N. 16 - Aprile 2009
(XLVII)
Le classiche del
nord
Ciclismo da pionieri
tra fango e pavé
di Simone Valtieri
Per gli sport “da
stagione”, cioè quelli che si praticano all’aperto e che
sono dunque altamente sconsigliati nei mesi freddi,
l’avvento della primavera coincide sempre con l’inizio
dell’attività agonistica.
Nel ciclismo in
particolare, aprile rappresenta un periodo cruciale: in
questo mese si disputano ben tre delle cinque cosiddette
“classiche monumento”, le corse in linea più
prestigiose.
Si comincia a marzo con il
gustoso antipasto della Milano-Sanremo; si continua ad
aprile spostandosi nel nord Europa con, in rapida
successione, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix e
Liegi-Bastogne-Liegi; si termina ad ottobre tornando in
Italia con il Giro di Lombardia.
Molte delle pagine più
intense della leggendaria storia del ciclismo, sono
state scritte sulle strade di queste corse, tra mari e
montagne, boschi e colline, sterrati e velodromi. Ma se
nel caso delle gare italiane si tratta di due prove su
strada, per quanto riguarda le corse nordiche non è
sempre corretto definire “strade” gli itinerari da
percorrere.
Il ciclismo, al tempo dei pionieri, si svolgeva
esclusivamente su sterrati accidentati, pieni di buche e
tratti sconnessi, tra fango e polvere per centinaia e
centinaia di chilometri.
Nel ciclismo di oggi le
“classiche del nord” sono rimaste gli unici appuntamenti
dal sapore così intensamente “antico”, in cui si
gareggia, spesso in balìa degli eventi meteorologici,
sugli stessi tragitti di allora.
E’ il caso del “Fiandre”,
della “Roubaix”, della “Liegi” ma anche della Freccia
Vallone e della Gand-Wevelgem, in sostanza di tutte
quelle corse di primavera che si svolgono tra Francia e
Belgio.
La più antica di tutte è la Liegi-Bastogne-Liegi, nata
nel 1892 e per questo conosciuta anche come la “doyenne”
(la decana). Organizzata all’inizio come una prova
generale della mai realizzata Liegi-Parigi-Liegi, vedrà
come vincitore delle prime tre edizioni il belga Leon
Houa.
Una pausa di quattordici
anni precederà poi la quarta edizione. Si riparte dunque
nel 1908 con la vittoria del francese Trousselier, il
primo non belga ad affermarsi nella prova che diventa da
qui in avanti un appuntamento fisso di inizio stagione.
Il percorso, molto
movimentato, si sviluppa tradizionalmente con andata e
ritorno su due tracciati differenti tra Liegi e la
cittadina di Bastogne, al confine col Lussemburgo, nelle
profonde valli delle Ardenne scavate dal fiume Ourthe e
dai suoi affluenti, ed è caratterizzato dalle classiche
côtes, i continui strappi disseminati lungo il percorso.
Più nel dettaglio, i circa 260 chilometri di percorso
sono suddivisi in una prima parte rettilinea di 95
chilometri da Liegi a Bastogne e in un movimentato e
ventoso secondo tratto di saliscendi per le colline
belghe.
La côte più conosciuta è
senz’altro quella della Redoute, dove molte volte si è
decisa la corsa: una salita di 2,2 chilometri con
pendenza media attorno al 7,5% e mostruosi picchi di
oltre il 22%. Altre durissime salite sono la côte de
Stockeu (11,6% di pendenza media), il Saint Roch
(11,2%), l’Haute Levée (lunga 3,4 chilometri), lo
Sprimont, la Roche-aux-faucons (La “Rocca dei falchi”
con pendenza media del 10%) e il Saint Nicolas (11%),
che rappresenta l’ultima asperità prima di arrivare ad
Ans, sobborgo a nord di Liegi dov’è posto il traguardo.
La “Liegi”, dominata dai ciclisti di casa fino a circa
la fine degli anni ‘70, è stata recentemente
soprannominata “la corsa degli italiani” con un
molteplice significato. In primis perché proprio a Liegi
e nelle zone circostanti è da tempo presente una delle
più grandi comunità di nostri connazionali nel mondo che
ogni anno affollano il percorso tingendo col tricolore
le colline delle Ardenne.
In secondo luogo perché
negli ultimi decenni i ciclisti italiani hanno
conseguito ben undici dei loro dodici successi
complessivi nella storia ultracentenaria della
manifestazione, grazie a campioni del calibro di Silvano
Contini, Moreno Argentin (tre successi consecutivi e
quattro totali), Michele Bartoli, Paolo Bettini, Davide
Rebellin e Danilo Di Luca.
