N. 12 - Maggio 2006
CHE SI MANGIAVA NELL'ANTICA RUS'?
Una visita
storica nel mondo contadino antico russo
di
Aldo
Marturano
Che
cosa è il cibo? Per l’uomo è senza dubbio tutto quello
che lo può saziare o comunque allentargli i morsi
della fame. Non solo. Una semplice osservazione può
bastare a farci capire che l’uomo non ha niente di
definito in mente, di geneticamente istintivo, per
quanto riguarda la scelta di forma o l’aspetto (e
persino per quanto concerne il sapore.), quando va
alla ricerca di cibo.
La realtà e la storia ci hanno insegnato che, a
parte tutti i pregiudizi impostici dalla
cosiddetta “buona educazione” o suggeritici
dall’ossessionante pubblicità, in caso di fame
“impellente”… si mangia di tutto.
Chi
non ha sentito raccontare di casi estremi di questa
“spinta fisiologica” chiamata fame, che durante il
famoso “assedio di 900 giorni di Leningrado” nel 1945,
tanto per ricordare una storia russa più recente,
costrinse la gente, non avendo altro a disposizione, a
mangiare persino la… carta da parati.? Chi non
ha sentito parlare di cannibalismo necessario per
sopravvivere a quei passeggeri salvatisi sulle Ande i
quali restarono in vita soltanto mangiando i cadaveri
dei propri compagni? In altre parole, l’uomo pur di
sopravvivere è sempre disposto ad accontentarsi di
quello che è possibile “mettere sotto i denti”, è
disposto a porre sulla propria tavola prodotti molto
diversi dai soliti purché si estingua quel “maledetto”
stimolo… ovunque e comunque.
Un
esempio probante e recente è questa ricetta che risale
al tempo di Luigi XV, re di Francia nel XVIII sec., e
che costituiva il cosiddetto “pane della carestia” di
cui i poveretti si dovevano accontentare nei tempi
duri.
“Si
prenda un pugno o due di terra finissima,o, se si
preferisce, di quella sabbia bianca e sottile che
rallegra molte sponde marine del nostro continente; si
raccolga a piacere lungo pascoli e prati, dell’erba
trifogliata o tremolino; s’impasti con acqua e un po’
di farina, di quella nera, beninteso, di grano
saraceno, si metta il tutto a cuocere sotto la cenere
calda e, se possibile, dentro la bocca rovente di un
forno.”
Che
ne dite? Ne mangereste oggi? L’archeologia,
logicamente., ha trovato prove concrete di queste
situazioni estreme in tutto il mondo e in tutte le
epoche.
Dai
reperti abbiamo conferma che l’uomo ha mangiato
animali crudi come le cozze o mitili dai
mucchi enormi delle valve gettate via dopo il consumo
del mollusco trovati nel nord Europa. Sappiamo che ha
mangiato persino rane e rospi oltre a lumache e a
larve di coleotteri.
Tuttavia non è tutto così semplice. La magia e la
religione, le differenze di classe nella società in
cui si vive ed altri motivi impongono il rifiuto o
l’impedimento a nutrirsi di certi cibi invece che di
altri, tanto da portare l’uomo alla morte per inedia
pur di non contravvenire a quanto ci è stato insegnato
ed inculcato da bimbi dai nostri genitori. Si pensi al
divieto di mangiare carne di porco vigente in alcune
società umane o il ribrezzo che si prova mangiar
lumache o uova ammuffite o occhi di animali, se non
proprio carne umana…
Soprattutto però, ed è quel che attira maggiormente la
nostra curiosità, l’uomo si ciba da sempre, e
prevalentemente, di piante. Diremmo già che è logico
per degli animali silvicoli quali sappiamo essere noi
stessi, ma per lo storico sono sicuramente le piante
che hanno lasciato le loro tracce quale cibo umano più
antico. Appartenenti alle più diverse specie, a
seconda del clima e della reperibilità, addirittura
alcune di esse sono diventate talmente indispensabili
per la vita, da doverle conservare sotto forma di semi
da ripiantare come corredo funebre per il cadavere del
congiunto affinché costui possa continuare a “vivere”
nell’Aldilà. Persino il portar fiori alle tombe sono
un residuo odierno di questo antico uso funerario di
portare piante ai morti.
