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FILOSOFIA & RELIGIONE


N. 13 - Gennaio 2009 (XLIV)

“I nemici dei miei nemici sono miei amici”
Chiesa cattolica e Ratline

di Lawrence M.F. Sudbury

 

“Definire la Chiesa Cattolica complice dei crimini nazisti è non solo palesemente falso dal punto di vista storico ma è anche, alla luce dell’opera di salvataggio compiuta nei confronti di migliaia di ebrei, chiaramente fuorviante e frutto di una intenzione malevola e ideologizzata”


Così scriveva, già nel 1949, Padre Alessandro Bencivenga sull'Osservatore Romano.


E aveva ragione. Indubbiamente la Chiesa Cattolica non fu complice e neppure fiancheggiatrice del nazismo in nessuna forma, anzi, là dove e quando possibile, cercò di lenire le sofferenze delle vittime di uno dei regimi più efferati della storia: migliaia di documenti provenienti da decine di paesi possono confermare questo dato.

Ma non essere complice e connivente non significa non essere quiescente. Certo, ci si dovrebbe intendere su cosa s'intende per Chiesa Cattolica, ma se, per uso comune, con questo termine s'intende l'alta gerarchia pontificia al cui vertice si pone il Papa, indubbiamente i silenzi (per alcuni versi giustificabili, per altri difficilmente spiegabili) di Pio XII e del Vaticano di fronte ai crimini hitleriani configurano quantomeno appunto un certo grado di quiescenza o, in termini più apertamente religiosi, quello che potremmo chiamare un “peccato d'omissione”.


Il vero problema, però, dal punto di vista storico, è proprio quello definitorio. Perché se con il termine Chiesa vogliamo intendere l'intero corpus dei credenti cattolici, allora, altrettanto indubbiamente possiamo affermare che la gran parte dei cattolici europei i cui paesi caddero sotto regimi dittatoriali nazi-fascisti, Germania in primis, furono forse ben più che quiescenti e, in numerosi casi, addirittura largamente conniventi appunto con tali regimi.

Poi, esiste, tra i due estremi, una terza zona: quella della Chiesa intesa come membri effettivi e certificati della Chiesa stessa, come suoi rappresentanti per vocazione e professione, gli ecclesiastici.


E qui entriamo in un terreno difficile: storicamente, riguardo all'atteggiamento verso il nazionalsocialismo, questa Chiesa, la Chiesa in abito talare, si presentò completamente e inequivocabilmente divisa, con posizioni che coprirono l'intero arco delle possibili reazioni verso l'esistente: dall'odio che spinse alcuni preti ad unirsi alle squadre partigiani al silenzio ostile dei più, dalla quiescenza politica alla connivenza e, addirittura, alla complicità più marcata di altri.

 

Se, sulla base della “Lettera Evangelica”, l'atteggiamento di coloro che imbracciarono i fucili per difendere la libertà può apparire teologicamente (sebbene non umanamente) problematico, ciò che, sicuramente, stupisce maggiormente è che alcuni “uomini di Dio” possano aver così apertamente tradito lo Spirito della Fede a cui avevano deciso di dedicare la loro stessa esistenza, per rendersi correi dei misfatti di un regime criminale.

Eppure, ciò avvenne: dalla Slovacchia alla Croazia, dalla Germania alla Spagna, centinaia di sacerdoti e alti prelati non esitarono a schierarsi pubblicamente a favore dell'ideologia nazifascista e a sostenerla addirittura dal pulpito, se non, criminalmente, con azioni concrete.


Ma, al di là delle responsabilità morali ed oggettive dei singoli, vi fu anche chi si spinse ben oltre, portando la propria fedeltà al di là di quella che, con un certo grado di eufemismo, potremmo chiamare umana debolezza, errore di giudizio, convenienza del momento, per aderire alla follia nazista anche quando essa era stata sconfitta dalla storia e quando i suoi orrori erano diventati di pubblico dominio, segnando così uno dei punti più bassi e ingiustificabili della vita del Cattolicesimo, un punto che ha un nome ben definito: “Ratline”.

