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N. 130 - Ottobre 2018 (CLXI)

STORIE DI CICLISMO E DEL GIRO D'ITALIA
pARTE VI - Hugo Koblet, il falco biondo

di Riccardo Filippo Mancini

 

Era bello da vedere Hugo Koblet: un corridore che quasi non sembrava patire la fatica, che anche dopo la tappa più faticosa scendeva di sella e si sistemava i capelli, col suo pettine nero divenuto famoso. Quasi fosse pronto a ripartire di nuovo. Un signore sempre e comunque, una persona elegante.


Era nato in Svizzera, precisamente a Zurigo, il 21 marzo del 1925. Figlio di panettieri, il piccolo Hugo dava una mano alla famiglia consegnando il pane in bicicletta; a furia di percorrere kilometri si appassionò alla bici e mostrò sin da subito un notevole talento per le due ruote. Un destino che ha accomunato tanti campioni di quell’epoca, arrivati al ciclismo perché le condizioni familiari gli avevano imposto di iniziare a lavorare già da ragazzi, per dare una mano a far quadrare i conti a fine mese.

Iniziò a correre nell’immediato dopoguerra, cogliendo il primo successo importante nel 1947, quando vinse una tappa al Giro di Svizzera (all’epoca il più importante dopo Tour e Giro d’Italia). Per esattezza era la prima semitappa, si partiva da casa sua: da Zurigo si giungeva a Siebnen. Quell’anno in corsa c’erano anche i due campionissimi nostrani: Coppi e Bartali. Il giovane Hugo li attaccò e li staccò, arrivarono rispettivamente terzo e quinto. Si dice che Coppi chiese chi fosse quel ragazzo, perché rimasto stupito dal suo talento voleva portarlo nella sua squadra; Koblet rifiuterà. E i due diventeranno rivali sulle strade del Giro.

Hugo Koblet non praticava solamente il ciclismo su strada, ma anche quello su pista, con buonissimi risultati (fu due volte argento mondiale nell’inseguimento, nel 1951 e 1954). All’inizio della carriera molti lo ritenevano un corridore non adattissimo alla strada, ma lui dimostrò che si sbagliavano. Vinse qualche tappa tra il 1948 e il 1949, poi arrivò la svolta: il grandissimo Learco Guerra, dopo il ritiro dall’attività agonistica, decise nel 1950 di partecipare al Giro con una squadra che portava il suo nome, con lui stesso come direttore sportivo. Una scommessa che si rivelò vincente.

Sulla linea di partenza di quell’edizione della corsa rosa c’era il favoritissimo Coppi, c’era l’intramontabile Bartali reduce dalla vittoria della Milano-Sanremo, c’era Fiorenzo Magni e il forte francese Robic, già vincitore qualche anno prima del Tour, e infine un connazionale e rivale di Koblet, Ferdi Kubler. In sintesi il meglio del ciclismo del momento. Ma il biondissimo svizzero andava forte, e lo dimostrò sin da subito: vinse la tappa di Locarno per distacco, ripetendosi poi sull’arrivo di Vicenza nel quale andò a indossare anche la maglia rosa di leader.

 

Si era appena all’ottava tappa, c’era ancora tempo per il duo italiano di recuperare il tempo perduto. Nella nona frazione, con arrivo a Bolzano e tante salite da affrontare, Coppi sembrava pronto a sferrare un attacco per accorciare in classifica.

 

Ma durante quella giornata avvenne un episodio assai conosciuto: mentre il Campionissimo stava risalendo esternamente il gruppo per guadagnare la testa della corsa venne toccato sulla ruota da Armando Peverelli, corridore che non vedeva bene dall’occhio sinistro dopo una brutta caduta al Tour de France. Fu un attimo, ma tanto bastò: rottura del bacino in tre punti per Coppi, costretto ad abbandonare la corsa rosa.


Koblet non ebbe più alcun rivale: controllò la corsa senza patemi e giunse al traguardo finale di Roma (secondo arrivo nella capitale dopo l’edizione del 1911) con 5’ e 12’’ su Bartali. Terzo un ottimo Alfredo Martini. Fu un trionfo speciale: lo svizzero era il primo corridore non italiano a conquistare il Giro d’Italia.

Nello stesso anno conquistò dominandolo anche il Giro di Svizzera, imponendosi come corridore del momento. La consacrazione definitiva arrivò nel 1951: partecipò per la prima volta al Tour de France e lo conquistò andando a cogliere anche cinque successi di tappa.

 

Una vittoria nettissima, basti pensare che il secondo classificato, il francese Géminiani, arrivò con un distacco di 22 minuti. Il falco biondo (ma alcuni lo definivano anche “angelo”) era sul tetto del ciclismo. Dopo quella vittoria i giornalisti francesi gli diedero un altro appellativo: le Pedaleur de Charme. Partecipò altre due volte alla corsa francese, ritirandosi in entrambi i casi.

