
comune.
Nel
1951
è
salita
a
7.709.
E
ancora
per
alcuni
decenni
è
rimasta
in
parte
una
città
fantasma.
Infine
è
risultata
prevalente
l’attività
turistica
anche
se
si è
sviluppata
sulla
fascia
costiera
e
sul
lago,
saldandosi
al
turismo
del
vicino
Circeo.
Per
il
terzo
comune,
Pontinia,
non
venne
bandito
alcun
concorso.
Nel
giugno
del
1934
lo
stesso
Le
Corbusier
(che
tra
l’altro
aveva
preso
le
distanze
dal
coro
internazionale
di
elogi
per
Sabaudia
riscontrandone
la
mediocrità)
inviò
a
Bottai
perché
lo
introducesse
al
Duce
uno
schema
di
piano
regolatore
per
la
nuova
città.
Ma
alla
fine
dell’anno
gli
veniva
annunciato
che
il
duce
aveva
già
approvato
il
progetto
presentato
dall’Ufficio
Tecnico
dell’ONC.
Il
piano
fu
preparato
dall’ingegnere
Pappalardo
con
la
“collaborazione
artistica”
del
Frezzotti,
in
un
sito
rimasto
segreto
fino
all’ultimo
per
evitare
manovre
speculative
dei
grandi
proprietari
terrieri.
Alla
fine,
il
centro
rurale
nacque
in
una
zona
equidistante
dalle
altre
due
città,
inserito
in
diagonale
in
un
lotto
rettangolare
fra
due
canali
e
due
strade
di
bonifica.
Il
centro
di
Pontinia
è a
sua
volta
impostato
su
due
assi
diagonali
rispetto
al
lotto
che
convergono
verso
le
due
emergenze
prospettiche
delle
piazze
centrali:
la
Torre
comunale
e il
campanile
della
Chiesa.
La
scelta
di
una
soluzione
d’ufficio
fu
dettata
evidentemente
dalla
volontà
di
non
scontentare
l’ala
più
conservatrice
del
Partito
dopo
lo
“scandalo”
di
Sabaudia.
Ma
per
la
quarta
e la
quinta
città-
Aprilia
e
Pomezia-
si
tornò
alla
più
regolare
prassi
del
concorso
che
entrambe
le
volte
vinse,
non
senza
contestazioni,
il
gruppo
“2
P.S.T.”
formato
da
Concezio
Petrucci,
Emanuele
Paolini,
Riccardo
Silenzi,
Mario
Tufaroli
Luciano.
Anche
per
l’ubicazione
della
nuova
città
di
Aprilia,
Mussolini
decise
di
utilizzare
un
terreno
paludoso
anziché
le
parti
boschive
per
non
creare
situazioni
di
difficile
gestione
coi
proprietari
privati
dei
terreni
stessi.
In
altre
parole,
invece
che
intraprendere
un’opera
di
esproprio
pubblico,
preferì
rivolgersi
verso
i
terreni
più
disastrati
cercando
di
ridurre
al
minimo
eventuali
contrasti
con
i
proprietari.
Pertanto,
all’interno
di
una
superficie
acquitrinosa
e
insalubre
di
13.000
ettari
venne
scelto
il
luogo
della
nuova
città
che,
a
differenza
di
Littoria,
capoluogo
di
provincia,
di
Sabaudia,
destinata
a
divenire
centro
turistico
e di
Pontinia
che
doveva
divenire
un
centro
industriale,
doveva
essere
profondamente
rurale,
a
carattere
esclusivamente
agricolo.
In
realtà,
l’analisi
degli
ultimi
due
centri,
di
Aprilia
così
come
di
Pontinia
– il
primo
semidistrutto
in
guerra
e
poi
ricostruito,
il
secondo
sfigurato
da
una
selvaggia
speculazione
edilizia,
e
divenuti
entrambi
notevoli
poli
industriali-
può
aggiungere
poco
al
panorama
urbanistico
fin
qua
delineato.
Anche
questi
ultimi
due
centri
abitati
furono
concepiti
in
stretta
connessione
con
il
territorio
agricolo
circostante,
costante
riscontrabile
in
tutte
le
fondazioni
pontine.
Il
rapporto
città-campagna
riferito
alla
fondazione
dei
nuovi
comuni
rurali
è
alquanto
esplicativo
dell’intera
vicenda
urbanistica
e
architettonica
italiana
di
questo
periodo.
