“Definire la Chiesa Cattolica complice dei crimini
nazisti è non solo palesemente falso dal punto di vista
storico ma è anche, alla luce dell’opera di salvataggio
compiuta nei confronti di migliaia di ebrei, chiaramente
fuorviante e frutto di una intenzione malevola e
ideologizzata”
Così scriveva, già nel 1949, Padre Alessandro Bencivenga
sull'Osservatore Romano.
E aveva ragione. Indubbiamente la Chiesa Cattolica non
fu complice e neppure fiancheggiatrice del nazismo in
nessuna forma, anzi, là dove e quando possibile, cercò
di lenire le sofferenze delle vittime di uno dei regimi
più efferati della storia: migliaia di documenti
provenienti da decine di paesi possono confermare questo
dato.
Ma non essere complice e connivente non significa non
essere quiescente. Certo, ci si dovrebbe intendere su
cosa s'intende per Chiesa Cattolica, ma se, per uso
comune, con questo termine s'intende l'alta gerarchia
pontificia al cui vertice si pone il Papa, indubbiamente
i silenzi (per alcuni versi giustificabili, per altri
difficilmente spiegabili) di Pio XII e del Vaticano di
fronte ai crimini hitleriani configurano quantomeno
appunto un certo grado di quiescenza o, in termini più
apertamente religiosi, quello che potremmo chiamare un
“peccato d'omissione”.
Il vero problema, però, dal punto di vista storico, è
proprio quello definitorio. Perché se con il termine
Chiesa vogliamo intendere l'intero corpus dei
credenti cattolici, allora, altrettanto indubbiamente
possiamo affermare che la gran parte dei cattolici
europei i cui paesi caddero sotto regimi dittatoriali
nazi-fascisti, Germania in primis, furono forse ben più
che quiescenti e, in numerosi casi, addirittura
largamente conniventi appunto con tali regimi.
Poi, esiste, tra i due estremi, una terza zona: quella
della Chiesa intesa come membri effettivi e certificati
della Chiesa stessa, come suoi rappresentanti per
vocazione e professione, gli ecclesiastici.
E qui entriamo in un terreno difficile: storicamente,
riguardo all'atteggiamento verso il nazionalsocialismo,
questa Chiesa, la Chiesa in abito talare, si presentò
completamente e inequivocabilmente divisa, con posizioni
che coprirono l'intero arco delle possibili reazioni
verso l'esistente: dall'odio che spinse alcuni preti ad
unirsi alle squadre partigiani al silenzio ostile dei
più, dalla quiescenza politica alla connivenza e,
addirittura, alla complicità più marcata di altri.
Se, sulla base della “Lettera Evangelica”,
l'atteggiamento di coloro che imbracciarono i fucili per
difendere la libertà può apparire teologicamente
(sebbene non umanamente) problematico, ciò che,
sicuramente, stupisce maggiormente è che alcuni “uomini
di Dio” possano aver così apertamente tradito lo Spirito
della Fede a cui avevano deciso di dedicare la loro
stessa esistenza, per rendersi correi dei misfatti di un
regime criminale.
Eppure, ciò avvenne: dalla Slovacchia alla Croazia,
dalla Germania alla Spagna, centinaia di sacerdoti e
alti prelati non esitarono a schierarsi pubblicamente a
favore dell'ideologia nazifascista e a sostenerla
addirittura dal pulpito, se non, criminalmente, con
azioni concrete.
Ma, al di là delle responsabilità morali ed oggettive
dei singoli, vi fu anche chi si spinse ben oltre,
portando la propria fedeltà al di là di quella che, con
un certo grado di eufemismo, potremmo chiamare umana
debolezza, errore di giudizio, convenienza del momento,
per aderire alla follia nazista anche quando essa era
stata sconfitta dalla storia e quando i suoi orrori
erano diventati di pubblico dominio, segnando così uno
dei punti più bassi e ingiustificabili della vita del
Cattolicesimo, un punto che ha un nome ben definito: “Ratline”.
