contemporanea
TRA COSMISMO E TRADIZIONE NEL CINEMA DI
TARKOVSKIJ
SOLARIS E NOSTALGHIA /
PARTE II
di Gianfranco Massetti
Per quanto lontano dalle idee
eccentriche del cosmismo, Tarkoskij
individua curiosamente il borgo
medievale di Bagno Vignoni come ambiente
scenografico di Nostalghia,
penultimo film della sua carriera
cinematografica girato nel 1983 in
Italia. Alla cura delle acque sulfuree
della vasca termale di Bagno Vignoni,
era stata destinata dalla madre la
giovane Caterina da Siena allo scopo di
distoglierla da qualsiasi velleità di
diventare una Santa anoressica. È dunque
intorno al tema dell’autotrofia della
Santa anoressica che ruota la vicenda di
un film in cui si parla di ritorno alla
vita attraverso la sacralità del rito
come atto propiziatorio di rivelazione
della divinità declinata secondo il
genere femminile.
In perfetto sincronismo con l’incidente
di Chernobyl, usciva nel 1986, l’ultimo
film di Tarkovskij, Sacrificio,
dove la dimensione dell’esorcismo e del
rito riflettono invece il terrore
dell’apocalisse nucleare. Nel miracolo
della germogliazione dell’albero-ikebana
si riflette la saggezza di un racconto
di Lao-tze e, ancora una volta, un
principio dei cosmisti, quello del
panpsichismo di Konstantin Ciolkovskij,
padre della cosmonautica.
Nel lungo monologo di Alexander, uno dei
protagonisti di Sacrificio,
emerge tutta l’assurdità di una
conoscenza e di una civiltà fondate sul
principio di dominio della natura:
«L’uomo si è sempre solo difeso, dagli
altri uomini e dalla natura che lo
circondava. L’ha addirittura combattuta,
conquistandone sempre nuovi pezzi.
Continuando a sfigurarla. Il risultato è
stata la nostra civiltà, basata sulla
forza, il potere, il terrore e la
dipendenza. E tutto il nostro cosiddetto
progresso tecnico è servito sempre e
soltanto a procurarci o nuove comodità o
strumenti per il mantenimento del
potere. Siamo come selvaggi – usiamo il
microscopio al posto del randello. No,
no, i selvaggi sono molto più spirituali
di noi, mi sono sbagliato! Qualsiasi
conquista della scienza la rivolgiamo
subito al male. Per quanto riguarda il
comfort, poi, c’è stato un uomo
intelligente che ha detto che tutto
quello che non è indispensabile è
peccato. Se è così tutta la nostra
civiltà è costruita sul peccato. Siamo
arrivati a una tremenda disarmonia, a
uno sfasamento, cioè, tra lo sviluppo
materiale e quello spirituale. La nostra
cultura, meglio, la nostra civiltà è
sbagliata, figlio mio. Tu mi dirai che
si può studiare il problema e cercare
una via d’uscita. Può darsi. Se non
fosse così tardi».
Alla base di questa cultura della morte,
di questa civiltà nichilista, per usare
un termine abusato, c’è una concezione
errata della vita a partire dal concetto
stesso di morte e della sua paura, che
Alexander affronta poco prima: «Non c’è
nessuna morte. C’è, è vero, la paura
della morte, ed è una paura molto
meschina, che induce molti a fare quello
che gli uomini non dovrebbero fare. Ma
immaginati un po’ come tutto cambierebbe
se smettessimo di temere la morte. Se
superassimo il terrore della morte.
Anche se gli scienziati ritengono che si
tratti di un terrore ineliminabile. Una
specie di difesa. Un po’ come il dolore
fisico, che ci avverte del pericolo. Io
non lo credo, non sono d’accordo». Ma il
tema della morte come origine dei mali
della società è ancora un tema
fëdoroviano, come fëdoroviana è
l’affermazione che non vi è progresso
tecnico-scientifico senza un parallelo
progresso spirituale e senza una
riconciliazione tra scienze tecniche e
umanesimo.
Nostalghia
rappresenta la metafora di un nuovo
inizio, della riconciliazione dell’uomo
con se stesso, a partire dalla
riconciliazione di genere e della
riconciliazione della donna con se
stessa e con la sua vocazione alla vita,
ed è il punto di partenza della
riconciliazione dell’Uomo con la natura
che può essere attuato solo attraverso
la riconciliazione degli opposti con cui
ristabilire l’equilibrio dei due
principi che governano l’ordine delle
cose e dell’universo, lo Yin e lo Yang
rappresentati sul kimono di Alexander,
nelle scene finali di Sacrificio.