Questi
due
termini
sono
visti
come
punti
di
partenza
di
un
processo
di
tendenziale
annullamento
delle
differenze:
la
città
deve
ruralizzarsi
e
perdere
la
propria
dimensione
e
qualità
metropolitana
e
nelle
campagne
occorre
intervenire
per
marcare
la
presenza
del
regime.
Pertanto
città
e
campagna
tendono,
l’una
nell’altra,
a
perdere
di
identità.
Termini
inizialmente
in
relazione
opposizionale
e di
reciproca
esclusione
convergono
verso
una
“omogeneizzazione”
in
cui
ciascuno
vede
indebolirsi
i
propri
sistemi
di
valori,
la
propria
specificità
funzionale
e la
caratterizzazione
delle
strutture
segniche
che
le
sono
tipiche.
Tutti
i
nuovi
insediamenti
sono
caratterizzati
dallo
stesso
tipo
di
contraddizione
ovvero
dal
riproporre,
ad
una
scala
micro-,
una
struttura
caratterizzata
da
un
nucleo
centrale
e da
un
tessuto
circostante
organizzato
sull’iterazione
di
moduli
costanti.
Il
paradosso
sta
nel
fatto
che
questo
nucleo
è
centrale
unicamente
per
la
sua
ubicazione
ma è
totalmente
privo
di
centralità
in
termini
di
valori
urbani
e di
effettivi
rapporti
di
fruizione.
Come
abbiamo
detto,
esso
non
serve
a
mettere
gli
abitanti
in
relazione
tra
loro
ma
solo
ad
indicare
il
loro
individuale
rapporto
con
l’autorità.
Questo
tipo
di
struttura,
al
di
là
delle
varianti
sotte
le
quali
si
presenta
nei
cinque
insediamenti
dell’Agro
pontino,
è
un’autentica
costante:
il
centro
è
l’antitesi
dell’agorà
o
della
piazza
del
libero
comune
medievale,
non
è
luogo
collettivo
ma
mera
“scena”.
Molto
interessante
è
l’ipotesi
interpretativa
data
da
Maria
Luisa
Scalvini
(Sanfilippo
1978,
125-141)
che
dà
delle
città
pontine
l’immagine
di
uno
spazio
per
una
finzione
rappresentativa,
per
officiare
i
rituali
del
regime,
per
celebrare
le
sue
codificate
cerimonie
di
popolo.
La
Scalvini
sostiene
che
questo
carattere
non
è
rilevabile
semplicemente
dall’analisi
delle
soluzioni
planimetriche,
quanto
dalle
immagini
di
questi
spazi
urbani
“centrali”.
Impossibile
sfuggire
alla
sensazione
che
torri,
campanili,
facciate,
porticati,
costituiscano
volumi
letteralmente
“vuoti”,
entità
di
cartapesta
dentro
le
quali
e
dietro
le
quali
“non
vi è
nulla”.
Non
architettura,
quindi,
ma
scenografia:
quinte,
prospettive,
emergenze
verticali
–
debito
e
gerarchizzato
omaggio
ai
poteri
costituiti
della
Chiesa
e
dello
Stato
–
obbediscono
ad
una
logica
in
cui
la
componente
funzionale,
così
specifica
del
medium
architettonico,
appare
cancellata,
annullata
o
più
esattamente,
quando
è
presente,
relegata
“dietro
le
quinte”:
nell’ambito
di
quel
tessuto
che
–
rispetto
alle
aree
centrali
cui
è
principalmente
volta
la
nostra
analisi,
e
che
sono
non
la
città
ma
l’immagine
che
la
città
propone
di
se
stessa
–
costituisce
l’elemento
opposizionale.
In
questo
senso
è
emblematica,
ad
esempio,
la
torre
di
Pomezia,
con
l’assurdo
portico
che
ne
circonda
la
base,
senza
che
nessuna
ragione
ne
giustifichi
la
presenza
se
non
l’idea
di
una
ennesima
quinta
scenografica.
Abbiamo
visto
che
Mussolini
si
rivolse
alle
campagne
con
la
consapevolezza
che
solo
la
città
poteva
trasformarsi
in
documento
perpetuo
della
sua
politica
,
perché
“le
città
sono
di
pietra”
mentre
la
campagna
è
mutevole
e
porta
su
di
sé i
segni
di
un
lavoro
di
sempre,
di
una
fatica
antica
e
non
distinguibile.
È
anche
per
questo
motivo
che
non
si
limitò
alla
bonifica
dell’Agro
Pontino
ma
procedette
alla
fondazione
delle
cinque
città
e
quindi,
alla
sua
colonizzazione.