Letteralmente, una “ratline” è una cima che conduce alla
sommità dell'albero maestro di un veliero, estrema via
di fuga in caso di naufragio, ma, storicamente, questo
termine ha assunto tutt'altro significato, venendo ad
indicare un elemento fondamentale di quel sistema che,
con il tipico gusto nazista per gli acronimi, è
diventato famoso come O.D.E.S.S.A (Organisation Der
Ehemaligen SS-Angehörigen, Organizzazione degli
ex-membri delle SS), l'ultima possibilità di salvezza
per i criminali nazisti.
Ma procediamo con ordine.
Siamo nell'agosto del 1944 e ormai è chiaro per chiunque
non sia perduto, come Hitler, Goering o Himmler, in
sogni che ormai rasentano il puro vaneggiamento che la
Germania nazista si avvia verso la totale sconfitta.
A Strasburgo, all'Hotel Maison Rouge, protetti da
imponenti misure di sicurezza, si incontrano alcuni
degli uomini più potenti del III Reich: per l'apparato
politico-militare ci sono Bormann, Speer e Canaris, per
la grande industria Kirdorf, Krupp, Thyssen e alcuni
altri, per le banche Von Schroeder...
L'ordine del giorno è breve, ma fondamentale: cosa fare
“dopo”, quando Hitler non ci sarà più e quando il Reich
sarà, come appare ormai inevitabile, spazzato via.
Per gli esponenti del mondo economico-finanziario, si
tratta di salvaguardare i propri capitali, ma per i
gerarchi del partito, al di là della paventata ma remota
possibilità di poter far sorgere un IV Reich, si tratta
di salvarsi la vita.
Per entrambi, la sola speranza sembra risiedere nella
fuga, una fuga finanziata dai capitalisti e progettata
nei minimi particolari, tenendo conto delle situazioni
politiche dei paesi di destinazione e delle eventuali
relazioni dei presenti all'incontro con tali nazioni.
Il risultato fu la designazione di tre itinerari
principali:
1) Monaco – Salisburgo – Madrid;
2) Monaco – Salisburgo – Genova – Medio Oriente;
3) Monaco – Salisburgo – Genova – Buenos Aires.
Quello che più ci interessa è quel “passaggio per
Genova” che caratterizza le ultime due “ratline”: perché
proprio Genova? Certo, perché è un porto d'imbarco, ma
perché, allora, non Venezia o Marsiglia?
La risposta, ottenuta dagli storici e giornalisti
americani Aarons e Loftus nel corso di una loro lunga e
dettagliatissima inchiesta, è quantomeno sconcertante:
perché a Genova c'era l'arcivescovo Giuseppe Siri
disposto a nascondere i criminali nazisti in attesa d
imbarco, in quella che, tristemente, divenne poi nota
come “via dei monasteri”.
Chi era quello che sarebbe poi divenuto (dal 1953) il
cardinal Siri, l'uomo che per ben quattro volte (1958,
1963 e due volte nel 1978) fu ad un passo dal divenire
Sommo Pontefice (e che, forse, a detta di alcuni
vaticanisti, lo divenne, anche se per soli pochi minuti,
nel 1958)?
Sacerdote dal 1929, brillante teologo tomista e docente
di teologia dogmatica, vescovo dal 1944, Siri si
contraddistinse per tutta la sua carriera ecclesiastica
e in particolare lungo il corso del suo vescovato
genovese (che si concluse solo con la sua morte nel
1987, ben oltre il canonico termine dei 75 anni di età)
per le sue posizioni ultraconservatrici: accolse nel
seminario di Genova molti seminaristi "tradizionalisti",
che, altrimenti, sarebbero usciti dalla Chiesa
Cattolica, ordinando vari di loro tra lo scontento di
parte del clero genovese; i sedevacantisti gli offrirono
(per sua stessa ammissione) la loro corona molte volte
ed egli contraccambiò le loro simpatie appoggiando con
tutte le sue forze la permanenza nella Chiesa Cattolica
di presbiteri di tendenze lefebvriane; ordinò che tutti
i preti della sua diocesi vestissero sempre l'abito
talare, considerando l'abbandono di esso come un segno
di infedeltà al ministero; avversò prima e durante il
suo svolgimento il Concilio Vaticano II e lottò affinché
prevalesse una linea il più possibile fedele alla
Tradizione; soprattutto, fu uno dei cardinali più ostili
alla partecipazione del Partito Comunista al governo
italiano.