E’
chiaro che l’uomo ha imparato a sperimentare (e
sperimenta) la coltivazione di sempre nuove piante
(come pure, ma meno, la selezione di nuove razze
animali) affinché gli servano da cibo, in sostituzione
della caccia, ad esempio, quando questa non è
praticabile. Gli animali in particolare quali nostri
simili sono stati osservati da dall’uomo con molta
attenzione giacché, proprio attraverso i loro
comportamenti, ci dicessero se una pianta o un altro
animale poteva essere mangiato senza pericolo. Alcuni
di questi poi li abbiamo domati e selezionati affinché
vivano a noi vicini, sempre allo stesso scopo: il
gatto, il cane, gli uccelli da voliera…
Quando certe piante non erano appetibili per l’uomo,
ecco che l’uomo ha inventato gli animali
d’allevamento. Delle macchine viventi che trasformano
le piante che noi non sappiamo mangiare in cibo più
accettabile per il nostro palato, ma… guai se questi
animali si azzardano a toccare quelle piante che noi
invece mangiamo con piacere. Perciò i grossi erbivori
li abbiamo visti addirittura come nostri accaniti
concorrenti. E allora non ci restava che o abbatterli
o addomesticarli affinché si trasformassero in riserve
di cibo…
E in
seguito l’uomo non si è fatto neppure scrupolo, nei
momenti di strettezza, di cibarsi della roba andata a
male visto che altri animali riuscivano a mangiarla.
Anzi da questo cibo avariato l’uomo diventato ora un
cuoco sopraffino ha preparato intrugli inverosimili e
ne ha fatto salse, condimenti, spezierie, oggi come
ieri, ed ha insaporito il solito pasto giornaliero
attraverso una nuova cultura del cibarsi. E qui
fantasia e necessità hanno trovato spesso un giusto
connubio ed è stata inventata l’arte culinaria e
l’industria della trasformazione alimentare.
E
stiamo attenti. Le piante (come anche alcuni animali)
contengono molecole dannose per l’organismo umano.
Queste molecole vengono chiamate comunemente veleni,
ma in realtà nella stragrande maggioranza dei casi è
la quantità ingerita che rende velenoso un vegetale
che finora abbiamo apprezzato. Un esempio? Il
prezzemolo. Se sparso o cotto in piccole quantità
esalta o aggiunge dei sapori al nostro cibo, ma
provate a bere in una volta sola un infuso di mezzo
chilogrammo di questa preziosissima erba. Ne sarete
avvelenati mortalmente.
Dunque la ricerca e la scelta delle piante per farne
cibo richiede una grandissima e antichissima
esperienza che, per fortuna, abbiamo ormai accumulato
a sufficienza nei millenni passati per riuscire a
distinguere cibo da cibo.
Guai
poi a pensare che l’uomo mangi solo prodotti solidi o
semisolidi, perché tutti noi sappiamo che i prodotti
liquidi o le masse pastose sono i cibi preferiti dal
nostro palato perché più facilmente ingeribili, specie
quando si tratta di bambini o di vecchi sdentati, ma
soprattutto perché spargendosi immediatamente sulle
nostre papille gustative, rapidamente ci catturano col
loro sapore.
Stiamo naturalmente parlando di cibo, non di alimenti.
Quest’ultima parola infatti significa tutt’altro, a
rigor di termini, benché gli alimenti si identificano
di solito con la roba da mangiare.
Il
cibo però non sempre è percepito come prodotto pronto
per il consumo immediato una volta estratto dalla
natura circostante perché a volte ci si è accorti che
con qualche mirata manipolazione possiamo migliorarne
aspetto e sapore e l’archeologia ci offre la
possibilità di conoscere i diversi modi in cui queste
manipolazioni erano eseguite. Ed ecco perché i reperti
sono riconoscibili non soltanto crudi, ma anche
cotti , spezzettati o mescolati in
poltiglie più o meno dense con vari altri
ingredienti.
Quando poi l’uomo ha capito che certi prodotti si
trovavano in maggior quantità in certi luoghi che non
in altri, in certi periodi dell’anno e quindi non
sempre, si è anche ingegnato, con il lavoro personale
e con l’esperienza ripetuta, a riprodurre circostanze
e condizioni necessarie e sufficienti affinché quella
pianta o quell’animale si rendesse di nuovo
disponibile per il consumo umano nello stesso luogo e
così fosse agevolmente appropriabile (origine delle
coltivazioni e dell’allevamento).
Abbiamo detto l’uomo, ma in realtà l’invenzione
dell’attività per produrre cibo è dovuta quasi
sicuramente alle osservazioni giornaliere della
donna, per la quale questa ricerca, la
preparazione per rendere i prodotti più mangiabili o
per conservarli erano faccende importantissime quando,
ad esempio, era incinta o aveva dei bimbi da allevare
o dei vecchi da assistere.
