contemporanea
OLTRE IL CONFINE
L’INFERNO DELLA GRANDE GUERRA RACCONTATO
ATTRAVERSO IL CINEMA
di Carlo Desideri
Nel primo capitolo del libro Il
Secolo Breve di Eric J. Hobsbawn è
possibile ritrovare queste parole: «ci
furono momenti nei quali dio o gli dei,
che nella credenza degli uomini pii
avevano creato il mondo, avrebbero
potuto rimpiangere di averlo fatto».
Allo scoppio della prima guerra
mondiale, gli stati maggiori di tutti i
paesi belligeranti prevedevano una
guerra breve, seguendo la convinzione
che sarebbero stati a casa per Natale.
Tuttavia, da tutti venne commesso
l’errore di sottovalutare il ruolo della
difesa e sopravvalutare quello
dell’attacco. La Guerra assunse presto
il carattere di una “guerra di
posizione”, si concluse solo nel 1918 e
causò un numero spropositato di morti,
con pesanti conseguenze anche
nell’immediato dopoguerra. Lo stesso
Wilson, nel 1917, durante il discorso al
congresso sulla dichiarazione di guerra
la definì “la più terribile e disastrosa
di tute le guerre”.
Rispetto alle guerre passate, vi fu un
aumento incredibile della potenza di
fuoco delle armi utilizzate, consentita
dal rapido sviluppo tecnologico degli
armamenti. Il principale problema
strategico consisteva nel dispiegare
questa potenza di fuoco vicino alle
linee nemiche, ponendola al riparo delle
difese avversarie, per un attacco
fulmineo capace di abbattere la
resistenza nemica.
Nelle battaglie della Grande Guerra
l’unico mezzo per difendersi dalla
potenza di fuoco nemica erano le
trincee. Il fallimento delle grandi
offensive del 1914 costrinse milioni di
uomini su tutti i fronti a scavare
migliaia di chilometri di fossati e
gallerie in cui ripararsi. Le linee di
trincee di milioni di uomini si
fronteggiavano dai fronti opposti,
protetti da sacchi di sabbia e costretti
a vivere come animali in mezzo ai topi,
ai pidocchi e ai parassiti, ad alcune
centinaia di metri di distanza, al
massimo a un chilometro, nel freddo
invernale, spesso privi di pasti caldi
con carenza di sonno per la necessità di
guardia e, nel mentre, tutto intorno
venivano creati dei crateri formati da
cannonate lanciate nel tentativo di
danneggiare le difese nemiche, che poi,
riempiti dalla pioggia, si trasformavano
in stagni.
Perché la situazione si sbloccasse era
necessario attaccare. Gli assalti
venivano preparati dall’artiglieria, che
cercava di seminare la morte nelle
trincee avversarie e di distruggere le
postazioni delle mitragliatrici. Dal
1915 i tedeschi iniziarono a utilizzare
il gas mortale, sperimentandolo per la
prima volta lungo il fronte Occidentale
presso la città belga di Ypres e da
quell’evento gli eserciti, e spesso
anche le popolazioni dei centri vicini,
furono dotati di maschere antigas.
Piero Purich, in un suo articolo, ci
ricorda come la prima guerra mondiale
sia stata e rimane uno dei miti
fondativi dello stato-nazione,
soprattutto nei paesi vincitori. Gli
anni tra il 1914 e il 1918 sono stati
avvolti da un’aura di sacralità che
ancora oggi si può cogliere nei
monumenti, nei cimiteri e nelle
cerimonie che ricordano la grande
guerra. Ernst Junger, nel suo libro
Tempeste d’acciaio, racconta come
inizialmente i soldati fossero colti da
un improvviso entusiasmo verso il “mito”
della guerra riportando queste parole: «La
guerra ci aveva afferrati come
un’ubriacatura. Partiti sotto un diluvio
di fiori, eravamo ebbri di rose e di
sangue. Non il minimo dubbio che la
guerra ci avrebbe offerto grandezza,
forza, dignità. Essa ci appariva azione
da veri uomini: vivaci combattimenti a
colpi di fucile su prati fioriti dove il
sangue sarebbe sceso come rugiada. “Non
v’è al mondo morte più bella…”
cantavamo. Lasciare la monotonia della
vita sedentaria e prender parte a quella
grande prova. Non chiedevamo altro».
