N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
STORIE DI CICLISMO E DEL GIRO D'ITALIA
PARTE
IV -
LA
LOCOMOTIVA
UMANA
di Riccardo
Filippo
Mancini
Si
dice,
oggi,
che
il
rosa
non
piacesse
molto
a
Benito
Mussolini:
non
era
da
uomo
forte,
era
un
colore
femminile.
Ma
la
Gazzetta
decise
che
quello
sarebbe
stato
il
simbolo
del
primato
nella
corsa
più
amata
dagli
italiani.
Nacque
così
la
maglia
rosa,
nel
Giro
del
‘31.
Il
motivo
della
scelta
fu
molto
semplice:
la
Gazzetta
era
edita
(come
oggi)
su
carta
rosa,
da
qui
la
scelta
di
richiamare
cromaticamente
la
“rosea”
anche
attraverso
il
simbolo
del
primato
della
corsa.
Insomma
si
fece
come
aveva
fatto
il
Tour
con
la
maglia
gialla
alcuni
anni
prima
(Auto,
antenato
de
l’Equipe
e
organizzatore
della
corsa
francese,
era
stampato
su
carta
gialla).
La
prima
maglia
rosa
di
sempre
la
indossò
un
ragazzotto
nato
a
San
Nicolò
Po,
in
provincia
di
Mantova,
dove
quella
prima
tappa
si
concludeva:
si
chiamava
Learco
Guerra.
Si
affacciò
al
ciclismo
professionistico
abbastanza
tardi,
quando
aveva
oramai
27
anni,
perché
prima
faceva
il
calciatore
(oltre
al
muratore,
lavoro
che
svolgeva
insieme
al
papà,
capomastro
di
una
impresa
edile).
Giocava
infatti
nell’Aurora,
la
squadra
del
suo
paese
natale,
e di
ruolo
faceva
l’attaccante.
Era
bravo
e
divenne
presto
capitano
del
club
e
poi
addirittura
Presidente
della
società.
Pensò
bene
di
costruire
una
pista
per
la
bici
intorno
al
campo
di
gioco
per
allenarsi,
scoprendo
di
essere
un
fulmine
sui
pedali.
Già
nell’anno
dell’esordio
da
professionista,
nel
1929,
Guerra
colse
un
successo
nel
Giro
di
Campania,
vincendo
la
quarta
frazione
della
corsa.
Dimostrò
sin
da
subito
delle
doti
da
passista
fenomenali,
ma
anche
una
tigna
e
una
resistenza
che
rendevano
difficile
per
gli
avversari
staccarlo
in
salita.
Nel
1930
partecipò
al
Tour
de
France
al
fianco
di
Binda,
nel
famoso
anno
in
cui
il
campione
fu
pagato
dall’organizzazione
del
Giro
per
non
correrlo.
Binda
si
ritirò
dopo
qualche
tappa
e
Guerra,
trovatosi
a
fare
il
capitano,
non
sfigurò,
portando
a
casa
tre
tappe
e il
secondo
posto
nella
classifica
finale
della
Grande
Boucle,
che
venne
vinta
dal
campione
transalpino
André
Leducq.
Alla
fine
di
quell’anno
corse
il
Campionato
del
Mondo
su
strada
a
Liegi,
sempre
in
supporto
a
Binda:
gli
tirò
la
volata
e
riuscì
comunque
ad
arrivare
secondo
dietro
al
suo
capitano.
Vinse
il
suo
primo
campionato
italiano,
davanti
indovinate
a
chi?
Alfredo
Binda.
Era
nata
una
rivalità
che
si
sarebbe
accesa
negli
anni
successivi
(fomentata
dall’ormai
direttore
sportivo
Girardengo,
che
anche
una
volta
sceso
dalla
sella
non
cessò
di
vedere
Binda
come
acerrimo
rivale).