Benché oggi tutto questo ci sembra lontanissimo nel
tempo ed ormai superato dai servizi moderni da quando
compriamo da mangiare nel supermercato o manteniamo in
vita un malato con le fleboclisi, in realtà la ricerca
del cibo non è assolutamente cessata. Anzi. A livello
planetario, è diventata più rozza e più spietata per
coloro che hanno fame, e sono milioni., al di là dei
confini del nostro mondo dorato e sterilizzato. Di
tanto in tanto queste masse affamate ci saltano negli
occhi inquadrati dalla cruda TV quando questa indugia
in zone dove vivono popoli distrutti dalla guerra,
dalla carestia, dai terremoti, dal “sottosviluppo” e
dai nostri supermercati che… comprano il meglio per
noi e lasciano il peggio agli altri.
Fatte queste doverose considerazioni dobbiamo però
volgere il nostro interesse al Medioevo e,
allora, la prima domanda che dobbiamo porci è: Che
cosa sappiamo della produzione di cibo durante quell’epoca?
E non solo. Dobbiamo anche chiederci: Esiste un
Medioevo Russo simile a quello occidentale
europeo?
Gli
storiografi sovietici avevano già evitato questo
termine, Medioevo, e lo avevano inglobato nella
più generale storia del modo di produzione delle merci
e delle derrate col termine Feudalesimo. Senza
volere entrare in discussioni tecniche su questioni
storiografiche, noi abbiamo preferito per semplicità
chiamare il periodo che ci interessa semplicemente
Medioevo Russo. Aggiungiamo soltanto che questa
parte della storia europea ha dei cicli propri. Essi
partono da una data tramandataci esclusivamente dalle
Cronache Russe identificata con la chiamata di Rjurik
dalla Svezia, poco dopo la prima metà del IX sec.. e
questa data è fissata come inizio convenzionale della
storia russa. Ogni ciclo storico poi si chiude per suo
conto, a seconda della regione della Pianura Russa
coinvolta, fino all’ultimo che finisce nel XV sec.
nella Russa Moscovita.
Più
in generale si può dire che la storia medievale russa
si conclude definitivamente con l’estinzione della
famiglia discendente da quel Rjurik, nominato sopra, e
cioè con l’uccisione del figlio di Giovanni IV di
Mosca detto il Terribile.
Per
quel che ci riguarda, ci muoveremo quasi sempre fra i
sec. X e XIII.
Abbiamo detto che i produttori diretti di cibo sono
gli smjerdy e li abbiamo visti erigere il loro
villaggio ed organizzarsi per mettersi lavoro nei
campi.
Se
guardiamo già al capofamiglia, al ciur,
osserviamo che costui impersona non solo la guida vera
e reale della colonizzazione che si va sviluppando, ma
è anche il giudice delle liti, il sacerdote
conservatore della tradizioni del gruppo famigliare,
il legislatore, colui che mantiene le relazioni
esterne con gli altri gruppi. Per queste ragioni non
ha più tempo per partecipare con le sue proprie mani
al lavoro, ma ha acquisito il diritto di essere
servito dai componenti più giovani.
In
realtà però il ciur, quale custode del
patrimonio terriero dal quale dipende la vita di tutto
il gruppo famigliare, ha anche il dovere “economico”
attraverso varie proibizioni e concessioni di non
frammentare la proprietà del mir.
Ad
esempio, non lascia che i ragazzi si sposino in età
troppo precoce, in questo modo impedendo loro di
costituire una nuovo gruppo famigliare “concorrente”,
governa il numero di figli da mantenere, quando
(sempre tenendo presente la mortalità perinatale
altissima) impedisce che questi aumentino e portino
troppe “bocche da sfamare” nell’economia del gruppo e
quindi cede i bimbi appena puberi alla vendita in
schiavitù o li manda in servitù lontano da casa e
alleggerendo il carico economico del suo gruppo.
Pratiche comuni ancora oggi…
Per
questi motivi ancora a questo stadio il ciur
non è un dispotico padre-padrone, ma si mostra come il
modello di giustizia e di equità che ogni componente
del suo gruppo dovrebbe imitare nella sua vita e
dunque non è ancora guardato come lo sfruttatore del
lavoro altrui (ed infatti ancora non lo è.), ma come
l’unica persona di riferimento di tutta la comunità.
D’altra parte tutti quelli che lo circondano sono
carne della sua carne, compresi i figli adottivi e le
loro mogli e i loro figli e… persino gli eventuali
famigli.