L’entusiasmo descritto da Junger è lo
stesso che si può ritrovare anche nel
personaggio di Ungaretti, ma come loro
molti altri soldati furono inebriati
dall’ideologia della difesa della
patria, dell’onore e della gloria che
avrebbe portato la vittoria; tuttavia,
gli stati d’animo non tardarono a
cambiare. Il sacrificio di vite umane fu
immenso e il senso di appartenenza alla
comunità particolare dei combattenti,
che si sentivano fortemente traditi e
abbandonati del ceto politico e dagli
alti comandi militari, da cui si
sentivano considerati come carne da
macello, diffuse nelle trincee un
crescente spirito di rivolta, che spesso
si rivolgeva contro gli ufficiali,
quando questi applicavano in maniera
insensata la disciplina. Il senso di
appartenenza non si provava più verso la
patria, sempre più percepita come
lontana, ingrata e iniqua, ma dal senso
di comunità con il battaglione, con il
quale si rischiava ogni giorno la vita,
con gli uomini che vivevano e morivano
nella stessa trincea e anche con quegli
ufficiali che conservavano con la truppa
un legame profondo.
Molte unità vennero decimate dai loro
ufficiali perché si erano rifiutate di
esporsi al fuoco, e gruppi di soldati
che spararono agli ufficiali
responsabili di eccessi repressivi.
Avvenivano episodi di fraternizzazione
con il nemico, di autolesionismo e di
automutilazione per sfuggire alla vita
di trincea, insubordinazioni collettive,
il numero di coloro che disertavano
consegnandosi al nemico come prigionieri
aumentava. Erano modi per porre
individualmente fine alla guerra, in
reazione a una carneficina di cui
nessuno capiva più il senso né la
legittimità.
Molti registi hanno voluto riportare le
situazioni descritte precedentemente sul
grande schermo, portando queste
problematiche agli occhi della cultura
di massa e spesso molte di queste
produzioni sono ispirate a racconti o
addirittura a romanzi di autori che sono
stati testimoni di tali eventi.
Nel 1930, ad esempio, esce il film
All’Ovest niente di Nuovo (All
Quiet on the Western Front),
del regista Lewis Milestone, tratto dal
romanzo Niente di nuovo sul fronte
Occidentale (Im Westen nichts
Neue) dell’autore tedesco
Erich Maria Remarque. Sia nel film che
nel libro viene analizzato e
rappresentato il fenomeno di
indottrinamento e incitamento alla
guerra, che sprona i giovani a
imbarcarsi in quella che credono essere
un’avventura giusta e gloriosa, ma che
si rivela essere poi in realtà
semplicemente una strada verso le
tragedie della guerra, portando a
un’inevitabile disillusione. Del film ne
è stato poi fatto anche un rifacimento
nel 1979, con un titolo omonimo, dal
regista Delbert Mann.
Il regista Stanley Kubrick ha voluto
rappresentare le ambientazioni e le
problematiche storiche sopra riportate
in una delle sue opere cinematografiche:
Paths of Glory. Il film, basato
sul romanzo omonimo dello scrittore
Humphrey Cobb, è uscito nelle sale
americane nel 1957, mentre in quelle
italiane nel Gennaio del 1958,
intitolato Orizzonti di Gloria.
La storia è ambientata nel 1916, sul
fronte francese, e vede le truppe
dell’Intesa prepararsi per un attacco
offensivo alla base nemica tedesca
soprannominata “il formicaio”.
Tramite questo pretesto si possono
osservare varie reazioni in relazione
all’ordine dell’attacco.
Uno dei personaggi principali è il
generale Mireau, che desidera prendere
il comando delle truppe di trincea che
dovrebbero mettere in atto l’offensiva,
con la consapevolezza che, in caso di
successo, avrebbe potuto ottenere una
promozione nell’esercito. In una delle
prime scene viene rappresentata la sua
visita alla trincea, durante la quale,
assieme al suo attendente, il maggiore
Saint-Aubain, con lo scopo di incitare
le truppe. Durante la sua visita, il
generale incontra un soldato in piena
crisi di shock che colpisce duramente,
rimproverandolo e dichiarandolo un
codardo. Non tutti i personaggi
presentatici sono favorevoli all’attacco
e uno di questi è rappresentato dal
colonnello Dax, interpretato da Kirk
Douglas, il quale espone il suo
scetticismo sulla riuscita
dell’operazione e la sua preoccupazione
per le conseguenze, tentando di
convincere il generale ad annullare
l’offensiva. L’attacco porterà infatti a
un totale massacro. La prima ondata,
guidata proprio da Dax, fallisce e
subisce pesanti perdite, tanto da
indurre gli uomini della seconda a
rifiutarsi di attaccare e Mireau come
forma di punizione ordina ad alcuni
soldati di sparargli, ma il comandante
di artiglieria si rifiuta di eseguire
l’ordine. Alla fine Mireau decide di far
giustiziare 100 uomini per tradimento e
diserzione, viene però convinto in
seguito di ridurre il numero a 3, tra i
quali vi è anche un ufficiale ritenuto
scomodo dai superiori che vedono nella
condanna un’occasione per eliminarlo.