Ma
probabilmente,
neppure
la
fondazione
delle
città
pontine
fu
sufficiente
per
appagare
pienamente
l’ambizione
del
duce
che
sognava
di
essere
ricordato
nei
secoli
come
l’artefice
di
una
grande
Roma
moderna,
capitale
della
nuova
civiltà
fascista.
Difatti
Mussolini
voleva
una
nuova
Roma
interamente
e
integralmente
fascista,
mussoliniana
fin
dalle
fondamenta,
come
integralmente
mussoliniane
erano
le
città
nuove
create
nell’Agro
pontino.
Una
nuova
Roma
fuori
da
Roma,
protesa
verso
il
mare
e
libera
dalla
coabitazione
forzata
con
le
vestigia
antiche.
Il
progetto
di
costruire
una
nuova
Roma
distaccata
dall’antica
era
già
stato
concepito
nei
decenni
precedenti
da
quanti
erano
convinti
che
non
fosse
possibile
conciliare
le
esigenze
di
una
capitale
moderna
con
la
più
antica
struttura
urbanistica.
In
regime
fascista,
ne
era
pienamente
convinto
l’architetto
Gustavo
Giovannoni,
fondatore
della
facoltà
romana
di
architettura
e
membro
di
tutte
le
commissioni
incaricate
del
piano
regolatore
per
la
capitale,
dal
1916
al
1941.
Egli
avvertiva
che
per
migliorare
i
problemi
di
funzionalità
e di
traffico
a
poco
sarebbero
serviti
tagli
e
sventramenti,
se
non
ad
aggravarne
le
condizioni.
L’ambizioso
progetto
di
creare
una
nuova
Roma
saltò
nuovamente
fuori,
e
con
maggiore
slancio,
in
occasione
della
proposta
di
candidare
la
capitale
a
ospitare
un’esposizione
universale
nel
1942,
in
concomitanza
con
il
ventennale
della
rivoluzione
fascista.
La
parte
italiana
della
mostra
sarebbe
stata
composta
da
edifici
monumentali
permanenti
che
sarebbero
diventati
il
nucleo
della
nuova
Roma
protesa
verso
il
mare.
Il
nuovo
complesso
sarebbe
stato
attraversato
dalla
grande
arteria
della
via
Imperiale
che
da
un
lato
avrebbe
collegato
l’E42
a
Roma
e
dall’altro
sarebbe
continuata
fino
ad
Ostia
antica
e
quindi
al
mare.
Innestandosi
sulle
trasformazioni
già
realizzate,
in
atto
o
previste
all’interno
della
città
storica,
la
via
Imperiale
avrebbe
anche
avuto
un
ruolo
di
collegamento
con
la
stazione
Termini
e
con
due
strade
che
collegavano
il
nuovo
centro
con
la
stazione
di
Trastevere
e
quella
Ostiense.
Sarebbe
divenuta
l’asse
del
futuro
assetto
urbano,
una
spina
dorsale
nella
nuova
Roma
commerciale
e
residenziale.
Giorgio
Ciucci
la
definisce
come
la
premessa
velleitaria
per
un
nuovo
piano
regolatore:
velleitaria
promessa,
in
quanto
mentre
l’intera
operazione
E42
contraddice
il
piano
del
1931,
quest’ultimo
continua
ad
essere
vigente
e il
nuovo
piano
non
verrà
mai
predisposto.
La
divergenza
fra
le
due
ipotesi
di
sviluppo
urbano,
rappresentate
appunto
dal
piano
del
1931
e
dall’E42,
non
verrà
mai
risolta.
Anzi,
Roma
al
mare,
che
simbolicamente
esemplifica
i
contenuti
politici
e
economici
di
un
vagheggiato
dominio
del
Mediterraneo,
si
ridurrà
nel
dopoguerra
in
una
corsa
dei
romani
agli
stabilimento
balneari
di
Ostia
lungo
quella
“larga
e
solenne
autostrada
di m
50”,
che
avrebbe
dovuto
concludersi
in
un
più
solenne
“centro
ricreativo
e
sportivo”,
pendant
dell’altro
centro
sportivo,
il
Foro
Mussolini.
Ma i
lavori
dell’E42
vennero
interrotti
durante
la
guerra
per
mancanza
di
finanziamenti
e
ciò
causò,
molto
probabilmente,
la
stizza
del
duce
che
si
sentì
sfiorare
dal
timore
che
la
nuova
Roma
mussolinea
sarebbe
potuta
rimanere
incompiuta.
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