Letteralmente, una “ratline” è una cima che conduce alla sommità dell'albero maestro di un veliero, estrema via di fuga in caso di naufragio, ma, storicamente, questo termine ha assunto tutt'altro significato, venendo ad indicare un elemento fondamentale di quel sistema che, con il tipico gusto nazista per gli acronimi, è diventato famoso come O.D.E.S.S.A (Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen, Organizzazione degli ex-membri delle SS), l'ultima possibilità di salvezza per i criminali nazisti.

Ma procediamo con ordine.


Siamo nell'agosto del 1944 e ormai è chiaro per chiunque non sia perduto, come Hitler, Goering o Himmler, in sogni che ormai rasentano il puro vaneggiamento che la Germania nazista si avvia verso la totale sconfitta.


A Strasburgo, all'Hotel Maison Rouge, protetti da imponenti misure di sicurezza, si incontrano alcuni degli uomini più potenti del III Reich: per l'apparato politico-militare ci sono Bormann, Speer e Canaris, per la grande industria Kirdorf, Krupp, Thyssen e alcuni altri, per le banche Von Schroeder...


L'ordine del giorno è breve, ma fondamentale: cosa fare “dopo”, quando Hitler non ci sarà più e quando il Reich sarà, come appare ormai inevitabile, spazzato via.

 

Per gli esponenti del mondo economico-finanziario, si tratta di salvaguardare i propri capitali, ma per i gerarchi del partito, al di là della paventata ma remota possibilità di poter far sorgere un IV Reich, si tratta di salvarsi la vita.

 

Per entrambi, la sola speranza sembra risiedere nella fuga, una fuga finanziata dai capitalisti e progettata nei minimi particolari, tenendo conto delle situazioni politiche dei paesi di destinazione e delle eventuali relazioni dei presenti all'incontro con tali nazioni.


Il risultato fu la designazione di tre itinerari principali:


1) Monaco – Salisburgo – Madrid;
2) Monaco – Salisburgo – Genova – Medio Oriente;
3) Monaco – Salisburgo – Genova – Buenos Aires.

Quello che più ci interessa è quel “passaggio per Genova” che caratterizza le ultime due “ratline”: perché proprio Genova? Certo, perché è un porto d'imbarco, ma perché, allora, non Venezia o Marsiglia?


La risposta, ottenuta dagli storici e giornalisti americani Aarons e Loftus nel corso di una loro lunga e dettagliatissima inchiesta, è quantomeno sconcertante: perché a Genova c'era l'arcivescovo Giuseppe Siri disposto a nascondere i criminali nazisti in attesa d imbarco, in quella che, tristemente, divenne poi nota come “via dei monasteri”.


Chi era quello che sarebbe poi divenuto (dal 1953) il cardinal Siri, l'uomo che per ben quattro volte (1958, 1963 e due volte nel 1978) fu ad un passo dal divenire Sommo Pontefice (e che, forse, a detta di alcuni vaticanisti, lo divenne, anche se per soli pochi minuti, nel 1958)?


Sacerdote dal 1929, brillante teologo tomista e docente di teologia dogmatica, vescovo dal 1944, Siri si contraddistinse per tutta la sua carriera ecclesiastica e in particolare lungo il corso del suo vescovato genovese (che si concluse solo con la sua morte nel 1987, ben oltre il canonico termine dei 75 anni di età) per le sue posizioni ultraconservatrici: accolse nel seminario di Genova molti seminaristi "tradizionalisti", che, altrimenti, sarebbero usciti dalla Chiesa Cattolica, ordinando vari di loro tra lo scontento di parte del clero genovese; i sedevacantisti gli offrirono (per sua stessa ammissione) la loro corona molte volte ed egli contraccambiò le loro simpatie appoggiando con tutte le sue forze la permanenza nella Chiesa Cattolica di presbiteri di tendenze lefebvriane; ordinò che tutti i preti della sua diocesi vestissero sempre l'abito talare, considerando l'abbandono di esso come un segno di infedeltà al ministero; avversò prima e durante il suo svolgimento il Concilio Vaticano II e lottò affinché prevalesse una linea il più possibile fedele alla Tradizione; soprattutto, fu uno dei cardinali più ostili alla partecipazione del Partito Comunista al governo italiano.


