il divo
andreotti visto dal cinema
di
Laura Novak
é stato chiamato Belzebù, Il
Divo, Zio Giulio, Onnipresente,
Indecifrabile.
Per coloro che non hanno avuto con lui
nessun tipo di contatto, per gli
italiani che lo hanno votato per anni e
anni, è Giulio Andreotti, senatore,
ministro, presidente del consiglio,
senatore a vita, ma soprattutto il
mistero politico italiano per
eccellenza.
Nell’apparenza arcigna, rannicchiato
nelle spalle tese ed assorto nel
ticchettio delle dita lunghe e sottili,
Giulio non dorme. Le notti di Roma,
piacevolmente profumate e miti lo
assistono nella sua veglia silenziosa,
in un appartamento ombroso ed antiquato.
Il settimo governo Andreotti si sta
delineando all’orizzonte, sulla spinta
energica della sua corrente, la
cosiddetta corrente andreottiana,
farcita di individui ai margini della
rispettabilità, ma al centro della
politica italiana.
La tela delle alleanze sembra tessuta
senza sfilacciamenti. Ma la tela si
strappa e da lì a poco il governo cade.
E’ il momento dell’ombra politica, della
Tangentopoli orrendamente svelata, delle
stragi mafiose e dell’attacco alla
giustizia viscidamente dall’interno.
Eppure lui c’è, in parlamento, nel buio
e nel silenzio della chiusura dei seggi,
mentre nessun altro lo vede, attaccato
alla sua poltrona di senatore a vita,
nel sogno costante di una carriera da
concludersi nelle stanze del Quirinale.
E attende la realizzazione di quel
sogno, fino all’ultimo, mentre la sua
credibilità si sgretola sotto le parole
di Tommaso Buscetta, parole dalla
potenza di un accetta affilata su i suoi
40 anni di potere.
Questo è l’Andreotti de “Il Divo”,
l’ultimo faticoso ed ambizioso film di
Sorrentino, regista apprezzato già in
passato da pubblico e critica, per film
come “Le Conseguenze dell’Amore” e
“L’Amico di Famiglia”.
Sorrentino, assorbito nel mistero del
suo protagonista, elabora, arrotonda ed
acuisce aspetti, tic e sensazioni del
personaggio più controverso della nostra
storia recente.
Ne rende le ombre, ne esplora le luci
della ribalta sul viso, ne esamina i
rapporti e non rapporti personali, ne
esalta l’incredibile acutezza di ironia,
ne ascolta i silenzi e ne percepisce i
bisbigli.
L’operazione di rappresentazione
cinematografica di un enorme enigma
esistenziale individuale, era
potenzialmente buona, ma complessa.
Il soggetto, vivente più che mai, è un
scrigno di segreti mai svelati, un totem
di potere e un magnifico interprete di
se stesso. La banalità, la mancanza di
approfondimento e la paura di esporsi
poteva essere lì, nell’angolo buio
dell’insuccesso.
Eppure Sorrentino non sbaglia, anzi
vince.
La scelta della regia, veloce e acuta,
modernamente grafica e secca, rende il
film un accattivante fenomeno. Ogni sua
scelta stilistica crea un architettura
barocca di immagini sensazionalistiche ,
scandite dalla colonna sonora sfrontata
e accattivante, in cui il silenzio di
rispetto a morti e stragi lascia il
posto a pop music di annata.
Ed Andreotti, interpretato da un
ispirato Tony Servillo, rivive la sua
trascinante vita, moderatamente
spericolata e riccamente modesta, il suo
momento d’oro e il suo momento di
abbandono, il suo destino mediatico e di
cronaca nera.
I fantasmi del suo passato riecheggiano
nel corso del film con scadenza
regolare, come un tortura lunga e
straziante, da Pecorelli a Moro, da
Falcone al generale Dalla Chiesa.
Tutti là, mai dimenticati nella sua
mente, ma, forse, mai realmente
rimpianti.
E senza paura il regista si spinge,
ricostruisce confessioni mai avvenute,
ne immagina i contorni di tragedia ed i
sensi di colpa.
Lo stragismo come strumento necessario a
mantenere la tensione, a non far cedere
l’equilibrio della bilancia del potere,
di cui la Democrazia Cristiana ne era
l’ago da 30 anni. Nessun estremismo
poteva vincere, passato il tempo ambiguo
e pericoloso del compromesso storico di
Moro, la Dc doveva imperare per
mantenere l’ordine e la civiltà.
E l’Andreotti, tragicamente cosciente
del male, diventa il simbolo per
Sorrentino del popolo italiano.
Quell’Italia democristiana dell’epoca (e
non solo di quegli anni), senza
esposizioni od opinioni, rassegnata alla
collocazione politica, decisa da altri
dopo la seconda guerra mondiale, che ha
dimenticato la sua vena di lotta per
rimanere seppellita nella mentalità di
controllo della massa.
La P2 e le scalate alla gestione
dell’informazione sono le scelte
colpevoli di una pratica del governo
antica e marcia.
Andreotti, simbolo di questa ambigua
politica, ne diviene carnefice e vittima
nello stesso tempo.
Nessuno potrà mai dimostrare la certezza
di ogni accusa a lui rivolta.
Potrebbe essere il più grande
delinquente mai scampato alla giustizia
della storia italiana, oppure il suo più
grande perseguitato. Parole del
sensazionale Montanelli.
Ma quello che è certo è che una volta
alzati da quella poltrona di un cinema
qualunque, dopo la visione di questo
piccolo gioiello di modernità
cinematografica, ti sentirai italiano,
colpevolmente fermo ed ignorante, cieco
e sordo verso il tuo passato ed il tuo
futuro.
Mentre lui, lo Zio Giulio, rimarrà lì,
nel suo cerchio politico, in cui ancor
oggi molti lo venerano, lo ascoltano e
lo rispettano, perché chi deve tacere
magicamente taccia al suo passare.
Aldo Moro, non sarebbe probabilmente tra
questi, ora, in questi anni, se solo
potesse. Perché forse lui, la più grande
cicatrice di Andreotti, è stato il solo
a non rispettarlo, a non credergli, mai.
Ma anche lui, purtroppo, ora tace. |