E’
chiaro che la poca mobilità e la necessità di buoni
rapporti di vicinato con le altre comunità vicine o
lontane a poco a poco fanno eccellere un
capo-villaggio su tutti gli altri e costui (e quindi
anche colui che da questo sarà designato a succedergli
o al quale avrà trasmesso le sue conoscenze) assume
una nuova posizione di preminenza che evolverà
ulteriormente.
Perché è importante soffermarci su queste questioni?
La risposta è semplice. Prima di tutto stiamo parlando
di cibo e il ciur deve fare in modo che quanto
si produce in cibo basti per tutto il gruppo. In
secondo luogo, la stratificazione in classi della
società primitiva slava, quando sarà ormai evidente,
porterà alla differenziazione delle abitudini e
gradualmente anche a quella dei cibi da consumare ogni
giorno e il ciur dovrà tenerne conto.
Nel
caso slavo orientale c’è un vantaggio in più per lo
storico ed è quello, a nostro avviso, che l’élite
al potere, a causa della superiorità della cultura
slava portata dai migranti nella Pianura Russa, si
sentiva autorizzata a propagandare (e questo fino ai
tempi dell’URSS) questa cultura come l’unica da
imitare rispetto a quelle degli altri popoli che gli
Slavi andavano man mano incontrando, soprattutto forse
imponendo le proprie abitudini alimentari.
Successivamente con l’introduzione del Cristianesimo e
infine per l’isolamento quasi voluto dalla Rus’ di
Kiev dall’Occidente, questa cultura dell’élite
al potere consacrerà sempre più caparbiamente una sua
supposta origine contadina, specie nella cucina e nei
cibi, rispetto a quanto invece non farà la nobiltà
polacca, ad esempio.
Alla
fine di tutto questo discorso possiamo affermare che
dopo il famoso Battesimo di Kiev, si delineeranno due
culture del cibo ben distinte: una cittadina che si
avvicinerà molto a quelle occidentali dello stesso
periodo, ma non troppo, ed una rurale, campagnola, che
si chiuderà quasi in se stessa impaurita di sparire o
di essere inghiottita da quella dominante e soffocante
della città. Sarà questa parte della Rus’, tutta
occupata a difendere le proprie tradizioni e i propri
costumi, che si opporrà a qualsiasi ingerenza esterna.
E
dunque avremo due tipi di consumo alimentare diversi.
Sicuramente un segno subito riconoscibile di
distinzione fra i due consumi, come lo fu per tutta
l’Europa del tempo (e dura fino ai nostri giorni nel
mito della bistecca quanto più grande e più grossa si
può.), era il mangiar carne, intesa come la carne dei
grandi erbivori, da parte dell’élite al potere.
Fermiamoci un momento su questo punto.
Come
noi sappiamo, dal nord e da tutta la Pianura Russa un
articolo di esportazione molto comune era (ed è ancora
oggi) le pellicce pregiate dei vari animali carnivori
di piccola e media taglia accalappiati con le trappole
nella selva, per cui, una volta spellati, le loro
carcasse erano sicuramente lasciate frollare e poi
mangiate. Per di più il contadino allevava il porco e
quindi anche questo animale veniva poi consumato come
cibo. Ma chi avrebbe mai ucciso il proprio cavallino
per mangiarlo? Chi avrebbe preferito divorare questo
volenteroso aiutante nel lavoro dei campi d’ogni
giorno? Era considerato nel linguaggio comune “mangiar
carne” solo quando si uccidevano come preda di caccia
e poi si macellavano o un grosso uro o un alce o altro
animale di simile taglia poiché questi “nobili”
animali rappresentavano l’idea del cibo riservato al
re, al signore o al padrone. Non per niente la gotta
era una delle malattie più comuni dell’élite.
Dunque carne per i nobili e granaglie
per i sudditi…
Ed
ecco le prime informazioni raccolte da un viaggiatore
musulmano (Ibn Rusté.) che ci segnala quali
fossero prevalentemente i cereali consumati dagli
Slavi Orientali.
“Gran
parte delle loro seminagioni sono di miglio. Al
raccolto i semi raccolti in cucchiaioni di legno
vengono sollevati verso il celo ed essi dicono: O
signore, che finora ci hai fornito il cibo, anche
adesso daccene in abbondanza.”
Il
miglio, nella sua varietà Panicum proso,
era un cereale molto diffuso nella zona slava d’Europa
e molto apprezzato se si chiedeva alla divinità di
darne sempre di più. Il miglio (proso in
russo) in realtà è uno dei cereali più diffusi
dell’antichità e non ci fa neppure meraviglia che
Ibn Rusté lo abbia notato anche qui.