Insomma, Siri fu sempre un personaggio “scomodo”, legato a posizioni che molti consideravano sorpassate e persino retrive, ma, soprattutto, in modo totale, incondizionato, quasi crociato, fu, per tutta la vita, un accesissimo nemico del comunismo, “dottrina atea, inumana e negatrice di ogni verità di fede”.

è qui che incontriamo per la prima volta il presupposto che può spiegare ogni possibile contatto tra uomini di chiesa e criminali di guerra nazisti, quel “il nemico del mio nemico è mio amico” che portò alla più inedita e sorprendente delle alleanze immediatamente postbelliche.


E che questa alleanza fosse ben presente a Genova a partire dal 1946 è fatto più che provato.


Al di là dell'accusa di Aarons e Loftus di essere uno dei coordinatori della “ratline” vaticana, considerata responsabile della fuga di oltre 5000 criminali, accusa probabilmente esagerata (Siri, alla prova dei fatti, risulta più che altro essere, al massimo, un fiancheggiatore ideologico ed un esecutore, piuttosto che un capo della linea), il vescovo di Genova era sicuramente in stretto contatto con uno dei maggiori responsabili dell'organizzazione ODESSA, Walter Rauff e con il sacerdote croato Karlo Petranovic, ex-dirigente della milizia croata ustascia.

 

Quest'ultimo, nel 1989, intervistato da Aarons e Loftus, ammise senza problemi di aver aiutato un paio di migliaia di persone a lasciare l'Italia via Genova e che i nazisti che giungevano a Genova erano ottimamente assistiti da alti dignitari cattolici.

 

Anzi, la Pontificia Commissione di Assistenza aveva perfino un ufficio nella stazione ferroviaria della città e patrocinatore di questa struttura di supporto era proprio l'arcivescovo Siri, fondatore del "Comitato Nazionale per l'Immigrazione in Argentina" e del comitato diocesano “Auxilium” (una organizzazione di aiuto ai profughi), entrambi impegnati ad aiutare i fuggiaschi.

Secondo un rapporto dei servizi segreti americani del 1947, l'arcivescovo dirigeva "un'organizzazione internazionale il cui obiettivo è predisporre l'emigrazione in Sud America di europei anticomunisti... Questa etichetta generale di anticomunisti copriva ovviamente tutte le persone politicamente compromesse con i comunisti, e segnatamente fascisti, ustascia e altri gruppi simili".


Un importante centro di accoglienza, della struttura gestita da Siri, fu la chiesa genovese di San Teodoro, dove molti fuggiaschi sostarono e ricevettero cibo, assistenza, documenti per imbarcarsi sulle navi dirette in Sud America, perlopiù bastimenti della linea Costa: un traffico cospicuo, di cui sono indizio i numerosi "titoli di viaggio" rilasciati all'epoca dal locale ufficio della Croce Rossa Internazionale e tuttora custoditi negli archivi di Buenos Aires.

 

Il parroco di San Teodoro, Bruno Venturelli, fiduciario di Siri, amico dell'armatore Giacomino Costa, e per sua stessa ammissione traghettatore di nazisti nel Nuovo Mondo, fu additato dall'ex ministro francese del governo di Vichy, William Guyedan, già condannato per collaborazionismo, come colui che lo aiutò nella fuga: "Mi imbarcai a Genova con l'aiuto di una persona molto gentile, padre Venturelli, aiutante del cardinale".


Insomma, che Siri fosse implicato nella “ratline” è molto più che un semplice sospetto.