Gorciakov è uno scrittore russo che è
venuto a documentarsi in Italia sulla
figura di un suo compatriota, Maksim
Sazontovic Berezovskij, un musicista
vissuto tra la prima e la seconda metà
del settecento. Nel suo viaggio lo
accompagna Eugenia, una giovane donna
che gli fa da traduttrice.
Berezovskij era stato un musicista molto
precoce, che nonostante la condizione
servile venne inviato in Italia dal
principe Potëmkin per seguire i corsi
dell’Accademia musicale di Bologna. In
Italia, Berezovskij divenne ben presto
famoso per le sue numerose composizioni,
ma Potëmkin nel 1774 gli ordinò di
rientrare in patria per fondarvi un
conservatorio. Riprese dunque a vivere
in Russia, dove si sarebbe innamorato di
una giovane attrice, come lui di
condizioni servili. Berezovskij divenne
in breve tempo un alcolizzato e nel 1777
si tolse la vita, poiché il padrone
della ragazza, essendo geloso di lui,
l’avrebbe violentata e fatta deportare
in Siberia.
Sulle tracce del soggiorno toscano di
Berezovskij, lo scrittore russo si ferma
nei pressi della cattedrale di
Monterchi, dove si custodisce la
Madonna del Parto di Piero della
Francesca. All’interno della cattedrale,
Eugenia assiste così a una cerimonia. Si
tratta di un rito mariano di
propiziazione della maternità. Reduce da
alcune delusioni sentimentali, Eugenia è
alla ricerca di un senso, di un
significato esistenziale, di qualcosa o
qualcuno in cui sentirsi realizzata sia
come donna che come persona. Ma Eugenia,
da donna emancipata quale è, della
maternità ha semplicemente paura.
Rimasto fuori ad attendere la sua guida,
Gorciakov, che aveva manifestato in un
primo tempo il desiderio di vedere la
Madonna del Parto, non ce la fa a
entrare nella cattedrale: è stanco,
stanco di ammirare le bellezze
dell’Italia. Esattamente agli antipodi
dell’Idiota di Dostoevskij è
probabilmente consapevole che nessuna
bellezza salverà il mondo. Vorrebbe
rivedere invece sua moglie, i suoi
figli, la sua terra, lontano dalla quale
prova un’immensa “Nostalghia”,
come dicono nella pronuncia del loro
italiano i russi. È probabilmente la
nostalgia della sua madre terra che lo
ha spinto quindi a visitare il luogo
dove si custodisce l’icona con la
Madonna del Parto di Piero della
Francesca. Nella sala d’attesa di una
vecchia pensione, a Bagno Vignoni,
presso le terme dove veniva a curarsi
Caterina da Siena, Eugenia e Gorciakov
discutono intorno alla difficoltà dei
popoli di comprendersi. Eugenia sta
leggendo una traduzione delle poesie di
Arsenij Tarkovskij, ma Gorciakov, che le
consiglia di buttare il libro nella
pattumiera, sostiene l’idea che l’arte e
la poesia non sono traducibili e che gli
italiani non capiscono affatto la
Russia, ma che neanche i russi conoscono
davvero l’Italia e la sua cultura.
Ricevute le chiavi delle rispettive
stanze, Gorciakov ed Eugenia si
appartano.
Dopo una breve perlustrazione del suo
appartamento, lo scrittore si corica e
si addormenta profondamente. Quindi,
alle immagini della veglia gli si
sovrappongono quelle oniriche della
Madonna del Parto. L’immagine di una
donna incinta, sdraiata sopra un letto,
che richiama la rappresentazione della
Koimesis, la “Dormitio Virginis”
bizantina, alla quale il cristianesimo
occidentale ha finito per sostituire la
colpevole immagine dell’Assunzione di
Maria. Il giorno dopo, Eugenia e
Gorciakov, nei pressi della vasca che
porta il nome di Caterina da Siena,
faranno la conoscenza di Domenico, un
vecchio dall’aspetto malandato, che un
tempo viveva con la sua famiglia a Bagno
Vignoni.
Caterina Benincasa era stata una delle
numerose sante anoressiche che hanno
costellato la storia del cristianesimo
occidentale tra la fine del medioevo e
l’età moderna. La sua vocazione sarebbe
nata in seguito alla morte della sorella
per parto. Domenico, che gli abitanti di
Bagno Vignoni considerano un povero
demente, si rivolge a Eugenia dicendole
di non scordare la rivelazione che Dio
ha voluto fare a Santa Caterina: «Tu
sei colei che non è. Io sono colui che
è».
