N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
LA RIVOLTA DEI BOXERS
Il “Pericolo Giallo”
di Federica Caputo
La cruenta ribellione scoppiata in Cina nel 1900, nota come
Rivolta
dei
Boxers,
trova
le
sue
radici
in
diversi
avvenimenti
del
secolo
precedente.
Tra questi, la cosiddetta “Guerra dell’oppio”, scatenata
dalla
Gran
Bretagna
nel
novembre
del
’39,
poiché
l’imperatore
cinese
Tau
Juang
aveva
tentato
di
stroncare
l’afflusso
della
droga
in
Cina
promosso
dagli
Inglesi.
Nell’agosto
del
’42
i
cinesi
furono
costretti
ad
arrendersi
e a
firmare
il
Trattato
di
Nanchino,
che
li
obbligava,
fra
l’altro,
a
cedere
all’Inghilterra
il
porto
di
Honh
Kong
e ad
aprire
cinque
porti
al
commercio
estero.
Le clausole di questo trattato furono inasprite nel 1858
quando
la
Cina
fu
costretta
a
sottoscrivere
il
Trattato
di
Tianjin
dopo
essere
stata
aggredita
dall’Inghilterra
e
dalla
Francia:
agli
stranieri
venivano
aperti
undici
porti.
Per
due
anni
la
Cina
tentò
di
resistere
alla
ratificazione
del
trattato,
ma
alla
fine,
dovette
cedere.
Come non bastasse, tra il 1894 e il 1895, la Cina fu sconfitta
dal
Giappone
in
una
guerra
scoppiata
a
proposito
del
dominio
sulla
Corea:
nell’aprile
del
1895
fu
costretta
a
firmare
la
pace
di
Shimonoseky
che
la
obbligava
a
pagare
un’ingente
indennità
di
guerra
e a
cedere
diversi
territori
al
Giappone.
Queste sono considerate le cause di quanto avvenne all’alba
del
nuovo
secolo,
quando
in
Cina
esplose
il
rancore
accumulato
nei
decenni
precedenti,
a
causa
delle
umiliazioni
subite
dagli
Occidentali
e
dai
Nipponici.
Alla fine dell’800, in Cina, si era formata un’associazione
segreta,
la
Società
dei
Pugni
e
dell’Armonia,
i
cui
membri
vennero
definiti
dagli
Occidentali
Boxers
poiché
si
dedicavano
alle
arti
marziali.
I loro obiettivi erano principalmente due: difendere i contadini
contro
il
feudalesimo
dei
grandi
signori
cinesi,
e
salvaguardare
le
tradizioni
nazionali
cinesi
di
contro
alla
crescente
influenza
occidentale.
La penultima imperatrice cinese, Tzu-Hsi, passata alla storia
con
la
fama
di
oppiomane,
insieme
ai
governanti
di
Pechino,
fomentò
l’odio
dei
Boxers
nei
confronti
degli
Occidentali:
moltissimi
Europei
e
Cinesi
convertiti
al
Cristianesimo
furono
violentemente
massacrati,
senza
risparmiare
i
bambini.
Infatti,
molti
dei
120
cinesi
dichiarati
beati
dal
papa
il
1°
ottobre
2000,
erano
morti
in
questa
circostanza.
Fu la stessa imperatrice, il 20 giugno 1900, a spingere i
Boxers
ad
attaccare
il
quartiere
delle
ambascerie
di
Pechino:
in
quest’occasione
fu
ucciso
il
barone
e
ministro
tedesco
Von
Kettler.
Guglielmo II, ultimo imperatore di Germania e Re di Prussia,
dopo
questo
avvenimento,
chiese
che
Pechino
venisse
rasa
al
suolo.
Inoltre,
incitò
i
soldati
tedeschi
in
partenza
per
la
spedizione
punitiva,
rivolgendo
loro
queste
parole
piene
d’odio,
destinate
a
passare
alla
storia:
"Come
mille
anni
fa
gli
Unni
di
Attila
si
fecero
un
nome
che
ancor
oggi
parla
della
loro
potenza,
così
il
nome
di
Tedesco
in
Cina
sia
da
voi
reso
tale
che
per
mille
anni
mai
più
un
Cinese
osi
anche
solo
guardare
di
traverso
un
Tedesco".
Il corpo di spedizione che giunse in Cina era composto da
soldati
provenienti
da
Germania,
Austria,
Francia,
Italia,
Gran
Bretagna,
Russia,
Stati
Uniti
e
Giappone.