La domanda, a questo punto, è se agisse per iniziativa personale (mossa dal suo anticomunismo viscerale) o per ordini superiori e non si tratta di una domanda oziosa: secondo alcuni storici la presa di posizione di Siri, infatti, implica necessariamente l'esistenza di una preventiva intesa tra i vertici nazisti e la Santa Sede.

 

Secondo i giornalisti Marisa Musu e Ennio Polito, l'udienza segreta che Pio XII concesse al generale Karl Wolff, comandante supremo delle SS e della polizia tedesca in Italia, dieci giorni prima dell'arrivo degli alleati a Roma, era proprio finalizzata proprio al raggiungimento di un accordo bilaterale tra la Santa Sede e gli alti gradi delle gerarchie naziste per garantire il passaggio dei poteri, senza scosse, dai nazisti agli anglo-americani (favorevole al Vaticano che temeva una insurrezione popolare di stampo comunista), e l'aiuto della Chiesa alla messa in salvo, a guerra perduta, del maggior numero possibile di gerarchi e criminali nazifascisti (favorevole, naturalmente, ai nazisti).


Sebbene la possibilità di un coinvolgimento diretto delle alte gerarchie della Santa Sede e del Papa in particolare appare piuttosto dubbia e, comunque, non suffragata da prove certe e nonostante il fatto che, probabilmente, il Vaticano si sarebbe prodigato per salvare chiunque fosse dichiaratamente cattolico o, almeno, anti-bolscevico, resta il fatto certo che il cuore della “ratline” risiedesse all'interno delle mura papali.

A tirare le fila, erano, in particolare, due personaggi piuttosto ambigui: monsignor Alöis Hudal, responsabile della sezione per l'espatrio dei criminali tedeschi e padre Krunoslav Stjepan Draganović, responsabile della sezione espressamente dedicata alla fuga dei criminali legati al regime ustascia in Croazia.


Per comprendere quanto questi due prelati agissero in prossimità dei vertici papali, è necessario analizzare brevemente le loro biografie.

Tra i due, Hudal è, probabilmente, quello il cui ruolo è più chiaramente definito.


Nato a Graz, studioso delle Chiese Slavo-Ortodosse, dottore in Teologia e in Sacre Scritture, dopo essere stato cappellano militare durante la Prima Guerra Mondiale, dal 1923 in poi fu (pare su raccomandazione dell'ambasciatore austriaco Von Pastor, che voleva un connazionale in quella posizione) rettore del “Collegio Teutonico di Santa Maria dell'Anima”, il seminario romano per i preti di lingua tedesca e, dieci anni dopo, ottenne da Pio XII anche la titolarità della diocesi di Aela.

 

Con il rettorato dell'“Anima”, praticamente Hudal divenne il più influente prelato austriaco della cerchia vaticana, ma qualcosa doveva cambiare a causa delle sue idee politiche: dal luglio 1933, dopo aver a lungo osteggiato le posizioni pangermanistche, cominciò, con un improvviso voltafaccia, a dichiararsi fervente sostenitore di tale causa, ad assumere posizioni sempre più violentemente antisemite (accusando addirittura i banchieri ebrei di voler mettere le mani su Roma) e a radicalizzare la sue già comunque anche in precedenza ben evidenti idee anti-comuniste, anti-liberali ed anti-parlamentari, fino ad allinearsi a quel credo politico dei vari Schuschnigg e Von Papen poi definito “clerico-fascista”.


Probabilmente, le ragioni principali di tale allineamento sono da cercare nell'ascesa del comunismo in Austria, con la paura che il marxismo sovietico avrebbe finito per invadere l'Italia e distruggere il cristianesimo, e nella visione dell'ascesa nazista come dell'unico baluardo che si potesse frapporre tra il “pericolo rosso” e la Santa Sede. Di fatto, comunque, Hudal, in questa prospettiva, divenne a tutti gli effetti un nazista, sicuramente critico, ma pur sempre nazista. Quasi certamente è falsa la teoria di una sua iscrizione ufficiale all'NSDAP, ma quando, nel 1937, il “vescovo hitleriano” pubblicò il suo I Fondamenti del Nazionalsocialismo, non rimase nessun dubbio a proposito della sua posizione.