Insomma, Siri fu sempre un personaggio “scomodo”, legato
a posizioni che molti consideravano sorpassate e persino
retrive, ma, soprattutto, in modo totale,
incondizionato, quasi crociato, fu, per tutta la vita,
un accesissimo nemico del comunismo, “dottrina atea,
inumana e negatrice di ogni verità di fede”.
è qui che
incontriamo per la prima volta il presupposto che può
spiegare ogni possibile contatto tra uomini di chiesa e
criminali di guerra nazisti, quel “il nemico del mio
nemico è mio amico” che portò alla più inedita e
sorprendente delle alleanze immediatamente postbelliche.
E che questa alleanza fosse ben presente a Genova a
partire dal 1946 è fatto più che provato.
Al di là dell'accusa di Aarons e Loftus di essere uno
dei coordinatori della “ratline” vaticana, considerata
responsabile della fuga di oltre 5000 criminali, accusa
probabilmente esagerata (Siri, alla prova dei fatti,
risulta più che altro essere, al massimo, un
fiancheggiatore ideologico ed un esecutore, piuttosto
che un capo della linea), il vescovo di Genova era
sicuramente in stretto contatto con uno dei maggiori
responsabili dell'organizzazione ODESSA, Walter Rauff e
con il sacerdote croato Karlo Petranovic, ex-dirigente
della milizia croata ustascia.
Quest'ultimo, nel 1989, intervistato da Aarons e Loftus,
ammise senza problemi di aver aiutato un paio di
migliaia di persone a lasciare l'Italia via Genova e che
i nazisti che giungevano a Genova erano ottimamente
assistiti da alti dignitari cattolici.
Anzi, la Pontificia Commissione di Assistenza aveva
perfino un ufficio nella stazione ferroviaria della
città e patrocinatore di questa struttura di supporto
era proprio l'arcivescovo Siri, fondatore del "Comitato
Nazionale per l'Immigrazione in Argentina" e del
comitato diocesano “Auxilium” (una organizzazione di
aiuto ai profughi), entrambi impegnati ad aiutare i
fuggiaschi.
Secondo un rapporto dei servizi segreti americani del
1947, l'arcivescovo dirigeva "un'organizzazione
internazionale il cui obiettivo è predisporre
l'emigrazione in Sud America di europei anticomunisti...
Questa etichetta generale di anticomunisti copriva
ovviamente tutte le persone politicamente compromesse
con i comunisti, e segnatamente fascisti, ustascia e
altri gruppi simili".
Un importante centro di accoglienza, della struttura
gestita da Siri, fu la chiesa genovese di San Teodoro,
dove molti fuggiaschi sostarono e ricevettero cibo,
assistenza, documenti per imbarcarsi sulle navi dirette
in Sud America, perlopiù bastimenti della linea Costa:
un traffico cospicuo, di cui sono indizio i numerosi
"titoli di viaggio" rilasciati all'epoca dal locale
ufficio della Croce Rossa Internazionale e tuttora
custoditi negli archivi di Buenos Aires.
Il parroco di San Teodoro, Bruno Venturelli, fiduciario
di Siri, amico dell'armatore Giacomino Costa, e per sua
stessa ammissione traghettatore di nazisti nel Nuovo
Mondo, fu additato dall'ex ministro francese del governo
di Vichy, William Guyedan, già condannato per
collaborazionismo, come colui che lo aiutò nella fuga:
"Mi imbarcai a Genova con l'aiuto di una persona molto
gentile, padre Venturelli, aiutante del cardinale".