A
parte ciò, il miglio ha chicchi piccolissimi, anche se
numerosi per ogni spiga, ha bisogno di terreno
asciutto e di un clima secco di tipo continentale, e
questo rientra, benché con fatica., nelle condizioni
standard che noi troviamo in molte zone della Pianura
Russa, mantenendo le coltivazioni ad una certa
distanza dai fiumi. Per nostra fortuna, per il fatto
che Ibn Rusté sembra accennare ad una città dei
Croati dove si trova molto miglio, c’è una probabilità
che egli si riferisca proprio al bassopiano della
Podolia o della Volynia, ma non è sicuro.
Il
miglio solitamente era il primo cereale da piantare
dopo il taglia-e-bruci del terreno appena
scelto per la nuova colonizzazione. Prima perché
matura in breve tempo e poi perché resiste bene alle
notti fredde e quindi proprio durante il periodo in
cui abbiamo visto vagare la nutà slava alla
ricerca di terra nuova. Tuttavia, come nota bene M.
Deńbinska, i reperti archeologici hanno mostrato che
il miglio era coltivato in molte varietà in dipendenza
probabilmente dal suolo e dal clima locale. Il che
vuol dire che per gli Slavi la coltivazione di questo
cereale era irrinunciabile perché il miglio… era il
grano degli avi. Più o meno come sarebbero oggi
gli spaghetti per un italiano all’estero.
Che
cosa si poteva preparare dal miglio? Certamente, come
le altre granaglie (krupà), di solito si
consumava sotto forma di pappa (kascia) oppure,
impastandolo e poi cocendolo in modo blando, sotto
forma di pane (zhito), come si fa ancora oggi.
Pappa
di Miglio
(ricetta
medievale ridotta da Food and Drink in Medieval
Poland di Maria Deńbinska, Univ. of
Pennsylvania Press 1999, pag. 149)
Ingredienti:
Miglio triturato, piselli secchi, lardo di porco (o di
altro animale), cipolle, aglio, aceto di mele, erbe
aromatiche
Preparazione:
Si è avuta l’accortezza di mettere a mollo i piselli
almeno per una notte intera e solo l’indomani si
metteranno a cuocere in acqua salata. A parte si
prepara la polenta di miglio che occorre rimestare
continuamente mentre cuoce in acqua, aggiungendo acqua
se necessario. In un tegame intanto si fa sfriggere il
lardo con la cipolla finché entrambi non diventano di
color bruno. A questo punto i piselli, ormai cotti e
morbidi, vengono scolati e aggiunti alla polenta e
così si fa anche per il lardo sfritto e per la
cipolla. Si mescola il tutto e si serve con aggiunta
di erbe aromatiche sparse sulla pappa.
Tempo previsto:
ca. 40 min.
Addirittura la pappa di miglio la troviamo
persino immortalata nel famoso proverbio russo Sc’ci
i kascia piscia nascia (Щи и кашa – пиша наша)
ossia, tradotto, lo sc’ci (una zuppa di cui
parleremo in seguito) e la pappa (densa come
polenta) è quello che noi mangiamo. Questa
pappa aveva però un inconveniente, non poteva essere
portata agevolmente in giro al lavoro nei campi, ma
poteva essere gustata solo in casa in una ciotola dopo
averla presa dal mucchio fumante posto al centro di
una tavola. Se la pappa non era facilmente
trasportabile, il pane invece lo era e perciò questo
costituiva il cibo principe. Non c’era una sola
ricetta per fare il pane, ma rappresentava comunque il
cibo della “vita” (questa è la radice della parola
zhito.) e lo smjerd sapeva bene che il
sapore del suo pane sarebbe stato diverso a seconda
del villaggio da dove proveniva, a causa dell’aggiunta
di ingredienti diversi. Infatti, il miglio poteva
essere o aggiunto alla ricetta oppure usato come
cereale di base, dopo averlo triturato, e in tal caso
il pan di miglio accoppiato con la cipolla o
altre radici esculente era messo in saccoccia per
consumarlo nel momento desiderato.
Un
ingrediente non si aggiungeva al pane poiché non in
tutte le regioni era a disposizione in abbondanza, il
sale. Era una sostanza di alto costo e se ne
dava un po’ in un sacchettino che lo smjerd
portava con sé come parte del suo pojòk
(porzione per pranzo giornaliero).