Tra l'altro, pare che Hitler stesso sia rimasto molto colpito dal testo e che, nonostante le proteste dei numerosi gerarchi contrari ad un commento sull'ideologia nazionalsocialista proveniente da un ecclesiastico, ne abbia fatte stampare 2000 copie da distribuire tra i maggiori esponenti del partito, “a scopo di studio”.

 

In realtà, Hudal, nel testo, era molto critico nei confronti di alcuni dei maggiori ideologi del partito, quali Rosenberg, Himmler e Bergeman, accusati di voler scristianizzare un messaggio come quello nazista, che, secondo lui, risultava, in fondo, pienamente compatibile con la fede cattolica ed è su questa linea che il vescovo presentò il nazismo a Pio XI: come un movimento diviso tra una “sinistra” malvagia (appunto i vari Rosemberg, Himmler, etc.) ed una “destra” buona (quella di Von Papen e, secondo lui, di Hitler); il cui unico scopo era quello di preservare i valori occidentali dall'avanzata del bolscevismo. Purtroppo, Pio XI si lasciò convincere e il Mein Kampf non venne mai messo all'indice.

Ovviamente, queste posizioni gli costarono la totale ostilità dei “nazisti cattivi”, tanto che il suo libro non fu fatto circolare in Germania. Nonostante ciò e la piega decisamente anti-cattolica presa da molti provvedimenti nazisti (dalla proibizione dell'educazione religiosa nelle scuole all'abolizione del crocefisso negli uffici pubblici, alla confisca di numerosi edifici religiosi), Hudal non ritrattò mai le sue posizioni e arrivò ad attaccare piuttosto duramente la Mit Brennender Sorge, in nome di una “naturale omogeneità tra Stato Tedesco e Cristianesimo” che doveva opporsi al “nemico giudeo-marxista”.

 

Il suo estremismo lo portò, al termine del regno di Pio XI e lungo tutto il regno di Pio XII, a venire isolato all'interno del Vaticano: gli venne mantenuto (fino al 1952) il rettorato dell'“Anima”, ma gli fu negato qualunque accesso alla corte papale.

 

Fu, probabilmente, in questo periodo che, come affermato da alcuni storici, Hudal divenne un informatore del servizio segreto tedesco, con frequenti contatti con il capo della Gestapo in Italia, Waler Rauff. Forse, proprio in occasione di tali contatti i due cominciarono ad elaborare i piani per quella che divenne una delle più importanti “ratlines” europee.

 

Comunque stessero le cose, certamente, a partire dal 1945, Hudal divenne il centro della rete di fuga dei nazisti, in quello che egli stesso, in seguito, definì: “un atto di carità verso persone in estremo bisogno, non colpevoli di alcunché e rese capri espiatori di un sistema malvagio”. Formalmente, il vescovo agiva dall'Ufficio Austriaco a Roma, in grado di fornire le “Carte di Riconoscimento” indispensabili per emigrare, anche se non è ben chiaro se vi operasse come incaricato ufficiale dell'Organizzazione Pontificia per i Rifugiati o come capo della comunità cattolica austriaca in Italia.

 

In ogni caso, tra i criminali di guerra aiutati da Hudal, certamente figurano personaggi del calibro di Franz Stangel, comandante del campo di Treblinka (a cui Hudal fornì la “Carta” per fuggire in Siria), Edward Roschmann, il “macellaio di Riga”, Josef Mengele, l'“angelo della morte” di Auschwitz, Gustav Wagner, comandante del campo di Sobibor, Alois Brunner, organizzatore delle deportazioni in Francia e Slovacchia, Adolf Eichmann, pianificatore della “Soluzione Finale”, Otto Wächter, creatore del ghetto di Cracovia e responsabile della morte di quasi due milioni di ebrei polacchi, che, dopo la guerra visse per quattro anni in un monastero romano facendosi passare per frate.