Insomma, che Siri fosse implicato nella “ratline” è
molto più che un semplice sospetto.
La domanda, a questo punto, è se agisse per iniziativa
personale (mossa dal suo anticomunismo viscerale) o per
ordini superiori e non si tratta di una domanda oziosa:
secondo alcuni storici la presa di posizione di Siri,
infatti, implica necessariamente l'esistenza di una
preventiva intesa tra i vertici nazisti e la Santa Sede.
Secondo i giornalisti Marisa Musu e Ennio Polito,
l'udienza segreta che Pio XII concesse al generale Karl
Wolff, comandante supremo delle SS e della polizia
tedesca in Italia, dieci giorni prima dell'arrivo degli
alleati a Roma, era proprio finalizzata proprio al
raggiungimento di un accordo bilaterale tra la Santa
Sede e gli alti gradi delle gerarchie naziste per
garantire il passaggio dei poteri, senza scosse, dai
nazisti agli anglo-americani (favorevole al Vaticano che
temeva una insurrezione popolare di stampo comunista), e
l'aiuto della Chiesa alla messa in salvo, a guerra
perduta, del maggior numero possibile di gerarchi e
criminali nazifascisti (favorevole, naturalmente, ai
nazisti).
Sebbene la possibilità di un coinvolgimento diretto
delle alte gerarchie della Santa Sede e del Papa in
particolare appare piuttosto dubbia e, comunque, non
suffragata da prove certe e nonostante il fatto che,
probabilmente, il Vaticano si sarebbe prodigato per
salvare chiunque fosse dichiaratamente cattolico o,
almeno, anti-bolscevico, resta il fatto certo che il
cuore della “ratline” risiedesse all'interno delle mura
papali.
A tirare le fila, erano, in particolare, due personaggi
piuttosto ambigui: monsignor Alöis Hudal, responsabile
della sezione per l'espatrio dei criminali tedeschi e
padre Krunoslav Stjepan Draganović, responsabile della
sezione espressamente dedicata alla fuga dei criminali
legati al regime ustascia in Croazia.
Per comprendere quanto questi due prelati agissero in
prossimità dei vertici papali, è necessario analizzare
brevemente le loro biografie.
Tra i due, Hudal è, probabilmente, quello il cui ruolo è
più chiaramente definito.
Nato a Graz, studioso delle Chiese Slavo-Ortodosse,
dottore in Teologia e in Sacre Scritture, dopo essere
stato cappellano militare durante la Prima Guerra
Mondiale, dal 1923 in poi fu (pare su raccomandazione
dell'ambasciatore austriaco Von Pastor, che voleva un
connazionale in quella posizione) rettore del “Collegio
Teutonico di Santa Maria dell'Anima”, il seminario
romano per i preti di lingua tedesca e, dieci anni dopo,
ottenne da Pio XII anche la titolarità della diocesi di
Aela.
Con il rettorato dell'“Anima”, praticamente Hudal
divenne il più influente prelato austriaco della cerchia
vaticana, ma qualcosa doveva cambiare a causa delle sue
idee politiche: dal luglio 1933, dopo aver a lungo
osteggiato le posizioni pangermanistche, cominciò, con
un improvviso voltafaccia, a dichiararsi fervente
sostenitore di tale causa, ad assumere posizioni sempre
più violentemente antisemite (accusando addirittura i
banchieri ebrei di voler mettere le mani su Roma) e a
radicalizzare la sue già comunque anche in precedenza
ben evidenti idee anti-comuniste, anti-liberali ed
anti-parlamentari, fino ad allinearsi a quel credo
politico dei vari Schuschnigg e Von Papen poi definito “clerico-fascista”.