Nel
1931
come
detto
la
“locomotiva
umana”
(il
soprannome,
come
molti
dell’epoca,
porta
la
firma
di
Emilio
Colombo,
direttore
della
Gazzetta
in
quegli
anni)
indossò
la
prima
maglia
rosa
e
fece
corsa
per
la
vittoria
fino
alla
nona
tappa,
quando
le
conseguenze
di
una
caduta
(la
leva
del
freno
gli
si
conficca
nella
schiena)
lo
costrinsero
al
ritiro
mentre
era
leader
della
classifica
generale.
La
vittoria
finale
di
quel
Giro
andò
a
Francesco
Camusso,
in
una
edizione
comunque
spettacolare
della
corsa
rosa.
Quell’anno
è
legato
alla
sua
vittoria
più
importante
e
prestigiosa,
ossia
il
Campionato
del
Mondo
su
strada
che
si
corse
a
Copenhagen:
per
la
prima
e
ultima
volta
si
decise
di
disputare
una
cronometro
con
una
distanza
che
oggi
sembra
impossibile:
170
km.
Guerra
stravinse
davanti
al
francese
Le
Drogo
e
allo
svizzero
Büchi,
alla
straordinaria
–
per
l’epoca
–
media
di
34,727
km/h.
Anche
in
quell’anno
vinse
il
campionato
italiano:
saranno
5
consecutivi
tra
il
1930
e il
1934.
Nel
Giro
d’Italia
del
1932
Guerra
vinse
ben
sei
frazioni,
ma
questo
non
gli
bastò
per
cogliere
il
successo
finale,
che
andò
a
sorpresa
a
Pesenti.
La
locomotiva
dovette
accontentarsi
della
medaglia
di
legno,
giungendo
quarto
nella
classifica
finale
della
corsa.
C’era
anche
il
suo
rivale
Binda,
che
faticò
molto
e
disputò
un
Giro
anonimo.
Il
Giro
del
1933
parte
all’insegna
della
grande
rivalità
tra
Guerra
e
Binda,
e
rimane
nella
storia
per
una
serie
di
episodi
poco
chiari.
Guerra
vinse
la
prima
tappa
ma
il
giorno
dopo
andò
in
crisi:
colpa
della
fame,
non
si
era
alimentato.
Rischia
il
ritiro
mentre
Binda
vola
all’attacco,
ma
succede
una
cosa
inaspettata:
Armando
Cougnet,
direttore
della
corsa,
contro
ogni
regola,
porse
a
Guerra
un
pacco
di
biscotti:
luì
li
mangiò
tutti
d’un
fiato
e fu
in
grado
di
terminare
la
tappa.
Binda
protestò
ma
rimase
alla
fine
in
gara.
Il
“fattaccio”di
quel
Giro
si
consumò
nella
tappa
con
arrivo
a
Roma:
a
400
metri
dal
traguardo,
con
lo
sprint
già
lanciato,
Guerra
cadde
rovinosamente
ferendosi
in
tutto
il
corpo;
il
mantovano
accusò
proprio
Binda
di
avergli
rifilato
una
gomitata
per
metterlo
fuori
dai
giochi.
Guerra
si
ritirò
e
con
lui
tutta
la
sua
squadra,
la
Maino,
in
segno
di
protesta.
Quasi
superfluo
dire
che
Binda
stravinse
quel
Giro,
il
quinto
per
lui.
Guerra
partecipò
anche
al
Tour
de
France
in
quell’annata,
cogliendo
ancora
un
secondo
posto
finale,
condito
da 5
successi
di
tappa.
Sarà
la
sua
ultima
volta
nella
grande
corsa
francese.
Il
1934
fu
un
anno
importante
nella
carriera
di
Guerra.
Quando
parte
il
Giro
la
sfida
è
sempre
la
stessa:
lui
contro
il
grande
Binda.
E la
locomotiva
stavolta
non
volle
proprio
sentire
ragioni:
dopo
la
prima
tappa
vinta
da
Camusso,
il
mantovano
inanellò
cinque
successi
consecutivi
indirizzando
la
corsa.
Il
grande
rivale
nel
frattempo
fu
costretto
al
ritiro
a
causa
di
una
caduta.