La domanda che immediatamente sorge è: è possibile che il Vaticano non si rendesse conto dell’incredibile rete di connivenze che si stava sviluppando all’ombra di San Pietro e del ruolo che un vescovo che, per quanto marginalizzato, aveva comunque un ruolo di un certo rilievo dell’organizzazione pontificia, stava giocando in essa?


Oggettivamente, la risposta a questa domanda è difficile, ma, pur lasciando un certo margine di dubbio, probabilmente possiamo rispondervi affermativamente: il Vaticano, al termine della II Guerra Mondiale, era impegnato a prestare soccorso a circa 12 milioni di rifugiati provenienti da ogni angolo d'Europa ed era assolutamente impossibile, all'interno di questo gigantesco sforzo per salvare centinaia di migliaia di vite da morte pressoché certa, analizzare la posizione politica o penale dei singoli. Proprio nelle maglie piuttosto larghe di questo enorme sistema umanitario potrebbe essersi infilato Hudal, per perseguire scopi totalmente personali.

Alcuni storici sostengono che, in realtà, il vescovo fosse una figura di secondo piano in tutta l'organizzazione delle “ratlines”, ma i suoi rapporti ad altissimo livello (ad esempio, la sua corrispondenza diretta con Juan Perón, a cui il prelato austriaco arrivò a chiedere in un colpo solo 5000 visti destinati a “combattenti anticomunisti”) porterebbero ad escludere tale eventualità. Potrebbe, al contrario, apparire più realistico che Hudal di servisse del proprio ruolo per convincere altri ecclesiastici ad assecondare i suoi scopo, senza che, necessariamente, questi fossero consci della causa che, involontariamente, stavano servendo: ciò, ad esempio, potrebbe (ma il condizionale è d'obbligo) spiegare il coinvolgimento nell'organizzazione del direttore della Caritas di Roma, Monsignor Karl Bayer, che utilizzò fondi specificamente stanziati per ordine di Pio XII per pagare la fuga in Sud America di notori criminali di guerra, e, forse, anche la partecipazione dello stesso Siri a questa incredibile trama (il che spiegherebbe la stranissima posizione del futuro cardinale che, per quanto, come detto, ultraconservatore, aveva, in effetti, aiutato la Resistenza durante l'occupazione nazista).


Tra l'altro, Hudal, nelle sue memorie postume, si lamentò molto della scarsissima collaborazione trovata all'interno delle alte sfere pontificie a favore della sua opera di “difesa della cristianità dall'avanzata comunista”.

è davvero difficile spingersi più oltre: chiaramente, un ragionevole dubbio non può che persistere, ma, se anche vi fu una qualunque forma di collusione pontificia nell'opera di Hudal, le tracce di tale possibile collusione vennero certamente ben nascoste e persino le apparenze salvate, con le pressioni fatte dalla Santa Sede, attraverso il vescovo di Salisburgo, nel 1952, perché Hudal lasciasse la sua posizione all'“Anima” e si ritirasse a vita privata, cosa che il vescovo puntualmente fece, rinchiudendosi nella sua lussuosa residenza di Grottaferrata a vivere i suoi ultimi anni (morì nel 1963) con uno stile di vita piuttosto poco consono al suo voto di povertà.

E si apre, così, un altro grande capitolo della questione dei rapporti tra prelati cattolici e organizzazione delle “ratlines”, un capitolo che ha lasciato dietro di sé dolorosi strascichi giudiziari che, in alcuni casi, risultano ancora aperti: quello riguardante il “cui prodest” economico dell'intera operazione di espatrio dei vari criminali di guerra.


Per analizzare meglio questo capitolo, però, dobbiamo esaminare, ancorché brevemente, le vicende che riguardano l'altro grande protagonista vaticano della rete di fuga post-bellica: padre Draganović.