Probabilmente, le ragioni principali di tale
allineamento sono da cercare nell'ascesa del comunismo
in Austria, con la paura che il marxismo sovietico
avrebbe finito per invadere l'Italia e distruggere il
cristianesimo, e nella visione dell'ascesa nazista come
dell'unico baluardo che si potesse frapporre tra il
“pericolo rosso” e la Santa Sede. Di fatto, comunque,
Hudal, in questa prospettiva, divenne a tutti gli
effetti un nazista, sicuramente critico, ma pur sempre
nazista. Quasi certamente è falsa la teoria di una sua
iscrizione ufficiale all'NSDAP, ma quando, nel 1937, il
“vescovo hitleriano” pubblicò il suo I Fondamenti del
Nazionalsocialismo, non rimase nessun dubbio a proposito
della sua posizione.
Tra l'altro, pare che Hitler stesso sia rimasto molto
colpito dal testo e che, nonostante le proteste dei
numerosi gerarchi contrari ad un commento sull'ideologia
nazionalsocialista proveniente da un ecclesiastico, ne
abbia fatte stampare 2000 copie da distribuire tra i
maggiori esponenti del partito, “a scopo di studio”.
In realtà, Hudal, nel testo, era molto critico nei
confronti di alcuni dei maggiori ideologi del partito,
quali Rosenberg, Himmler e Bergeman, accusati di voler
scristianizzare un messaggio come quello nazista, che,
secondo lui, risultava, in fondo, pienamente compatibile
con la fede cattolica ed è su questa linea che il
vescovo presentò il nazismo a Pio XI: come un movimento
diviso tra una “sinistra” malvagia (appunto i vari
Rosemberg, Himmler, etc.) ed una “destra” buona (quella
di Von Papen e, secondo lui, di Hitler); il cui unico
scopo era quello di preservare i valori occidentali
dall'avanzata del bolscevismo. Purtroppo, Pio XI si
lasciò convincere e il Mein Kampf non venne mai messo
all'indice.
Ovviamente, queste posizioni gli costarono la totale
ostilità dei “nazisti cattivi”, tanto che il suo libro
non fu fatto circolare in Germania. Nonostante ciò e la
piega decisamente anti-cattolica presa da molti
provvedimenti nazisti (dalla proibizione dell'educazione
religiosa nelle scuole all'abolizione del crocefisso
negli uffici pubblici, alla confisca di numerosi edifici
religiosi), Hudal non ritrattò mai le sue posizioni e
arrivò ad attaccare piuttosto duramente la Mit
Brennender Sorge, in nome di una “naturale omogeneità
tra Stato Tedesco e Cristianesimo” che doveva opporsi al
“nemico giudeo-marxista”.
Il suo estremismo lo portò, al termine del regno di Pio
XI e lungo tutto il regno di Pio XII, a venire isolato
all'interno del Vaticano: gli venne mantenuto (fino al
1952) il rettorato dell'“Anima”, ma gli fu negato
qualunque accesso alla corte papale.
Fu, probabilmente, in questo periodo che, come affermato
da alcuni storici, Hudal divenne un informatore del
servizio segreto tedesco, con frequenti contatti con il
capo della Gestapo in Italia, Waler Rauff. Forse,
proprio in occasione di tali contatti i due cominciarono
ad elaborare i piani per quella che divenne una delle
più importanti “ratlines” europee.
Comunque stessero le cose, certamente, a partire dal
1945, Hudal divenne il centro della rete di fuga dei
nazisti, in quello che egli stesso, in seguito, definì:
“un atto di carità verso persone in estremo bisogno, non
colpevoli di alcunché e rese capri espiatori di un
sistema malvagio”. Formalmente, il vescovo agiva
dall'Ufficio Austriaco a Roma, in grado di fornire le
“Carte di Riconoscimento” indispensabili per emigrare,
anche se non è ben chiaro se vi operasse come incaricato
ufficiale dell'Organizzazione Pontificia per i Rifugiati
o come capo della comunità cattolica austriaca in
Italia.