20000 uomini circa, che senza incontrare troppi ostacoli,
raggiunsero
Pechino
il
14
agosto
1900.
Nel frattempo lo stesso governo imperiale che aveva istigato
i
Boxers
alla
violenza
era
fuggito
a
Xian
e
aveva
iniziato
a
prendere
contatti
con
gli
invasori
mostrandosi
intenzionato
a
combattere
con
loro
contro
i
Boxers
per
sedare
la
rivolta.
I Boxers, allo sbaraglio e senza più alcun punto di riferimento,
pieni
d’odio
e
rancore,
furono
costretti,
un
anno
più
tardi,
alla
resa.
Il 7 settembre 1901 il governo cinese sottoscrisse i
Protocolli
dei
Boxers
con
i
quali
si
impegnava
a
placare
ogni
movimento
che
eventualmente
si
fosse
creato
contro
gli
stranieri,
a
pagare
una
notevole
indennità
e ad
accogliere
guarnigioni
straniere
a
Pechino
e in
altre
città
dell’impero.
Pechino non fu rasa al suolo come aveva auspicato Guglielmo
II,
ma
certamente
in
questa
circostanza
non
fu
risparmiata
la
violenza,
e le
Otto
Nazioni
alleate
fecero
la
“parte
del
leone”
saccheggiando
opere
d’arte
locali,
incendiando
edifici
vari
e
spartendosi
molte
città
cinesi:
l’Italia,
per
esempio,
ottenne
la
concessione
di
Tianjin.
Tra gli storici che hanno maggiormente riflettuto su questo
avvenimento
uno
dei
più
celebri
è
certamente
l’indiano
Kavalan
M.
Panikkar,
che
osserva:
"gli
stranieri,
stabilirono
con
la
Cina
quell’insieme
di
rapporti
che
dovevano
ridurla
all’impotenza
e a
farne
la
preda
inerme
di
qualsiasi
aggressione".
Nella sua opera Storia della dominazione europea in Asia
in
qualche
modo
egli
giustifica,
seppure
indirettamente,
l’insurrezione
dei
Boxers.
Sottolinea che, nei decenni precedenti alla rivolta, a norma
dei
trattati
di
Nanchino
e di
Tianjin,
gli
stranieri
costruirono
nelle
città
portuali
a
loro
aperte
dei
quartieri
e
rivendicarono
il
diritto
di
stabilirvi
i
loro
municipi
e
tribunali.
Così,
in
pochi
anni,
in
alcune
porzioni
di
territorio
cinese
le
stesse
autorità
e
giurisdizioni
cinesi
furono
espulse.
Talvolta
questi
quartieri
divennero
anche
sede
di
traffici
illegali.
Si può dire che lì gli stranieri ormai erano diventati i
Cinesi,
tanto
che
in
un
quartiere
di
Shanghai,
un
cartello
ammoniva:
"L’ingresso
nei
parchi
è
vietato
ai
cani
e ai
Cinesi".
Panikkar
tenta
di
calcare
la
mano
sul
fatto
che
senza
l’imperialismo
straniero
non
vi
sarebbe
stata
la
rivolta
dei
Boxers,
rivolta
che
alcuni
storici
considerano
esempio
massimo
di
patriottismo.
Da
parte
loro,
gli
Europei,
giustificarono
il
loro
intervento
con
la
necessità
di
difendere
i
molti
cristiani
morti
a
causa
della
violenta
xenofobia
dei
Boxers.
In
questo
ambito
venne
coniato
lo
slogan
Pericolo
Giallo
col
quale
gli
Occidentali
indicavano
i
cinesi
inferociti
con
i
quali
si
trovarono
a
lottare
durante
la
repressione
della
rivolta.
Sebbene
tra
gli
storici
persistano
posizioni
diverse,
essi
sono
certamente
concordi
nel
condannare
la
violenza
esercitata
da
entrambe
le
parti.
Appare
inoltre
a
tutti
particolarmente
critica
la
posizione
della
Corte
cinese,
ormai
effettivamente
indebolita
e
incapace
di
gestire
la
situazione,
e il
rifiuto
della
Cina
ad
ammodernarsi
come
aveva
invece
fatto
il
Giappone.
Infatti,
undici
anni
dopo
questa
rivolta,
nel
1911,
l’impero
cinese
cadeva
per
sempre.