Se gli avvenimenti bellici e dell'immediato dopoguerra relativi a Hudal mostrano un uomo dall'ideologia piuttosto contorta e a tratti sconvolgente, quelli relativi a Draganović disegnano una figura addirittura aberrante, dal momento che questo frate francescano bosniaco, riuscì a riassumere in sé ogni caratteristica negativa che non tanto un uomo consacrato ma, in generale, un essere umano avrebbe potuto raccogliere dagli anni più bui della storia europea.

Nato nel 1903 in ambiente ultranazionalista, dopo gli studi teologici e filosofici a Sarajevo, Draganović si trasferì a Roma, dove, oltre a frequentare l'Università Gregoriana, trovo impiego negli Archivi Vaticani. Dal 1935 in poi, ha inizio la sua “parabola nazista”: tornato in Bosnia, divenne segretario di Ivan Šarić, il vescovo croato di Sarajevo che, in seguito, durante la guerra, appoggiò e incoraggiò le pulizie etnico-religiose del poglavnik degli Ustascia Ante Pavelić a tal punto da meritarsi l'appellativo di “boia della Serbia”.


Le raccomandazioni di Šarić gli valsero una cattedra di Teologia a Zagabria ed è in questo periodo che, a detta di molti storici, Draganović diventa un influente membro degli ustascia (certamente non l'unico religioso ad esserlo: basterebbe ricordare il francescano, poi espulso dal suo Ordine, Miroslav Filipović, cappellano del battaglione delle “guardie del corpo” di Pavelić, protagonista delle conversioni forzate degli ortodossi e responsabile del lager di Jasenovac, o la posizione di gradimento verso il governo fantoccio ustascia a lungo mantenuta dell'arcivescovo di Zagabria Stepinàc, che solo a partire dal 1943 assunse un atteggiamento critico verso i crimini di Pavelić, atteggiamento che, forse, gli valse la discutibile e ampiamente discussa beatificazione da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 1998).

Alcune fonti dell’OSS (i servizi informativi americani durante la guerra) intervistate da Aarons e Loftus, cercarono di chiarire l'ambigua posizione del frate francescano, dichiarando che egli era, non ufficialmente, il capo dei Servizi Segreti Vaticani in Croazia e che, al contempo, collaborava con l’Intelligence americana, francese e britannica. Di fatto, comunque, Draganović era anche vicepresidente dell'Ufficio per la Colonizzazione ustascia, cioè di quell'ufficio che decideva quali serbi ed ebrei fossero da destinare ai campi di lavoro o ai campi di sterminio.


Nel 1943, due anni dopo l'invasione tedesca dei Balcani, la grande svolta: in agosto Draganović ritorna a Roma e diventa Segretario di Stato della “Confraternita Croata di San Girolamo” nel monastero di San Gerolamo degli Illirici.

 

è da questo monastero che, come ampiamente documentato dai Servizi Segreti statunitensi, il frate bosniaco organizzò tutte le operazioni della “ratline” croata: grazie all'appoggio dell'arcivescovo Stepinàc, che gli aveva procurato influenti contatti in Vaticano, Draganović era intimo con le più alte cerchie vaticane (dal Segretario di Stato Maglione a papa Pio XII), con i diplomatici dell'Asse presso il Vaticano e con le autorità italiane. In particolare, i suoi contatti erano molto stretti con il vicesegretario di Stato Montini (futuro papa Paolo VI, allora, secondo molti, responsabile anche dei Servizi Segreti Vaticani), che lo aiutò a ottenere l’accesso alla Commissione Papale per l’Assistenza ai Profughi, cosicché, già nel 1944, la ratline di San Gerolamo poteva considerarsi operativa grazie alla gran quantità di documenti in bianco fornita proprio dalla Commissione: nella maggioranza dei casi, tali documenti andavano a profughi veri, ma, in alcuni casi, fornirono la copertura diplomatica di cui criminali di guerra quali il “boia di Lione” Klaus Barbie, Vjekoslav Vrancic, il generale Kren, lo stesso Pavelić e centinaia di SS croate, albanesi e montenegrine si servirono per eludere la giustizia.

