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N. 21 - Settembre 2009
(LII)
La Chimera
Parte II - importante testimonianza di arte etrusca
di Michele Broccoletti
Era
il
15
novembre
1533,
il
giorno
in
cui
ad
Arezzo,
nei
pressi
di
Porta
San
Lorentino,
durante
la
realizzazione
di
fortificazioni
medicee,
alcuni
operai
scoprirono,
e
dissotterrarono
quasi
intatta,
una
statua
bronzea
che
a
prima
vista
sembrava
raffigurare
un
leone.
Subito
però
si
capì
che
non
si
trattava
di
un
leone
“normale”:
la
testa
di
capra
piantata
in
mezzo
alla
schiena
del
felino,
era
qualcosa
di
anomalo...
Nonostante
ciò,
è
curioso
ricordare
che
all’inizio
nessuno
riconobbe
nella
statua
la
figura
mitologica
della
Chimera.
In
seguito
si
cercò
di
risalire
all’origine
della
scultura
e
venne
scoperto
che
si
trattava
di
una
statua
etrusca,
alta
circa
80
centimetri
e
risalente
probabilmente
al
V-VI
secolo
a.
C..
La
Chimera
di
Arezzo,
rappresenta
la
creatura
mitologica
ferita,
con
la
criniera
irta
e le
fauci
spalancate,
mentre
si
ritrae
di
lato,
volgendo
la
testa
in
un
atto
drammatico
di
sofferenza:
la
testa
di
capra
reclinata
sembra
essere
già
morente
a
causa
dei
colpi
ricevuti
dall’eroe
Bellerofonte,
come
vogliono
anche
alcune
versioni
del
mito,
dalle
quali
possiamo
dedurre
che
solamente
le
parti
leonine
del
terribile
mostro
erano
invulnerabili.
Il
corpo
della
belva
è
invece
modellato
in
maniera
tale
da
mostrare
le
costole
del
torace
e le
vene
che
scorrono
lungo
le
gambe.
Qualche
tempo
dopo
il
rinvenimento
della
statua,
iniziarono
le
prime
ricerche
per
cercare
di
confermare
che
la
scultura
raffigurasse
proprio
la
creatura
mitologica
della
Chimera.
Le
prime
indagini,
condotte
dal
Vasari,
si
orientarono
su
reperti
numismatici
e lo
stesso
storico
dell’arte
aretino,
dialogando
con
un
interlocutore,
che
chiede
se
si
trattasse
proprio
della
Chimera
uccisa
da
Bellerofonte,
così
risponde:
"Signor
sì,
perchè
ce
n'è
il
riscontro
delle
medaglie
che
ha
il
Duca
mio
signore,
che
vennono
da
Roma
con
la
testa
di
capra
appiccicata
in
sul
collo
di
questo
leone,
il
quale
come
vede
V.E.,
ha
anche
il
ventre
di
serpente,
e
abbiamo
ritrovato
la
coda
che
era
rotta
fra
que'
fragmenti
di
bronzo
con
tante
figurine
di
metallo
che
V.E.
ha
veduto
tutte,
e le
ferite
che
ella
ha
addosso,
lo
dimostrano,
e
ancora
il
dolore,
che
si
conosce
nella
prontezza
della
testa
di
questo
animale...".
Dalle
parole
del
Vasari
possiamo
anche
dedurre
che
probabilmente
la
statua
venne
riportata
alla
luce
senza
la
coda
di
serpente,
la
quale
fu
forse
ritrovata
in
un
secondo
momento:
sembra
che
l’esecutore
del
restauro
materiale
sia
stato
Francesco
Carradori,
il
quale
però,
attorno
al
1785,
posizionò
la
coda
di
serpente
in
maniera
errata,
in
quanto,
invece
di
posizionarla
protesa
e
minacciosa
verso
l’aggressore,
la
collocò
in
maniera
tale
da
farle
“inutilmente”
mordere
un
corno
della
capra.
Questo
restauro
sbagliato,
eseguito
in
epoca
neoclassica
è
visibile
tutt’oggi,
ma
non
ci
impedisce
di
ammirare
la
bellezza
di
una
favolosa
opera,
importante
testimonianza
dell’arte
etrusca.
Dobbiamo
dire
comunque
che
ad
Arezzo
non
era
inusuale
scoprire
reperti
e
manufatti
etruschi,
ma
allo
stesso
tempo
possiamo
tranquillamente
affermare
che
la
statua
della
Chimera
è
forse
la
più
bella
ed
affascinante
opera
d’arte
che
la
civiltà
etrusca
ci
abbia
lasciato.
In
generale,
delle
tradizioni
etrusche,
se
escludiamo
le
massicce
mura
delle
città
e le
rovine
storiche
di
tempi
ed
edifici,
poco
ci è
rimasto
ed è
per
questo
che
tale
scoperta,
a
distanza
di
cinque
secoli,
risulta
ancora
più
importante
e
sensazionale.
È
doveroso
però
precisare
che
già
le
fonti
del
tempo
ci
confermano
l’importanza
del
ritrovamento
che
aveva
interessato
tutti
i
più
grandi
studiosi
dell’epoca.
