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N. 30 - Giugno 2010
(LXI)
Sbarre di celluloide
QUEL CARCERE CHE è IL CINEMA
di Laura Novak
L’idea,
lo
spunto
mi è
nato
vedendo
un
capolavoro,
sconosciuto
al
mercato
cinematografico
italiano,
che,
come
molto
spesso
accade
per
film
difficili
e
violenti,
non
è
riuscito
a
trovare
il
suo
degno
ritaglio
di
schermo
nei
cinema
nostrani.
Il
film
in
questione,
“Bronson”,
del
regista
Nicolas
Winding
Refn,
del
2008,
affida
tutta
la
sua
semplice
linea
di
sceneggiatura
alla
violenza
di
un
uomo
e
alla
sua
perduta
vita
nelle
più
feroci
carceri
dell’Inghilterra.
Seppur
parli
di
carcere,
il
film
non
è
davvero
un
film
di
denuncia
sulle
condizioni
dei
carcerati,
né
tanto
meno,
un
tentativo
di
dare
una
giustificazione
al
sistema
giudiziario
inglese.
La
pazzia
di
un
uomo,
interprato
da
Hugh
Ross,
che
non
ha
niente
da
invidiare
ai
più
grandi
interpreti
della
Storia
del
Cinema,
è la
base
da
cui
nasce
una
vita
spesa
da
una
gabbia
ad
un’altra,
fino
a
quella
più
angusta
mai
vista
nel
cinema
di
questo
genere.
Nonostante
il
pugno
allo
stomaco
che
colpisce
a
fondo
ad
ogni
frammento
di
immagine
di “Bronson”,
il
film
non
cade
mai
nel
già
visto
o
nella
violenza
carnale
più
brutale;
con
classe
racconta,
mette
in
mostra
e
contempla
impassibile
l’ascesa
del
più
pericoloso
prigioniero
di
tutta
l’Inghilterra.
Con
trascendenze
alla
Lynch
e
citazioni
a
iosa
(da
“Arancia
Meccanica”
fino
a
“Qualcuno
volò
sul
nudo
del
cuculo”),
il
film
è da
divorare.
Non
posso
dire
altro,
se
non
vedetelo.
Quel
film,
però,
tanto
lontano
dallo
stereotipo
di
film
sul
carcere,
mi
ha
condotto
ad
una
ricerca
del
filone
classico
uomo
–
carcere,
che
ha
al
suo
interno,
svariate
sotto
strutture.
Questa
ricerca
di
seguito
mi
ha
condotto
ad
una
domanda:
come
può
essere
davvero
il
carcere?
Come
lo
immaginiamo
attraverso
la
macchina
da
presa?
Dai
film
innocente
–
processo
–
galera
violenta,
attraverso
il
filone
cattivi
–
galera
–
fuga,
fino
al
grottesco
galera
–
libertà
–
nuova
vita
–
ricaduta
(o
no..).
In
sostanza
il
genere
è
composito,
complicato,
come
complicata
può
essere
il
punto
di
vista
da
cui
si
guarda
attraverso
quelle
sbarre.
Esistono
come
per
ogni
genere,
delle
pietre
miliari,
che
riescono
in
pochi
attimi
di
immagini
ad
immortalare
l’angustia,
la
perversa
macchina
criminale,
le
ingiustizie
ed
il
macabro
gioco
del
più
forte,
della
vita
carceraria.
Sono
andata
quindi
a
ricercare
nella
mia
vita
da
spettatrice
di
cinema,
nel
mia
mente
di
donna
libera
il
film
che
supera
ed
eleva
il
genere.
Ce
ne
sono
a
migliaia.
Ognuno
avrà
da
fare
la
propria
classifica
personale,
lo
so.
Mi
scuso
quindi,
se
non
possono
evitare
di
rendere
subito
omaggio
alla
mia
mania,
il
mio
viscerale,
gigantesco
e
travolgente
amore
coeniano,
da
“Arizona
Jr.”
fino
al
capolavoro
assoluto
“Fratello
Dove
Sei?”,
che
in
una
miscela
perfetta
di
humour
e
bizzarra
avventura
racconta
la
fuga
dai
lavori
forzati
della
banda
di
criminali
più
assurda
della
zona
del
Missisipi.
Dei
geni
puri,
così
come
il
loro
modo
di
vedere
la
penitenza
più
dura
che
l’uomo
abbia
mai
creato.
Per
non
parlare
di
uno
dei
primi
film,
dopo
“Zelig”,
che
io
abbia
mai
visto
del
clarinettista
più
famoso
al
mondo,
che
ha
fatto
di
New
York,
Barcellona,
Londra
città
da
ricordare
attraverso
le
sue
suggestive
ed
ironiche
immagini.
Chi
non
ha
visto
“Prendi
i
soldi
e
scappa”
non
ha
mai
riso
davvero
con
Woody
Allen.