Domenico è reduce dal manicomio
criminale. Si era barricato in casa con
la famiglia in attesa della fine del
mondo. Ma la fine del mondo non era mai
arrivata e un giorno, invece, erano
arrivati i carabinieri. Gorciakov vuole
assolutamente parlare con Domenico,
andare a casa sua, vederlo, dice di
capire il suo comportamento, il suo
stato d’animo. Domenico non è un pazzo,
voleva soltanto proteggere la sua
famiglia, perché è un uomo religioso, un
uomo che ha fede. Solo un russo può
essere in grado di capire queste cose.
Con Eugenia, lo scrittore si reca allora
a trovare Domenico. Lei però se ne torna
subito alla pensione di Bagno Vignoni,
dimostrando ostilità nei confronti di
Gorciakov, poiché continua a dar retta a
un povero malato di mente.
Le scalcinate, iridescenti pareti
dell’abitazione di Domenico sono libere
citazioni pittoriche. Rappresentano la
dissoluzione psichica dell’Io alla quale
sono giunte le avanguardie artistiche
del novecento. Domenico non è pazzo, ma
abita semplicemente la pazzia della
civiltà moderna. In procinto di
allontanarsi dalla casa del vecchio,
Gorciakov riceve una richiesta di aiuto.
Lui, Domenico, non può farlo, perché la
gente lo ritiene pazzo. Ogni volta che
tenta di immergersi nella vasca di Santa
Caterina pensano che stia cercando di
affogarsi. Ma è importante. Si tratta di
una sorta di esorcismo. Bisogna
attraversare la vasca con una candela
accesa. Toccare le due sponde della
vasca, cercando di impedire che la
candela venga a spegnersi.
Tornato alla pensione, a Bagno Vignoni,
Gorciakov vi ritrova Eugenia che,
umiliata e delusa per il suo
comportamento, gli fa una scenata.
Eugenia vorrebbe essere capita, amata,
apprezzata, ma gli uomini, da lei,
vogliono una sola cosa. Anche Gorciakov,
che sembrava tanto diverso dagli altri,
forse, vuole soltanto questo. Ma lo
scrittore rimane attonito e
completamente sorpreso dalle parole di
Eugenia. Lui non vuole proprio niente.
Eugenia si è sbagliata, perché Gorciakov
non pensava a nessuna storia, a nessuna
avventura. È lei che se l’è messo in
testa. È lei che si è innamorata di
Gorciakov.
A Bagno Vignoni la stagione termale è
finita e lo scrittore deve recarsi
all’aeroporto per tornare a casa.
Improvvisamente, da Roma, lo chiama per
telefono Eugenia. Lo vuole salutare. Lei
adesso si è sistemata. Ha finalmente
trovato un uomo; una persona
visibilmente gretta, ma che a suo dire
si occupa invece di problemi spirituali.
Ha chiamato Gorciakov perché Domenico è
da qualche giorno a Roma, dov’è riuscito
a improvvisare un comizio con dei suoi
amici. L’ha pregata di ricordargli la
sua promessa.
Allora, Gorciakov ritorna alla piscina
di Santa Caterina, che alcuni operai
delle terme stanno ripulendo. Accende la
candela che Domenico gli aveva dato e
cerca di attraversare la vasca da sponda
a sponda. Ma una corrente d’aria, ogni
volta, spegne la fiamma. Intanto,
Domenico è quasi al termine del suo
comizio nella piazza del Campidoglio.
Dalla statua equestre di Marco Aurelio,
l’imperatore filosofo, grida con un
megafono alcune frasi che citiamo
ricavandole dal racconto cinematografico
di Tarkovskij: «Perché l’umanità possa
avanzare, e non rimanere sospesa
sull’orlo del baratro, dobbiamo
camminare mano nella mano, i cosiddetti
sani con i cosiddetti pazzi. Ehi! Sani!
Che cosa significa la vostra salute?!
Dovete rassegnarvi, finalmente, a dire a
voi stessi: Dobbiamo vivere con loro,
mangiare con loro, bere con loro,
dormire con loro. A cosa vi serve la
libertà se non avete nemmeno il coraggio
di guardare negli occhi la verità: con
la vostra cosiddetta salute avete
portato il mondo sulla soglia della
catastrofe. L’umanità è giunta a un
punto vergognoso! Non siamo liberi da
noi stessi! Io parlo chiaramente, senza
ascoltare nessuno, perché tutti capiate
che la vita è semplice e che per
salvarvi, salvare voi stessi e salvare i
vostri figli, la vostra discendenza, il
vostro futuro, dovete tornare al punto
dove vi siete persi, dove avete
imboccato la via sbagliata! Che cosa
vale questo mondo, che cosa vale la sua
giustizia, quando un povero malato di
mente, come ci chiamate, vi dice:
vergognatevi! Fino a che siete in tempo:
vergognatevi!».