 

Attraverso i documenti vaticani, Draganović poteva ottenere il visto d'ingresso in Argentina dal DAIE (Delegacion Direcion Argentina de Immigracion Europea), per altro diretta dall'ex ufficiale delle SS Carlos Fuldner e, con l'accondiscendenza di Juan Peron, far sparire ogni traccia dei suoi “protetti” in Sud America.

Tutta l'operazione non era, però, a titolo gratuito.


A quanto pare, Draganović (che tornò poi in Croazia, dove morì nel 1983, probabilmente dopo essere stato anche, dal 1967, spia dei Servizi di Tito) era solito farsi consegnare dagli ex ustascia tutto l'oro e le ricchezze che essi avevano trafugato agli ebrei e ai serbi e che avevano portato con sé.


Proprio questi beni, che molti sostengono siano finiti nelle casseforti dello IOR, la Banca Vaticana, hanno recentemente riportato agli onori della cronaca la questione della ratline romana: il 15 novembre 1999, i procuratori Tom Easton e Dr. Jonathan H. Levy di San Francisco hanno aperto una “class action” contro la Banca Vaticana e contro l'Ordine Francescano a nome dei congiunti delle vittime del regime di Pavelić, che vorrebbero la restituzione dei beni trafugati ai loro cari e, secondo gli avvocati, ora trattenuti illegalmente nelle casse pontificie. Sebbene la Corte Distrettuale si sia dichiarata incompetente a procedere contro lo IOR, il giudizio è passato direttamente alla IX Corte d'Appello ed il processo è ancora in corso.


Ma su che basi storiche è possibile sostenere che il “tesoro degli Ustascia” sia finito in Vaticano?


Come accennato, il referente vaticano diretto di Draganović era il vescovo Montini, nella sua qualità di incaricato degli “affari straordinari” della Segreteria di Stato e, nel corso del processo è stato chiamato a testimoniare l'ex agente del CIC di stanza a Roma William Gowen, la cui deposizione, poi pubblicata dal giornale israeliani Haaretz è stata: “Ho interrogato personalmente Draganović, il quale mi ha detto di dipendere direttamente da Montini”. L'ex agente ha, inoltre, testimoniato che Montini, avvertito dell'investigazione di Gowen dal capo dell'OSS romana James Angleton, avrebbe accusato l'agente presso i suoi superiori di indebite intromissioni negli affari della Santa Sede e di violazione della immunità vaticana, onde bloccare la sua attività. Infine, Gowen ha asserito, senza ombra di dubbio, di aver potuto appurare che il “tesoro degli Ustascia” era stato incamerato dalla Banca Vaticana, che lo aveva utilizzato in parte per il mantenimento della ratline e in parte per finanziare attività religiose.

Naturalmente, la testimonianza di un singolo agente può avere un valore molto relativo, ma se il lavoro “sporco” di un singolo prelato, come nel caso di Hudal avrebbe potuto passare inosservato nell'incredibile opera umanitaria svolta dalla Santa Sede nel periodo post-bellico, certamente, qualora le accuse di Gowen fossero provate, ben più difficile sarebbe poter pensare che un tale passaggio di fondi attraverso lo IOR avvenisse all'insaputa delle alte prelature e, forse, del Papa stesso e comunque, con ogni probabilità almeno il futuro Paolo VI ne avrebbe dovuto avere piena conoscenza.


Nel qual caso, l'unica spiegazione per un tale crimine (perché, anche volendo includere l'attenuante del fine umanitario, comunque, in tutte le legislazioni del mondo, il favoreggiamento nei confronti di criminali conclamati è un crimine) da parte delle gerarchie vaticane risulterebbe ancora una volta essere il tentativo di costruire un fronte di uomini di idee chiaramente antibolsceviche per tentare di frenare l'avanzata comunista verso occidente.

 

Insomma, ancora una volta, il solito “i nemici dei miei nemici sono miei amici” che, coinvolgendo anche, in misura maggiore o minori, i servizi segreti delle potenze vincitrici, segnò una dei picchi più bassi del diritto internazionale.

 

 

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[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]

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