Ricetta per il zhito con uno o più cereali, a
seconda della disponibilità:
Tradizionalmente si preparava così il pane in
Bielorussia fino al tempo della Rivoluzione
d’Ottobre (1917)
Procurarsi alcune manciate di segale (ca. 500 g) e/o
di frumento integrale (700 g) o miglio integrale (450
g). Un grosso mortaio di legno con pestello anche di
legno viene riempito nel fondo di acqua leggermente
salata e calda. Nel mortaio si pone una parte (ca. una
metà) dei chicchi e si pigiano ben bene con il
pestello. Le glume si staccheranno e verranno a galla.
Se si vuole si possono separare dalla poltiglia
(chiamata kut’jà), altrimenti si lasciano nella
massa e si pestano energicamente. A parte si saranno
preparati dei piselli secchi che vanno anche pestati e
inumiditi. Il resto dei chicchi vengono invece tritati
più finemente.
Ai
chicchi che avevamo pestato nel mortaio si aggiunge
della pasta acida, avanzata giorni prima, e si lascia
stare il tutto ben coperto per una notte. L’indomani
le diverse poltiglie vengono poi mescolate ed
impastate a mano insieme affinché ne risulti una massa
abbastanza compatta, sempre con acqua tiepida. Si
aggiunge un po’ di miele e di sale. Su una madia si
saranno poste delle foglie di quercia che
costituiranno la misura per la grandezza di ciascun
pane. Fatte della piccole masse, queste vengono
coperte da foglie di quercia che daranno una bella
crosta brunastra al pane quando sarà cotto. I pani,
non ancora pronti, vengono messi sul tetto della
pec’ka per qualche ora, mentre si alimenta la
pec’ka perché si riscaldi bene all’interno e abbia
molta cenere. Finalmente i pani vanno messi sotto la
cenere e lasciati cuocere dai venti ai novanta minuti
(a seconda della miscela di grani usata) finché non si
sente che si è formata una bella crosta. Il zhito
non va consumato caldo appena estratto dal forno, ma
bisogna lasciarlo rassettare per qualche ora…
Oltre ai pani grandi se ne fanno anche di più piccoli,
magari impastandovi in ciascuno diverse erbe
aromatiche o frutta. Sono i cosiddetti kalacì
che anticamente si usavano nei pranzi di nozze da
offrire come cibo per gli uccelli della foresta che
visitano il nostro orto, lanciandoli dopo la cerimonia
sul tetto della casa nuziale.
Non dimenticare mai di cuocere qualche piccolo pane
per lo spirito della casa:
il Domovòi.
Note:
Naturalmente il miglio rende male da solo nel
fare il zhito in grossi pezzi perché ha
pochissimo amido e quindi non tiene la massa
molto compatta e non cresce bene alla
lievitazione.
Qualcuno dei nostri lettori si chiederà come mai non
abbiamo ancora nominato il frumento, quello che
comunemente chiamiamo grano, cereale che oggi
più o meno consumiamo in grandi quantità in tutta
Europa e nel mondo occidentale e che rappresenta il
retaggio di un’antichissima agricoltura nata più o
meno seimila anni fa nella valle del Danubio, ma
sicuramente di origine ancor più orientale e più
antica: Mesopotamia (ossia l’Iraq di oggi), Egitto dei
Faraoni o Pakistan (Civiltà di Mohenjo-Daro).
In
realtà dai rilievi archeologici condotti nei
cosiddetti kurgany e nei sopki del nord,
se ne sono trovate tracce oltre al miglio (vedi D. A.
Avdusin), insieme con la segale, il frumento
e l’orzo.
Da
questo si può dedurre che il frumento era coltivato,
sì., presso gli Slavi, ma con più difficoltà perché
meno resistente alle condizioni di climi troppo freddi
e alla natura del terreno.
D’altro canto il frumento (pscenìza) per questa
maggior cura richiesta nella sua coltivazione e per la
maggiore dimensione dei suoi chicchi era considerato
un cereale dei “ricchi” in quasi tutta l’Europa del
Medioevo (e quindi anche qui nella Pianura Russa.),
per cui lo smjerd preoccupato di nutrirsi senza
accollarsi ulteriori preoccupazioni evitava questo
cereale troppo a rischio nella sua terra fredda e con
stagioni brevi. Sappiamo tuttavia che i bojari, ossia
i proprietari terrieri del tempo della Rus’ di Kiev
(sec. X-XIII), lo facevano coltivare dai loro
contadini (fornivano loro infatti i costosissimi
semi), ma a quanto sembra solo per il proprio consumo.