Curiosamente la prima
vittoria azzurra nella manifestazione, datata 1965,
arriva proprio grazie ad un emigrante, l’avellinese
Carmine Preziosi, sin da piccolo trapiantato in Belgio.
Storiche sono tre edizioni della “Liegi” (1919, 1957,
1980) disputatesi in condizioni proibitive con
bassissime temperature e tanta neve sul tragitto.
Nel 1957, tra l’altro,
avvenne un episodio più unico che raro e la vittoria
finale fu attribuita pari merito a due concorrenti: il
belga Germain Derijcke aveva vinto la corsa distanziando
di circa tre minuti il connazionale Frans Schoubben.
Derijcke aveva però tagliato il percorso, forse
involontariamente, con un guadagno di qualche centinaio
di metri sugli avversari. In virtù del cospicuo margine
con cui era però giunto sul traguardo, la giuria decise
di non squalificarlo ma di affiancargli sul podio il
secondo arrivato Schoubben.
Nel 1980 la massa
imponente di neve caduta sul percorso spinse un
commentatore a ribattezzare ironicamente la corsa
“Neige-Bastogne-Neige” (Neve-Bastogne-Neve).
L’edizione fu poi vinta
con un’epica fuga da Bernard Hinault che scappò a 80
chilometri dall’arrivo e giunse solitario con oltre 10
minuti sul secondo. Hinault vincerà la corsa per due
volte, meglio di lui faranno il belga De Bruyne con tre,
Moreno Argentin con quattro e il leggendario Eddy Merckx
con cinque affermazioni.
Quattro anni dopo la “Liegi” nasce quella che oggi è
forse la classica più prestigiosa: la corsa di Pasqua
(per via della frequente coincidenza con la ricorrenza
religiosa), la “dure des dures” (la dura delle dure),
l’inferno del nord, la regina delle classiche. Insomma,
la Parigi-Roubaix. Nata nel 1896, è considerata la più
massacrante prova in linea del ciclismo moderno.
Lunga oggi circa 260
chilometri, presenta, soprattutto nella parte finale,
dei durissimi tratti in pavé, una tipica pavimentazione
del nord Europa realizzata con ciottoli tondi e cubi di
porfido assimilabili ai nostrani “sampietrini”. Tale
pavimentazione irregolare fa si che le rotture dovute ai
sobbalzi, le forature e le cadute siano frequentissime e
spesso per vincere ci si deve affidare anche alla
fortuna. I tratti in pavé sono disseminati lungo stretti
sentieri che attraversano i boschi e che costringono i
corridori a disporsi in fila indiana utilizzando spesso
le sottili strisce sterrate ai lati della pavimentazione
al fine di evitare i sobbalzi.
Con qualsiasi tipo di clima la si affronti, la
“Parigi-Roubaix” risulta essere una corsa proibitiva.
Nei giorni di sole l’aria secca, mista alla polvere
alzata dal gruppo, entra nei polmoni dei corridori
rendendo difficile la respirazione. Nei giorni di
pioggia va addirittura peggio, visto che le strette
lingue sterrate ai bordi del pavé diventano un immenso
pantano e i ciclisti, per non cadere, sono costretti a
percorrere chilometri sul lastricato reso scivoloso
dall’acqua, arrivando al traguardo ricoperti di fango
dalla testa ai piedi.
Definita “inumana” da
Bernard Hinault, che per anni si rifiuterà di correrla,
prima di vincerla nel 1981, la “Roubaix” è una corsa
adatta ai passisti e ai ciclisti più potenti.
Il percorso si sviluppava in passato da Parigi a Roubaix,
una cittadina al confine con il Belgio, in un paesaggio
boschivo caratterizzato anche da nere colline
artificiali formate da residui minerari di carbone.
Dal 1968, per ridurre il
chilometraggio della corsa, una volta superiore ai
trecento, si è deciso di partire dal centro abitato di
Compiègne, a 70 chilometri dalla capitale francese.
L’arrivo è storicamente posto all’interno del velodromo
di Roubaix, utilizzato in occasione della prima edizione
della manifestazione, voluta da Théodore Vienne, un
industriale tessile nativo della cittadina francese,
proprio per inaugurare l’impianto.