Nel 1959, in Italia esce invece La
Grande Guerra di Mario Monicelli,
film ambientato nel 1916, che vede i
soldati dell’esercito italiano tentare
di organizzare una dura controffensiva
contro gli austriaci, in seguito alla
disfatta di Caporetto. I protagonisti
sono Alberto Sordi e Vittorio Gassman, i
quali interpretano due personaggi
all’apparenza negativi, che tentano di
trovare ogni escamotage per sopravvivere
alla guerra, nella speranza che possa
giungere presto al termine e che si
ritrovano a essere verso il finale
prigionieri degli austriaci e in
possesso di importanti informazioni sul
contrattacco italiano. Inizialmente
intenzionati a vendere le proprie
informazioni in cambio della propria
vita, decidono alla fine di non
divulgarle una volta che l’orgoglio
nazionale prende il sopravvento,
accettando la fucilazione da parte del
nemico e permettendo ai soldati italiani
di riuscire nell’attacco. Nonostante
questo i due non verranno ritenuti degli
eroi dagli ufficiali italiani, i quali
non sono a conoscenza dei fatti avvenuti
e nutrono invece una bassa stima nei
confronti dei protagonisti; saranno
invece catalogati come codardi, dando
per scontato che siano scappati alla
prima occasione, nonostante alla fine si
dimostrino essere i veri eroi della
situazione e abbiano sacrificato le
proprie vite per la riuscita
dell’operazione.
Nel 1970 esce Uomini Contro un
film che riprende tematiche in parte a
quelle viste in Orizzonti di Gloria.
Il film è diretto del regista Francesco
Rosi ed è ambientato sull’altopiano di
Asiago. Anche in questo caso vengono
rappresentate le conseguenze disastrose
legate a scelte sbagliate da parte degli
ufficiali che portano a un’inutile
perdita di vite umane.
Un ultimo film da prendere in
considerazione – nonostante vi sarebbero
numerosi altri esempi da riportare – è
il recente 1917, uscito nelle
sale nel 2019 sotto la regia di Sam
Mendes. Il film ha una narrazione
piuttosto semplice, che vede i due
protagonisti William Schofield e Tom
Blake compiere una missione che prevede
l’attraversamento della terra di nessuno
per raggiungere il fronte alleato in un
giorno, con lo scopo di consegnare un
messaggio contenente l’ordine di
annullamento dell’attacco che deve
essere lanciato. Attraverso questo
espediente vengono mostrati gli elementi
più caratterizzanti della Grande Guerra:
soldati in crisi psicologiche, feriti
mutilati, la desolazione lasciata sul
campo di battaglia in seguito agli
scontri e le dure condizioni di vita
all’interno della trincea, realizzata in
modo molto crudo e realistico.
I film citati sono solo alcuni dei tanti
che trattano questo argomento. Molti
sono i registi che hanno voluto, e che
vogliono tuttora, riportare su schermo
le tragedie legate alla Grande Guerra,
ma all’interno di queste narrazioni e di
questi racconti un elemento sembra
accomunare quasi tutti: la tragicità
della guerra. Non è la vittoria, né la
gloria, né la sopravvivenza a emergere
come elemento dominante all’interno di
queste narrazioni; non sembrano esserci
stati dei veri vincitori, né in realtà
dei veri e propri nemici, da entrambi i
fronti le sofferenze e le emozioni
provate erano pressoché le stesse.
Il vero nemico, almeno da quanto emerge
dalle narrazioni prese in
considerazione, è la Guerra stessa e
così continua ancora oggi a essere
rappresentata, assieme alla follia e
agli errori che l’hanno caratterizzata.
Riferimenti bibliografici:
Prosperi A., Zagrebelsky G., Viola P.,
Battini M., Storia e identità. Il
Novecento e oggi, Mondadori, Milano
2012.
Ernst J., Nelle Tempeste d’acciaio,
Guanda, Milano 2020.
Hobsbawn E.J., Il Secolo Breve
1914-1991, Mondadori, Milano 2018.
Mazzini R. (a cura di), I Più Celebri
Discorsi della Storia. Dall’antichità
alle soglie della seconda Guerra
Mondiale, Barbera Editore, Siena
2013.
Purich P., L’Italia e la Grande
Guerra senza la retorica nazionalista,
3 Novembre 2018, Internazionale.it. |