Per
quanto riguarda invece la segala (rozh),
essa era ancora poco diffusa (i resti archeologici
trovati sembrano in media in quantità
significativamente minore) in quello stesso periodo
probabilmente a causa della pericolosità di essere
infettata dalla Claviceps purpurea (fungo che
contiene l’ergotina, un alcaloide inebriante a
basse, ma velenoso ad alte dosi), ma comunque ben
conosciuta e consumata. Per la segale diciamo che
soltanto al tempo dei Cavalieri Teutonici durante le
loro campagne di conquista nelle Terre Russe (ca. XIII
sec.) cominciò ad esser coltivata intensivamente e più
razionalmente nel nordest europeo tanto da diventare,
con il sistema distributivo messo in atto dall’Hansa
germanica. La segale dunque diventò il cereale più
richiesto proprio a partire dalla regione intorno a
Novgorod per diventare popolarissimo nel resto delle
Terre Russe.
Più
diffuso invece risulta l’orzo (jac’men’), detto
il frumento dei poveri perché considerato più
ordinario (per la dimensione minore dei chicchi) dalle
classi alte, e c’era persino l’avena (ovjòs),
molto più appetibile per il suo sapore più dolce
se veniva consumata dall’uomo, sebbene la si
lasciava preferibilmente ai cavalli come si fa anche
oggi.
Noi
abbiamo però finora parlato dei cereali come già ormai
ridotti a semplici chicchi liberati del loro involucro
duro e indigeribile esterno (la crusca o otruby),
pronti per il consumo. In realtà dobbiamo tener
presente che questi chicchi erano sempre la parte più
preziosa del carico portato dalla nutà giunta
nella Pianura Russa. Una buona parte di quel carico
infatti non poteva essere mangiata, poiché altrimenti
non ne sarebbe rimasta da seminare e ciò avrebbe posto
in pericolo il futuro di tutta la comunità che non
avrebbe avuto più niente da coltivare e quindi da
mangiare. Perciò una parte dei chicchi dovevano essere
protetti dal marcire o dagli animali o dagli insetti
meglio e con più cura di qualsiasi altra parte del
carico.
Questi problemi di conservazione erano già stati
risolti secoli prima dal punto di vista tecnico poiché
i chicchi venivano rinchiusi in un olla di terracotta,
abbastanza robusta, poi sigillata accuratamente. In
questo modo il piccolo volume d’aria che ancora
rimaneva nell’interno lasciava che i chicchi più in
alto cominciassero a germogliare e ciò facendo
consumassero tutto l’ossigeno a disposizione generando
così anidride carbonica che impediva sia un’ulteriore
germinazione sia la vita ad eventuali altri insetti,
spore e muffe aerobiche. Il chicco naturalmente
conservava la sua umidità e non seccava, ma sospendeva
comunque le sue attività vitali e poteva conservarsi a
lungo integro e pronto ad essere impiegato nella
prossima semina. Questi chicchi per di più erano stati
selezionati dalle spighe più robuste e più grosse e
quindi il loro valore economico ed “agricolo” era
particolarmente importante.
Questo sistema dell’olla di terracotta sigillata,
quando la comunità si stabiliva in un certo posto, era
sostituito con una fossa scavata nel terreno
all’interno del granaio comune, ugualmente
impermeabilizzata con dell’argilla, chiamata
protiven’. Sia di queste olle che di queste fosse
particolari sono stati ritrovati numerosi ed
indiscutibili reperti archeologici.
Non
sono state invece trovate molte pentole di terracotta
che potremmo con sicurezza attribuire al corredo di
vasellame da cucina di una massaia medievale. Tuttavia
è indubbio che i cereali, rispetto ad altri frutti,
hanno la necessità di essere cotti, abbastanza a lungo
o per breve tempo, giacché non si può mangiarli crudi,
almeno per la nostra dentatura. Per queste ragioni e
per la fama che i vasai russi avevano dobbiamo
ammettere che il vasellame c’era anche se non molto
differenziato. Vediamo allora di capire come le
massaie, che ora possiamo immaginare sistemate nella
nuova izbà, si adoperavano per cucinare.
Ad
esempio, se una kascia doveva essere preparata,
questa era cotta in grosse pentole nella camera calda
della pec’ka. Addirittura abbiamo raccolto la
tradizione che nella pec’ka veniva introdotta
al principio dell’anno una grossa pentola di coccio
dove la minestra di legumi cuoceva continuamente per
tutto il resto del tempo e la massaia non faceva altro
che aggiungere acqua e nuovi legumi man mano che
questi apparivano con le stagioni.