Una
piccola
crisi
lo
costrinse
a
cedere
la
rosa
a
Olmo,
ma
poi
fu
di
nuovo
un
monologo
con
altre
quattro
vittorie.
Poi
successe
un
episodio
che
è
rimasto
nella
storia
del
Giro
d’Italia:
una
crisi
improvvisa
del
campione,
durante
la
tappa
da
Firenze
a
Bologna.
Guerra
salì
sull’auto
dell’ammiraglia
e si
ritirò.
Subito
intervennero
i
direttori
della
corsa,
Cougnet
e
Colombo,
che
costrinsero
il
corridore
a
riprendere
la
bici
e
tornare
in
gara:
già
avevano
perso
Binda,
non
potevano
permettersi
di
non
avere
in
corsa
nemmeno
Guerra,
l’interesse
del
pubblico
sarebbe
calato
in
maniera
troppo
netta.
Non
si
saprà
mai
quanti
km
abbia
percorso
Guerra
in
macchina:
uno,
dieci,
venti.
Ma
arrivò
al
traguardo
di
Bologna,
perdendo
la
maglia
rosa
ma
restando
in
gioco.
Dopo
il
giorno
di
riposo
un
rinvigorito
Learco
vinse
la
cronometro
con
arrivo
a
Ferrara
riprendendosi
la
leadership,
che
terrà
fino
a
Milano,
cogliendo
finalmente
il
suo
primo
(e
unico)
successo
al
Giro
d’Italia.
Sul
finire
di
quell’anno,
conquistò
anche
il
Giro
di
Lombardia
e la
seconda
piazza
al
Mondiale
di
Lipsia,
battuto
in
volata
dal
belga
Kaers.
In
quella
stagione
il
corridore
lombardo
vinse
ben
23
corse,
record
che
rimase
imbattuto
per
tantissimi
anni
(detenuto
oggi
da
Merckx
e
Maertens
con
54
successi).
Fu
l’anno
migliore,
dopo
iniziò
il
fisiologico
declino.
Disputò
una
buona
annata
nel
1935
(a
33
anni),
vincendo
cinque
tappe
al
Giro,
giungendo
però
solamente
quarto
al
traguardo
finale.
Vincerà
l’ultima
tappa
al
Giro
nell’edizione
del
1937,
arrivando
così
a un
totale
di
31
vittorie
nella
corsa
rosa:
tantissime
in
rapporto
ai
Giri
disputati.
Correrà
fino
al
1940
per
poi
appendere
la
bici
al
chiodo,
restando
però
sempre
in
ambito
ciclistico.
Fu
infatti
commissario
tecnico
della
nazionale
italiana
nel
dopoguerra
e
vinse
ben
quattro
Giri
da
direttore
sportivo,
portando
a
correre
in
italia
Hugo
Koblet,
primo
straniero
a
trionfare
nella
corsa
rosa
nel
1950
o il
grande
“Angelo
della
montagna”
Charly
Gaul,
vincitore
nel
1956
e
1959.
Allenò
anche
Vittorio
Adorni
e
stava
per
allenare
Gianni
Motta,
che
doveva
compiere
il
passaggio
dai
dilettanti
ai
professionisti,
ma
non
fece
in
tempo.
Prima
di
compiere
61
anni
fu
infatti
sconfitto
da
un
avversario
duro
che
non
riuscì
a
battere,
pur
lottando
con
tutto
le
sue
forze
come
aveva
fatto
tante
volte
in
sella
a
una
bici:
una
lunga
volata
durata
anni
contro
una
brutta
malattia,
che
non
gli
diede
scampo.
Il
morbo
di
Parkinson
lo
uccise,
il 7
febbraio
del
1963,
a
Milano.
Oggi
Learco
Guerra
riposa
nel
cimitero
monumentale
di
Mantova,
ma
resta
ancora
vivo
nella
memoria
dei
suoi
concittadini,
e in
quella
degli
appassionati
di
ciclismo
di
tutta
Italia.