Se
per
Carpenter,
attraverso
le
immagini
notturne
e la
colonna
sonora
claustrofobia
di
1997
-
Fuga
da
New
York
e
Fuga
da
Los
Angeles,
il
mondo
carcerario
è
nel
futuro
FANTASCIENTIFICO,
il
luogo
da
cui
i
suoi
eroi
nascono
e
muoiono,
in
cui
il
prigioniero
Kurt
Russel
deve
salvare
la
vita
del
presidente
degli
Stati
Uniti,
minacciata
dall’anarchia
criminale
in
cui
ormai
versa
il
paese,
per
Marshall
il
carcere
femminile
della
New
York
degli
anni
’20
è
luogo
di
puro
musical.
Nel
suo
capolavoro
“Chicago”
due
soubrette
assassine
spietate
e
seriali,
conducono
una
vita
da
privilegiate,
in
costante
ricerca
della
popolarità.
Il
tango
delle
celle
rimane
secondo
me
la
miscela
di
musica,
coreografia
e
stile
più
bella
della
storia
del
musical.
Non
posso
non
pensare
alle
denuncie
realisticamente
cruente
di
“Garage
Olimpo”
o
“Cronaca
di
una
fuga
-
Buenos
Aires
1977”o
“Nel
Nome
del
Padre”,
in
cui
la
finzione
cede
il
passo
e
rende
omaggio,
con
tanto
di
cappello
di
critica
e
pubblica,
alla
realtà
del
carcere
politico,
all’innocenza
calpestata
e
abusata,
in
cui
tutti
possono
essere
vittime,
qualcuno
sarà
il
tuo
carnefice,
pochi
saranno
i
sopravvissuti.
La
vita
del
carcere,
forse
nel
suo
essere
fonte
reale
per
storie
romanzate,
ha
il
suo
più
grande
equilibrio
nelle
storie
biografiche,
che
a
mio
parere
vedono
Truman
Capote
– a
sangue
freddo
e
Dead
Man
Walking,
forse
le
opere
più
riuscite.
Realtà
romanzata,
in
cui
la
violenza
del
carcere
si
unisce
alla
delicatezza
della
vita
umana,
alla
sua
tortuosa
strada
verso
una
rettitudine
spesso
difficile
da
raggiungere.
Storia
di
individui
davvero
esistiti
intorno
a
noi,
tanto
commoventi
o
violente
da
non
lasciare
spazio
a
fantasia.
Sono
pure,
nude,
senza
effetti
scenici,
ma
dall’enorme
impatto
emozionale.
Ce
ne
sarebbero
a
migliaia,
dai
più
vecchi
film
in
bianco
e
nero
(Hate
&
Love
in
prima
fila),
fino
ai
pluri
citati
e
riciclati
classici
(Fuga
da
Alcatraz,
Cape
Fear
etc).
Ma
forse
il
capolavoro
può
essere
uno
e
non
più
di
uno
La
25°
ora
scatta
per
tutti,
per
Edward
Norton
come
per
altri
migliaia
di
detenuti
al
mondo,
che
entrano
e
escono
dalle
carceri
per
tutta
la
vita,
tentano
la
redenzione,
ottengono
una
seconda
chance
e
alla
fine
cedono,
per
volontà
loro
o
della
società,
che
li
etichetta,
li
segnala
con
un
codice
a
barre
invisibile.
Rinchiusi
in
un
clichè,
in
pochi
percorrono
la
via
che
conduce
al
penitenziario,
accompagnato
da
un
padre
amorevole,
come
Norton
nel
capolavoro
di
Spike
Lee;
in
molti
invece
abbandonati
dalla
famiglia
di
origine
o di
nozze,
affrontano
con
dignità
la
futura
mancanza
di
vita
che
li
attende.
Il
carcere
è
quindi
luogo
di
cosa?
di
cinema?
Di
realtà?
Di
suggestione
e
leggende
popolari
sulla
sua
crudezza?di
possibilità
di
redenzione
per
coloro
che
commettono
errori?
Il
carcere
appare
nel
cinema,
come
spesso
noi
crediamo
che
sia.
Ecco,
“La
25°
ora”,
forse
non
lo
fa
apparire,
lo
rende
semplice,
atterrante
e
solitario
per
il
suo
essere
traumatico
luogo
di
isolamento
umano
e
sociale,
in
cui
la
tua
vita
si
immobilizza.
Il
carcere
impone
i
suoi
tempi,
le
sue
dinamiche,
le
sue
giustizie
sommarie,
le
sue
regole
di
vita
sbarrata,
a
soggetti
deviati,
malati
di
mente,
assassini,
ladri,
o
semplici
individui
che
con
un
errore
perdono
la
garanzia
della
libertà
mentale
e
fisica.
Il
giorno
finisce,
l’ultimo
giorno
di
libertà
e si
apre
la
voragine
della
solitudine.
Ecco,
forse
il
carcere,
è
proprio
questo,
la
più
grande
paura
dell’uomo,
essere
solo.
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