E
qui già notiamo un’insolita particolarità: La cucina
slavo-orientale non prevedeva un riscaldamento dal
fondo della pentola, ma un calore costante e
avvolgente. Di conseguenza la minestra che vi cuoceva
non poteva essere rimestata e la kascia
preparata così aveva una consistenza diversa da quella
che noi oggi otterremmo con la nostra cucina a gas o a
piastre calde e sempre a vista della preparatrice (o
del preparatore) che rimescola con il mestolo. Per
questi motivi i piatti e le pietanze della tavola
dello smjerd erano prevalentemente degli
stufati.
In
più, se la massaia preparava molte cose cotte alla
volta, ciò vuol dire che la superficie del pod
della pec’ka doveva essere molto grande per
potere accogliere più tegami e padelle.
Ma a
qual ora del giorno si incontravano i membri della
famiglia per mangiare tutti insieme? Sicuramente alla
mattina veniva dato ad ognuno il proprio pojok
(porzione di cibo) da portare con sé sui campi e poi
alla tarda metà d’ogni giorno, quando il sole
guarda verso sud (questa è l’etimologia della
parola uzhin in russo che oggi però indica…
la cena.), ricordiamo infatti che in quei tempi si
tornava a casa prima che la luce del sole si esaurisse
per non imbattersi negli esseri notturni che sono
sempre pericolosi e fanno perdere la strada di casa.
E’
difficile però immaginare una tavola al centro dell’izbà
intorno alla quale si sedevano tutti i commensali
perché l’arredamento antico non prevedeva una grande
tavola alta come le nostre. Tutt’al più c’era un
tavolino-sgabello usato per le occasioni speciali
mentre di solito il cibo veniva servito dalla padrona
di casa in scodelle di legno e non ci si metteva a
mangiare con posate e a bere in bicchieri di vetro
etc. etc. come avviene oggi. La zuppa veniva tirata
fuori dalla pec’ka e la nostra massaia la
serviva al commensale che si accomodava sulla mensola
che correva intorno alla parete (lavka) e
mangiava raccogliendo il cibo col cucchiaio dalla
scodella poggiata sulle ginocchia. Questo avveniva
d’inverno o quando era troppo freddo, altrimenti
d’estate era più bello mangiar fuori sul retro dell’izbà,
magari arrostendo sullo spiedo qualche volatile o
qualche altro animale catturato con le trappole, già
spellato e frollato.
E
non c’erano solo questi incontri famigliari
giornalieri. C’erano, ad esempio, le grandi occasioni
dei matrimoni, dei funerali etc. in cui diverse
famiglie da diverse regioni si incontravano per star
insieme per scambiarsi notizie e far nuove conoscenze
o prendere accordi per nuovi sposalizi e nuovi legami
personali. Periodicamente si organizzavano persino
degli incontri chiamati guljanie (ossia
bisboccia, convito, godimento collettivo a tavola e
nel bere), specialmente nella stagione buona, fra
villaggi e case delle proprie vicinanze allo scopo di
rinsaldare l’appartenenza alla stessa stirpe, ma anche
per azzerare le eventuali differenze economiche che si
erano create durante l’anno.
E
qui ci spieghiamo meglio.
E’
quasi naturale che durante l’anno si accumulassero
derrate o prodotti in più rispetto a quelli
effettivamente consumati dalla famiglia (o dal
gruppo), magari per eccesso di precauzioni prese
durante l’anno o chissà quale altro motivo. Si
sfruttava allora l’occasione di questi incontri per
eliminare i surplus, tutto in grande allegria e in un
grande convito, in una specie di allegro potlatch
indiano. Logicamente, salvo i casi di carestia.
In
questi simposi, come possiamo immaginare, veniva fuori
tutta l’inventiva delle cuoche, mogli degli smjerdy
per mettere a punto piatti succulenti con le materie
prime a disposizione.
Bojari:
Classe di proprietari terrieri formatasi in seguito
all’instaurazione dell’organizzazione statale
Ciur:
Capoclan, detto anche sciur che faceva da
anziano del villaggio
Izbà:
Tipica casa russa di campagna fatta completamente di
legno
Mir:
Comunità del villaggio russo
Nutà:
Gruppo migrante russo. A causa dell’impoverimento del
terreno i contadini ogni 4-6 anni erano costretti a
cercare nuovi campi da coltivare e talvolta così
lontano da dover migrare per sempre.
Pec’ka:
Grossa e tipica stufa della casa di campagna russa
posta in un angolo della casa
Rus’ di Kiev:
Il primo stato russo con a capitale Kiev
Smjerd:
Contadino, plurale smjerdy
Taglia-e-bruci:
Sistema di ricavare un campo da coltivare abbattendo e
bruciando gli alberi di una radura nella foresta.
Ridotto dal libro VITA DI SMJERD, 2006, Aldo C.
Marturano
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2006 |