In ogni caso, tra i criminali di guerra aiutati da Hudal,
certamente figurano personaggi del calibro di Franz
Stangel, comandante del campo di Treblinka (a cui Hudal
fornì la “Carta” per fuggire in Siria), Edward Roschmann,
il “macellaio di Riga”, Josef Mengele, l'“angelo della
morte” di Auschwitz, Gustav Wagner, comandante del campo
di Sobibor, Alois Brunner, organizzatore delle
deportazioni in Francia e Slovacchia, Adolf Eichmann,
pianificatore della “Soluzione Finale”, Otto Wächter,
creatore del ghetto di Cracovia e responsabile della
morte di quasi due milioni di ebrei polacchi, che, dopo
la guerra visse per quattro anni in un monastero romano
facendosi passare per frate.
La domanda che immediatamente sorge è: è possibile che
il Vaticano non si rendesse conto dell’incredibile rete
di connivenze che si stava sviluppando all’ombra di San
Pietro e del ruolo che un vescovo che, per quanto
marginalizzato, aveva comunque un ruolo di un certo
rilievo dell’organizzazione pontificia, stava giocando
in essa?
Oggettivamente, la risposta a questa domanda è
difficile, ma, pur lasciando un certo margine di dubbio,
probabilmente possiamo rispondervi affermativamente: il
Vaticano, al termine della II Guerra Mondiale, era
impegnato a prestare soccorso a circa 12 milioni di
rifugiati provenienti da ogni angolo d'Europa ed era
assolutamente impossibile, all'interno di questo
gigantesco sforzo per salvare centinaia di migliaia di
vite da morte pressoché certa, analizzare la posizione
politica o penale dei singoli. Proprio nelle maglie
piuttosto larghe di questo enorme sistema umanitario
potrebbe essersi infilato Hudal, per perseguire scopi
totalmente personali.
Alcuni storici sostengono che, in realtà, il vescovo
fosse una figura di secondo piano in tutta
l'organizzazione delle “ratlines”, ma i suoi rapporti ad
altissimo livello (ad esempio, la sua corrispondenza
diretta con Juan Perón, a cui il prelato austriaco
arrivò a chiedere in un colpo solo 5000 visti destinati
a “combattenti anticomunisti”) porterebbero ad escludere
tale eventualità. Potrebbe, al contrario, apparire più
realistico che Hudal di servisse del proprio ruolo per
convincere altri ecclesiastici ad assecondare i suoi
scopo, senza che, necessariamente, questi fossero consci
della causa che, involontariamente, stavano servendo:
ciò, ad esempio, potrebbe (ma il condizionale è
d'obbligo) spiegare il coinvolgimento
nell'organizzazione del direttore della Caritas di Roma,
Monsignor Karl Bayer, che utilizzò fondi specificamente
stanziati per ordine di Pio XII per pagare la fuga in
Sud America di notori criminali di guerra, e, forse,
anche la partecipazione dello stesso Siri a questa
incredibile trama (il che spiegherebbe la stranissima
posizione del futuro cardinale che, per quanto, come
detto, ultraconservatore, aveva, in effetti, aiutato la
Resistenza durante l'occupazione nazista).
Tra l'altro, Hudal, nelle sue memorie postume, si
lamentò molto della scarsissima collaborazione trovata
all'interno delle alte sfere pontificie a favore della
sua opera di “difesa della cristianità dall'avanzata
comunista”.
è davvero
difficile spingersi più oltre: chiaramente, un
ragionevole dubbio non può che persistere, ma, se anche
vi fu una qualunque forma di collusione pontificia
nell'opera di Hudal, le tracce di tale possibile
collusione vennero certamente ben nascoste e persino le
apparenze salvate, con le pressioni fatte dalla Santa
Sede, attraverso il vescovo di Salisburgo, nel 1952,
perché Hudal lasciasse la sua posizione all'“Anima” e si
ritirasse a vita privata, cosa che il vescovo
puntualmente fece, rinchiudendosi nella sua lussuosa
residenza di Grottaferrata a vivere i suoi ultimi anni
(morì nel 1963) con uno stile di vita piuttosto poco
consono al suo voto di povertà.