Partecipò al Giro anche nelle stagioni tra il 1951 e il 1955, cogliendo due secondi posti. Celebre è rimasto il Giro del 1953: duello sulla carta Coppi-Koblet, ma lo spettacolo rischia di interrompersi già alla quarta tappa, con arrivo a Roccaraso. Durante il passaggio a Popoli, Koblet nel tentativo di chiudere uno scatta impatta violentemente contro una bambina che si era spinta in mezzo alla strada: inizialmente le conseguenze sembrano essere gravi per entrambi; si spargono voci terribili, qualcuno sussurra che Koblet sia quasi morto.

 

La corsa si ferma, i corridori procedono a passo d’uomo in attesa di notizie. In un’epoca in cui non c’era alcuna pietà per l’avversario, quando le corse si vincevano per una foratura del rivale o approfittando di un guasto meccanico o fisico, quel gesto fu una novità quasi assoluta. Fortunatamente la bimba e il corridore elvetico si ripresero prontamente, con Koblet che risalì in sella per ricucire la distanza col gruppo.

 

Vinse Coppi quel giorno, ma i distacchi furono contenuti. Ma quel Giro non finì certo quel giorno, anzi. Lo svizzero non patì la caduta e iniziò la rimonta, superando in classifica il Campionissimo.

Coppi non si arrese e nei giorni seguenti attaccò il falco biondo in tutti i modi, senza successo. Sembrò arrivare la resa, prima del traguardo di Bolzano, terzultima tappa del Giro: i due erano soli al comando, e come spesso accade anche oggi a Coppi andò la vittoria di frazione, a Koblet l’ipoteca della vittoria, con l’italiano che l’indomani non avrebbe attaccato il rivale. Ma non si poteva mai dare nulla per scontato nel ciclismo di allora.

 

Nella penultima tappa c’era lo Stelvio, una montagna oggi mitica che veniva affrontata per la prima volta in assoluto quell’anno. Coppi voleva mantenere il patto fatto con Koblet, ma tutta la sua squadra, dal direttore sportivo all’ultimo dei gregari lo spinsero a tentare il colpaccio all’ultima occasione: forse Koblet non avrebbe retto una montagna così dura e severa. Il resto è quasi storia, per chi ama il ciclismo: sullo Stelvio rimasero in cinque, oltre a Coppi e Koblet c’erano Bartali (che aveva 39 anni), Fornara e il giovane Defilippis.

 

Il ragazzo fu la miccia che innescò l’esplosione: scattò su richiesta di Coppi, e Koblet fece l’errore di seguirlo. A quel punto il buon Fausto non fece altro che accodarsi per poi andare in progressione e lo svizzero crollò, non riuscendo a tenere il ritmo. Il Campionissimo arrivò sul traguardo con 3’ 28” su Koblet, mantenendo 1’ 29” di vantaggio prima dell’ultima tappa. Giro ribaltato, vittoria a Coppi per il quinto storico trionfo (come Binda).

Nel 1954 Koblet poteva prendersi la rivincita (anche perché Coppi era distratto da vicende personali: era oramai nota la sua storia d’amore con la Giulia Occhini, la “dama bianca”), ma quell’edizione fu vinta da un nome a sorpresa: Gianni Clerici, anche lui di nazionalità elvetica.

 

Clerici si rese protagonista di una delle "fughe bidone" più clamorose della storia del ciclismo: uscì dal gruppo con altri quattro corridori durante la sesta tappa (quella da Napoli a L'Aquila), e giunse al traguardo con oltre mezz'ora di vantaggio sul gruppo, un distacco che si sarebbe rivelato incolmabile per chiunque. Koblet chiuse la corsa sul secondo gradino del podio. Quell’edizione del Giro vide l’ultima partecipazione di Bartali.

Negli anni successivi il falco biondo non riuscirà più ad essere grande protagonista: vinse un Giro di Svizzera nel 1955 e poi nessuna corsa di rilievo. Si ritirerà abbastanza presto dalle gare, all’età di 33 anni, nel 1958.


Ma la sua figura così elegante e fascinosa, unita alla sua fama, spinsero Enrico Mattei, all’epoca Presidente dell’Agip, a fargli una proposta interessante: volare in Venezuela per fare il testimonial dell’azienda. Lo svizzero accettò e passò due anni a Caracas, per poi tornare in Europa con l’incarico di gestire una stazione di rifornimento a Oerlikon. Nel 1961 rifiutò la carica di Commissario tecnico della federazione ciclistica elvetica, forse per la sua timidezza, che lo aveva già messo in difficoltà quando accettò di fare alcune radiocronache in veste di commentatore.

Morì il 6 novembre del 1964, in seguito ad alcuni giorni di agonia dopo essersi schiantato contro un albero mentre era alla guida della sua Alfa Romeo: un incidente ancora oggi avvolto nel mistero. Era fragile il falco biondo, forse più di quanto si potesse pensare. E chissà che quel giorno non abbia deciso di non premere il pedale del freno. Qualcuno l’ha ipotizzato, altri lo hanno detto, nessuno potrà mai saperlo con certezza.


Ci resta però ben chiaro e nitido il ricordo delle imprese di un corridore non comune, andato via troppo presto, un po' come fosse il James Dean della bicicletta. Col suo pettine tra le mani per sistemarsi i capelli.



 

 

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