Caratteristici della corsa sono, come detto, i lunghi
tratti in pavé, la cui difficoltà è indicata con un
sistema che va da una stellina per un tratto facile fino
alle cinque dei tratti più difficili. Il segmento più
famoso è senza ombra di dubbio quello che passa dalla
foresta di Aremberg: un interminabile rettilineo di due
chilometri e quattrocento metri in cui si viaggia in
fila su un fondo durissimo tra due ali sterminate di
folla.
Altri due tratti a cinque
stelle di difficoltà sono il “Mons en Pévèle” e
soprattutto il “Carrefour de l’Arbre”, dove spesso si
decide la corsa. L’Aremberg, scoperto dal ciclista
francese Jean Stablinski nel 1967, è comunque il tratto
più significativo, difficile e celebre della prova, che
non fu percorso solo nel 2005 a causa di lavori di
restauro.
La progressiva scomparsa di questa caratteristica
pavimentazione nel nord della Francia ha messo a serio
rischio, nel corso degli ultimi anni, la sopravvivenza
della manifestazione. Il problema è stato risolto
dichiarando monumento nazionale alcuni tratti storici
del percorso, con il conseguente divieto di alterarli.
Nell’abitato di Roubaix, a
poche centinaia di metri dal velodromo, è stato
recentemente costruito un tratto rettilineo in pavé
dedicato a Charles Crupelandt, unico vincitore della
gara nativo della cittadina francese.
Sulle dissestate strade della corsa hanno vinto campioni
leggendari del calibro di Coppi, Merckx e De Vlaeminck,
(il più vittorioso con quattro affermazioni) ma la gara,
data la sua particolarità, è da sempre stata terreno di
caccia per passisti e specialisti, come gli italiani
Francesco Moser (tre vittorie consecutive) e Franco
Ballerini, l’irlandese Sean Kelly, il francese Gilbert
Duclos-Lasalle, e i belgi Rik Van Looy, Tom Boonen e
Johan Museeuw. Proprio quest’ultimo darà un’interessante
definizione della Roubaix: “E’ un rodeo. Un rodeo dove
tutto trema”.
Nel 1913 Karel Van Wynendale, giornalista sportivo
fondatore del giornale Sportwereld, ha l’idea di
promuovere una competizione con lo scopo di ridare
vigore e popolarità al ciclismo nella parte fiamminga
del Belgio, quella di lingua olandese.
Nasce così il Giro delle
Fiandre o più correttamente “Ronde van Vlaanderen”,
quella che forse è oggi la più popolare, dura e
importante corsa ciclistica del Belgio. L’iniziativa di
Van Wynendale rappresenta il primo caso, nel nord
Europa, di un giornale sportivo che organizza una
manifestazione ciclistica.
Era stata precorritrice in
questo senso la Gazzetta dello Sport, già artefice della
nascita nel 1909 del Giro d’Italia e oggi quotidiano che
ha dato i natali a una competizione di stampo nordico
(su sterrato e ciottoli) che si svolge dal 2007 in
Toscana, la “Strade Bianche”.
L’edizione inaugurale del “Fiandre” viene vinta dal
belga Paul Deman. Da quell’edizione fino al secondo
dopoguerra, la concomitanza con la Milano-Sanremo fece
sì che nell’albo d’oro della manifestazione
comparissero, con la sola eccezione dello svizzero Heiri
Suter nel 1923, solamente atleti belgi.
Questo perché svolgendosi
entrambi gli eventi nella prima domenica di aprile, e i
ciclisti francesi e italiani erano più propensi a
correre la “classicissima” di Sanremo piuttosto che il
difficile giro fiammingo. Inoltre nelle prime edizioni
questa giovane gara nordica non rappresentava una
competizione di primo piano.
Solo nel 1948, con la
decisione di inserire la corsa tra le tappe del primo
circuito professionistico, il cosiddetto
“Desgrange-Colombo” organizzato da quattro tra i
maggiori quotidiani sportivi europei (L’Equipe, la
Gazzetta dello Sport, Sportwereld e Les Sports), il Giro
delle Fiandre acquisterà grande popolarità.
Il durissimo percorso tocca i più importanti centri
della regione fiamminga, come Gand e Bruges (Gent e
Brugge in lingua olandese) ed è caratterizzato da
un’infinità di brevi asperità spesso in pavé, detti
“muri”.
Tra questi secchi strappi
di poche centinaia di metri, i più celebri sono il
Koppenberg (reintrodotto solo nel 2008 dopo che per
alcuni anni era stato escluso dal tragitto), il
Kwaremont, il Bosberg e soprattutto il Geraardsberg,
meglio noto in lingua francese come il Grammont e ancora
più noto come “il muro” per antonomasia.