E si apre, così, un altro grande capitolo della
questione dei rapporti tra prelati cattolici e
organizzazione delle “ratlines”, un capitolo che ha
lasciato dietro di sé dolorosi strascichi giudiziari
che, in alcuni casi, risultano ancora aperti: quello
riguardante il “cui prodest” economico dell'intera
operazione di espatrio dei vari criminali di guerra.
Per analizzare meglio questo capitolo, però, dobbiamo
esaminare, ancorché brevemente, le vicende che
riguardano l'altro grande protagonista vaticano della
rete di fuga post-bellica: padre Draganović.
Se gli avvenimenti bellici e dell'immediato dopoguerra
relativi a Hudal mostrano un uomo dall'ideologia
piuttosto contorta e a tratti sconvolgente, quelli
relativi a Draganović disegnano una figura addirittura
aberrante, dal momento che questo frate francescano
bosniaco, riuscì a riassumere in sé ogni caratteristica
negativa che non tanto un uomo consacrato ma, in
generale, un essere umano avrebbe potuto raccogliere
dagli anni più bui della storia europea.
Nato nel 1903 in ambiente ultranazionalista, dopo gli
studi teologici e filosofici a Sarajevo, Draganović si
trasferì a Roma, dove, oltre a frequentare l'Università
Gregoriana, trovo impiego negli Archivi Vaticani. Dal
1935 in poi, ha inizio la sua “parabola nazista”:
tornato in Bosnia, divenne segretario di Ivan Šarić, il
vescovo croato di Sarajevo che, in seguito, durante la
guerra, appoggiò e incoraggiò le pulizie
etnico-religiose del poglavnik degli Ustascia Ante
Pavelić a tal punto da meritarsi l'appellativo di “boia
della Serbia”.
Le raccomandazioni di Šarić gli valsero una cattedra di
Teologia a Zagabria ed è in questo periodo che, a detta
di molti storici, Draganović diventa un influente membro
degli ustascia (certamente non l'unico religioso ad
esserlo: basterebbe ricordare il francescano, poi
espulso dal suo Ordine, Miroslav Filipović, cappellano
del battaglione delle “guardie del corpo” di Pavelić,
protagonista delle conversioni forzate degli ortodossi e
responsabile del lager di Jasenovac, o la posizione di
gradimento verso il governo fantoccio ustascia a lungo
mantenuta dell'arcivescovo di Zagabria Stepinàc, che
solo a partire dal 1943 assunse un atteggiamento critico
verso i crimini di Pavelić, atteggiamento che, forse,
gli valse la discutibile e ampiamente discussa
beatificazione da parte di Papa Giovanni Paolo II nel
1998).
Alcune fonti dell’OSS (i servizi informativi americani
durante la guerra) intervistate da Aarons e Loftus,
cercarono di chiarire l'ambigua posizione del frate
francescano, dichiarando che egli era, non
ufficialmente, il capo dei Servizi Segreti Vaticani in
Croazia e che, al contempo, collaborava con
l’Intelligence americana, francese e britannica. Di
fatto, comunque, Draganović era anche vicepresidente
dell'Ufficio per la Colonizzazione ustascia, cioè di
quell'ufficio che decideva quali serbi ed ebrei fossero
da destinare ai campi di lavoro o ai campi di sterminio.
Nel 1943, due anni dopo l'invasione tedesca dei Balcani,
la grande svolta: in agosto Draganović ritorna a Roma e
diventa Segretario di Stato della “Confraternita Croata
di San Girolamo” nel monastero di San Gerolamo degli
Illirici.