Lo
stesso
granduca
di
Firenze,
Cosimo
I
de’
Medici
(ricordiamo
che
attorno
alla
metà
del
XVI
secolo
Arezzo
era
sotto
il
dominio
fiorentino),
venne
talmente
affascinato
dalla
statua
bronzea,
da
decidere
di
portarla,
ed
in
seguito
esporla,
a
Palazzo
Vecchio
a
Firenze.
Poco
dopo
la
statua
venne
trasferita
a
Palazzo
Pitti,
sempre
a
Firenze:
qui,
Benvenuto
Cellini
si
occupò
del
primo
restauro
della
famosa
scultura
bronzea.
Cosimo
I
de’
Medici
non
fu
però
l’unico
che
fu
attratto
dal
ritrovamento
della
Chimera:
la
notizia
di
questa
sensazionale
scoperta
si
diffuse
velocemente
tra
gli
artisti
ed i
letterati
dell’epoca,
che
iniziarono
a
confrontarsi
per
cercare
di
capire
l’epoca
alla
quale
risalisse
la
statua.
Presto
tutti
gli
studiosi
furono
concordi
nell’assegnare
la
scultura
ad
un
artista
etrusco:
il
naturalismo
della
muscolatura
e
del
corpo
del
leone,
la
stilizzazione
della
testa,
delle
fauci
e
della
criniera,
l’intensa
espressività,
l’accentuazione
drammatica
della
posa,
la
sofisticata
postura
del
corpo
e
delle
zampe
e
soprattutto
l’iscrizione
dedicata
al
dio
etrusco
Tinia,
sono
tutti
elementi
che
hanno
unito
gli
esperti
dell’epoca
nell’affermare
con
certezza
che
si
trattasse
di
un’opera
etrusca.
Sappiamo
che
la
Chimera
(come
è
testimoniato
anche
da
alcuni
documenti
dell’archivio
storico
aretino)
rimase
per
poco
tempo
ad
Arezzo
e
sicuramente,
nel
1554
si
trovava
già
a
Firenze
dove
ancora
oggi
può
essere
ammirata
esposta
a
Palazzo
della
Crocetta,
presso
il
Museo
Archeologico
del
capoluogo
toscano.
Solo
durante
il
periodo
fascista,
il
podestà
di
Arezzo
riuscì
ad
ottenere
il
permesso
per
effettuare
un
calco
della
statua
per
poter
commissionare
la
realizzazione
di
alcune
copie
della
scultura
da
esporre
nella
stessa
città
di
Arezzo,
dove
tutt’oggi
possiamo
ammirare
alcune
repliche
della
Chimera
ritrovata
vicino
Porta
San
Lorentino.
In
particolare,
due
statue
identiche
all’originale
sono
state
collocate
nelle
due
fontane
difronte
alla
stazione
ferroviaria,
mentre
un’altra
copia,
completamente
ricoperta
d’oro
(sappiamo
che
Arezzo,
insieme
a
Vicenza,
è la
più
importante
città
italiana
per
la
lavorazione
dell’oro)
può
essere
ammirata
nella
sede
della
Camera
di
Commercio
aretina.
È
sicuro
però
che
un’opera
d’arte
del
genere
non
può
essere
ammirata
con
occhi
inconsapevoli.
Molti
studiosi
sostengono
che
la
Chimera
facesse
parte
di
un
gruppo
scultoreo
che
probabilmente
includeva
anche
l’eroe
Bellerofonte
in
sella
al
cavallo
alato
Pegaso.
Secondo
altre
ipotesi
invece,
è
possibile
che
la
statua
abbia
rappresentato,
per
gli
etruschi,
un’offerta
votiva
dedicata
al
dio
Tinia.
Quest’ultima
supposizione
è
rafforzata
anche
dall’iscrizione,
precedentemente
citata,
posta
sulla
zampa
anteriore
destra
della
statua,
dove
possiamo
leggere
proprio
una
dedica
al
dio
etrusco
Tinia
(sulla
zampa
è
riportata
la
scritta
TINSCVIL
o
TINS’VIL
che
significa
letteralmente
“donata
al
dio
Tin”),
il
quale
era
il
dio
del
sole,
simbolo
del
cambiamento,
della
mutazione
e
del
tempo
che
scorre:
anche
la
Chimera,
con
il
suo
aspetto
diabolicamente
cangiante,
ci
può
apparire
in
mille
forme
ed è
facilmente
riconducibile
alla
suddetta
divinità
etrusca.
Aldilà
di
tutto
comunque,
resta
il
fatto
che
osservare
una
scultura,
che
sia
l’originale
o
che
sia
una
copia,
difronte
ad
una
stazione
ferroviaria
(e
non
magari
nel
luogo
effettivo
dove
è
stata
rinvenuta),
implica
la
perdita
di
tutto
il
valore
storico
culturale
che
potrebbe
essere
annesso
alla
stessa
statua
della
Chimera,
che
in
questa
maniera
non
viene
giustamente
apprezzata
per
il
vero
significato,
simbolico
e
non,
che
essa
racchiude.
D’altro
canto
possiamo
però
concludere
affermando
che
il
mito
della
Chimera
ha
affascinato
l’intera
umanità
da
tempi
molto
remoti
ed
ancora
oggi
racchiude
in
sé
misteri
ed
interrogativi
che
inducono
e
spingono
storici
e
studiosi
a
continuare
studi
e
ricerche.
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