L’arrivo è posto dopo
oltre 250 chilometri di fatiche, nella cittadina di
Meerbeke, a poca distanza dal Bosberg, che risulta
essere spesso il tratto su cui si decide la corsa.
Nell’albo d’oro spiccano ben 65 affermazioni belghe,
seguite da dieci italiane e nove olandesi. Tra gli
azzurri vi è colui che è stato soprannominato il “Leone
delle Fiandre”, ossia il toscano Fiorenzo Magni, che
riesce dal 1949 al 1951 nella storica impresa di
aggiudicarsi per tre volte consecutive la classica
fiamminga.
Dopo di lui sono sette i
suoi connazionali ad affermarsi in terra belga: Dino
Zandegù, Moreno Argentin, Gianni Bugno, Michele Bartoli,
Gianluca Bortolami, Alessandro Ballan e Andrea Tafi,
che, a proposito della gara, afferma: “Solamente i
corridori al top della condizione possono dire che
questa corsa è difficile, per gli altri è una vera e
propria via crucis”.
Oltre alle tre “monumento”, nello stesso mese di aprile
si disputano tradizionalmente altre due classiche,
considerate per certi versi nipoti del “Fiandre” e della
“Liegi”: La Gand-Wevelgem e la Freccia Vallone.
La prima, che risale al
1934, parte dalla cittadina fiamminga di Gent (Gand è il
nome francese) e termina, dopo duecento chilometri, a
Wevelgem. Presenta come asperità fondamentale la
durissima salita del Kemmel, un tratto di un chilometro
in pavé con pendenze micidiali, che è però anche l’unica
notevole difficoltà del percorso.
Considerata come un
“Fiandre” meno impegnativo, la corsa risulta spesso
essere appannaggio dei velocisti, una sorta di
Milano-Sanremo del nord. Tra i plurivincitori si
ricordano dunque nomi come Robert Van Eenaeme, Rik Van
Looy, Eddy Merckx e Mario Cipollini, tutti con tre
vittorie a testa.
Più blasonata è la Freccia Vallone, o Flèche Wallonne.
Nata nel 1936 da un’idea di due giornalisti di Les
Sports, si svolge in genere qualche giorno prima della
Liegi-Bastogne-Liegi tra le strade delle Ardenne.
Nonostante numerosi cambi di percorso, con partenze da
Mons, Charleroi, Marcinelle, Verviers, Huy e Spa, la
Freccia Vallone mantiene comunque alcune caratteristiche
ricorrenti: si svolge sulla distanza di circa duecento
chilometri, e, come la “mamma Liegi”, presenta una serie
di salite la più dura delle quali è il famoso “muro di
Huy”, lungo solo 800 metri ma da ripetere ben tre volte
e con pendenze che arrivano al 23%.
Al termine della terza
ascesa è posto il traguardo finale, che nella storia
premia per 37 volte i colori belgi e per ben 17 volte
quelli italiani. E italiano è stato il primo vincitore
straniero, Fermo Camellini, nel 1948, così come pure
italiano è stato uno dei più vittoriosi, Moreno Argentin
con tre successi, al pari dei belgi Eddy Merckx e Marcel
Kint.
La Freccia Vallone è disputata come prova generale per
la “Liegi” da quasi tutti i corridori iscritti alla
“decana”, visto che si svolge su percorsi limitrofi e
molto simili.
Inoltre, insieme alla più
blasonata sorella, ha formato per molti anni il celebre
“weekend delle Ardenne”, una coppia di prove prestigiose
in cui sono riusciti ad affermarsi solo sei corridori:
lo svizzero Ferdi Kubler, i belgi Stan Ockers ed Eddy
Merckx, gli italiani Moreno Argentin e Davide Rebellin e
lo spagnolo Alejandro Valverde.
Queste classiche di primavera rappresentano per molti
ciclisti professionisti, soprattutto per quelli
specializzati nelle corse in linea, l’obiettivo principe
della stagione.
Per tutti, però, vincere
un “Fiandre”, una “Roubaix” o una “Liegi” rappresenta il
risultato da rivendicare con orgoglio per tutta la vita.
Forse proprio per il
metaforico parallelismo che esiste tra una corsa così
dura e l’esistenza stessa, dove mille sono le difficoltà
da superare come i muri del “Fiandre” e le “côtes” della
Liegi o dove l’imprevisto si annida dietro l’angolo,
come sui tratti in pavé della “Roubaix”.
Riuscire ad emergere da
situazioni così difficili equivale a un successo doppio.
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