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CINEMA


GOMORRA
Vivi Napoli e puoi muori

di Laura Novak

 

Matteo Garrone descrive così la sua scelta di regia nel film Gomorra (tratto dal best seller italiano di Roberto Saviano): “Ho cercato di essere invisibile”.


I luoghi, le storie sotterranee di Scampia parlano senza bisogno di merletti stilistici.
La potenza espressiva è nella crudezza della realtà.


E’ il 2005, solo 3 anni fa. A Secondigliano, periferia a nord di Napoli, ghetto d’Italia, dove gli occhi sono chiusi e le bocche rimangono cucite, è in atto la guerra tra gli scissionisti e il clan che, da anni, detiene l’egemonia su uomini e territorio a Napoli, il clan dei Di Lauro.


Ogni ciclo produttivo dell’economia a Napoli, come nella Campania, è sorvegliato da una rete intricata di guardiani, sorveglianti, spacciatori, tossici e cavie umane, trafficanti, contabili, imprenditori, segretari e riscossori.

Un Sistema.


Il Sistema chiamato più comunemente la Camorra.


Ogni ciclo produttivo, dalla sartoria sotterranea per l’alta moda, allo spaccio di eroina, cocaina, pasticche, tagliate poco, molto o moltissimo, passando per il business dei rifiuti di tutta Italia, di cui Napoli ed il suo sottosuolo ne è custode segreto e contaminato.


Napoli muore lentamente nella sua dignità e salute tra la spazzatura, e con lei, ciascun aspetto della vita di ogni giovane napoletano di periferia, condannato, per luogo di nascita, all’isolamento sociale e alla violenta cecità.


Ogni settore di produzione viene usato, consumato, lacerato e annientato dal suo interno.


E con esso le mani e il sudore della merce più preziosa, la manovalanza a basso costo- massimo sfruttamento.


La guerra, nel 2005, esplode nella sua veemenza ossessiva come una caccia alle streghe senza precendenti. I traditori sono ovunque, così come i fedelissimi del boss di Lauro.


Tra le “vele” dei fatiscenti monolocali di Scampia, la sovrana Camorra uccide, tortura, fracassa coscienze e teste di uomini e di donne, alcuni consapevoli della loro scelta di vita, altri vittime del Sistema, che si alimenta di esempi sacrificali per ottenere potenza ed egemonia.

Matteo Garrone ha deciso due anni fa il percorso più rischioso.


Non era un compito facile portare alla vita, con immagini ed intrecci di dialoghi, le pagine del romanzo scandalo degli ultimi anni, “Gomorra”.


La versione cinematografica è un incredibile ritratto di una Napoli soggettiva, amorale e scura. La Napoli di singoli individui, di napoletani è vero, ma che potrebbero anche non esserlo. Perché i soggetti sono sempre e comunque animali sociali che agiscono con il loro status nella loro zona. Ma a Napoli (e non solo) purtroppo si agisce e mai si reagisce.


Lontana dalla capitale partenopea generalista della cronaca nera e degli scandali sociali; la vera Napoli trasuda dalla lucidità giornalistica di Saviano e dalle capacità visive di Garrone come una città sensibilmente abbandonata nella morsa di una legalità trasformista e sui generis, manipolata e connivente all’illegalità ramificata.


Garrone, interseca bene e con classe stilistica i tessuti corposi del libro con le immagine crude del film, che diventa realisticamente documentario e sentimentalmente lungometraggio di commozione.


La sua regia, così nuda, scarna, giocata sulle ombre, grondante di inquadrature ravvicinatissime, dai chiaro scuri labili e senza spessore, è scelta calibrata e umile per dare spazio nello spettatore al rifiuto intimista, sociale e civile.


Nessuna spettacolarizzazione, nessuna esagerazione o caricatura dei luoghi e dei personaggi. Solo Scampia, secca e al margine, con i suoi disgraziati alle catene. Il film si distacca dal libro nella progettazione e nel risultato ultimo. Ma, straordinariamente, ne diviene compensazione, rifinitura, ulteriore veicolo comunicativo.


L’incredibile inchiesta, i numeri, le date, i nomi e cognomi presenti nel libro di Saviano, vengono lasciati da parte per dare spazio agli uomini ed ai loro errori/orrori.


Lo struggimento nel racconto di Saviano, che ha pagato con la sua libertà di vita e di normalità il suo coraggio di cronista, è irriproducibile.


Se, dall’immersione tra le righe del libro, ne esci inorridita, sconvolta e lucidamente cosciente dell’immensa carenza di informazione, dalla visione del film ne esci amareggiata.


Perché le più buie immagini che, mentre le pagine scorrevano, si sono fatte largo con violenza nella mente del lettore, trovano aspetto e connotazione reale.


Ed i luoghi, le persone, i loro intrecci e le loro esistenze disperate, a cui Saviano ha dato un’esistenza alla luce del sole, lontano dall’omertà e dall’ignoranza, appaiono nella loro incredibile veridicità di solitudine sociale.


Il film e il libro, per questo diventano complementari.
Un unico progetto di cultura del realismo e della verità
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