Infine, un amico di Domenico aziona un
impianto stereofonico che trasmette la
registrazione della Quinta sinfonia
di Beethoven. Sulle note dell’Inno
alla Gioia, che invitano nel loro
furore dionisiaco alla fratellanza,
Domenico si cosparge di benzina e si dà
fuoco. Intanto, a Bagno Vignoni, dopo
l’ennesimo tentativo, Gorciakov riesce a
portare a termine il suo compito.
Toccata la sponda opposta della vasca di
Santa Caterina, viene però colpito da
infarto e muore. Nostalghia si
chiude con le immagini della campagna
russa, che sfuma progressivamente tra le
mura decrepite dell’antica cattedrale di
San Galgano, la cui costruzione non fu
mai ultimata.
Frutto di una coproduzione
italo-sovietica dei primi anni ottanta,
il film di Tarkovskij viene ultimato
durante la primavera del 1983. L’Inno
alla Gioia, su le cui note avviene
il suicidio di Domenico, era invece,
nella sceneggiatura, il Tannhäuser
di Wagner. Tarkovskij scriveva nel
suo diario (Martirologio) l’8
febbraio del 1983: «Tutta la musica
occidentale è, in fin dei conti, puro
empito drammatico: “Io voglio,
pretendo, desidero, chiedo, soffro”.
Quella orientale invece (Cina, Giappone,
India): “Io non voglio niente, io sono
niente” – una dissoluzione completa in
Dio, nella Natura. L’oriente: frammenti
superstiti di antiche culture,
autenticamente civili, contrapposte
all’Occidente, centro dell’errata,
tragica civiltà tecnologica. Ribelle
contro Dio, avida, cervellotica,
pragmatica. Proprio perché la Russia si
trova tra l’Oriente e l’Occidente, in
essa si percepisce un’essenza diversa da
quella dell’Occidente, che è peritura e
sbagliata».
Non distante dalla cattedrale di San
Galgano, la spada nella roccia del santo
guerriero identifica una fede
incrollabile e la necessità di
rettificare le proprie scelte. L’arte
medievale europea era secondo Fëdorov un
esempio metodologico di come arrivare a
un’unica visione del mondo a vantaggio
di quello che era il progetto di
salvezza dell’uomo. Ciò che serviva per
il progetto dell’opera fëdoroviana non
era una regressione al medioevo, ma un
ritorno allo spirito di quell’epoca,
ovvero a quella energia e quella
concezione unitaria delle conoscenze che
doveva portare a una visione del mondo
adatta alla nuova epoca. Qualcosa di
queste idee troviamo ancora in
Tarkovskij.
Una sintesi complessiva nella concezione
di Tarkovskij sulla conoscenza può
essere probabilmente individuata nella
visita di Gorciakov alla casa di
Domenico. Le cifre della scritta a
carboncino sull’intonaco della parete
1+1= 1 alludono in modo neppure troppo
ermetico a una dimensione della
conoscenza di tipo olistico. Una
concezione secondo cui una goccia di
olio più un’altra goccia, come fa dire
il regista a Domenico, non fanno due
gocce, ma una sola goccia più grande.
È un’esortazione a superare la dualità e
cercare l’Uno in tutte le cose.
Ritornare al punto dove l’umanità si è
persa «imboccando la via sbagliata».
Trovare una sintesi tra immanenza e
spiritualità; quella sintesi che
Tarkovskij ci mostra nell’alchimia
poetica dei suoi film.
Riferimenti bibliografici:
A. Tarkovskij, Racconti
cinematografici, Milano 1994.
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo,
Milano 1988.
A. Tarkovskij, Diari, martirologio
, Firenze 2002.
A. Frezzato, Tarkovskij, Firenze
1977.
T. Masoni e P. Vecchi, Andrei
Tarkovskij, Firenze 1997.
M. Gardner, L’universo ambidestro.
Nel mondo degli specchi, delle
asimmetrie, delle inversioni,
Bologna 1984.
P. Florenskij, La prospettiva
rovesciata, Milano 2020.
G.M. Young, I cosmisti russi,
Roma 2017.
R. Bell,
La santa anoressia, Milano 1992. |