è da
questo monastero che, come ampiamente documentato dai
Servizi Segreti statunitensi, il frate bosniaco
organizzò tutte le operazioni della “ratline” croata:
grazie all'appoggio dell'arcivescovo Stepinàc, che gli
aveva procurato influenti contatti in Vaticano,
Draganović era intimo con le più alte cerchie vaticane
(dal Segretario di Stato Maglione a papa Pio XII), con i
diplomatici dell'Asse presso il Vaticano e con le
autorità italiane. In particolare, i suoi contatti erano
molto stretti con il vicesegretario di Stato Montini
(futuro papa Paolo VI, allora, secondo molti,
responsabile anche dei Servizi Segreti Vaticani), che lo
aiutò a ottenere l’accesso alla Commissione Papale per
l’Assistenza ai Profughi, cosicché, già nel 1944, la
ratline di San Gerolamo poteva considerarsi operativa
grazie alla gran quantità di documenti in bianco fornita
proprio dalla Commissione: nella maggioranza dei casi,
tali documenti andavano a profughi veri, ma, in alcuni
casi, fornirono la copertura diplomatica di cui
criminali di guerra quali il “boia di Lione” Klaus
Barbie, Vjekoslav Vrancic, il generale Kren, lo stesso
Pavelić e centinaia di SS croate, albanesi e
montenegrine si servirono per eludere la giustizia.
Attraverso i documenti vaticani, Draganović poteva
ottenere il visto d'ingresso in Argentina dal DAIE (Delegacion
Direcion Argentina de Immigracion Europea), per altro
diretta dall'ex ufficiale delle SS Carlos Fuldner e, con
l'accondiscendenza di Juan Peron, far sparire ogni
traccia dei suoi “protetti” in Sud America.
Tutta l'operazione non era, però, a titolo gratuito.
A quanto pare, Draganović (che tornò poi in Croazia,
dove morì nel 1983, probabilmente dopo essere stato
anche, dal 1967, spia dei Servizi di Tito) era solito
farsi consegnare dagli ex ustascia tutto l'oro e le
ricchezze che essi avevano trafugato agli ebrei e ai
serbi e che avevano portato con sé.
Proprio questi beni, che molti sostengono siano finiti
nelle casseforti dello IOR, la Banca Vaticana, hanno
recentemente riportato agli onori della cronaca la
questione della ratline romana: il 15 novembre 1999, i
procuratori Tom Easton e Dr. Jonathan H. Levy di San
Francisco hanno aperto una “class action” contro la
Banca Vaticana e contro l'Ordine Francescano a nome dei
congiunti delle vittime del regime di Pavelić, che
vorrebbero la restituzione dei beni trafugati ai loro
cari e, secondo gli avvocati, ora trattenuti
illegalmente nelle casse pontificie. Sebbene la Corte
Distrettuale si sia dichiarata incompetente a procedere
contro lo IOR, il giudizio è passato direttamente alla
IX Corte d'Appello ed il processo è ancora in corso.
Ma su che basi storiche è possibile sostenere che il
“tesoro degli Ustascia” sia finito in Vaticano?
Come accennato, il referente vaticano diretto di
Draganović era il vescovo Montini, nella sua qualità di
incaricato degli “affari straordinari” della Segreteria
di Stato e, nel corso del processo è stato chiamato a
testimoniare l'ex agente del CIC di stanza a Roma
William Gowen, la cui deposizione, poi pubblicata dal
giornale israeliani Haaretz è stata: “Ho interrogato
personalmente Draganović, il quale mi ha detto di
dipendere direttamente da Montini”. L'ex agente ha,
inoltre, testimoniato che Montini, avvertito
dell'investigazione di Gowen dal capo dell'OSS romana
James Angleton, avrebbe accusato l'agente presso i suoi
superiori di indebite intromissioni negli affari della
Santa Sede e di violazione della immunità vaticana, onde
bloccare la sua attività. Infine, Gowen ha asserito,
senza ombra di dubbio, di aver potuto appurare che il
“tesoro degli Ustascia” era stato incamerato dalla Banca
Vaticana, che lo aveva utilizzato in parte per il
mantenimento della ratline e in parte per finanziare
attività religiose.
Naturalmente, la testimonianza di un singolo agente può
avere un valore molto relativo, ma se il lavoro “sporco”
di un singolo prelato, come nel caso di Hudal avrebbe
potuto passare inosservato nell'incredibile opera
umanitaria svolta dalla Santa Sede nel periodo
post-bellico, certamente, qualora le accuse di Gowen
fossero provate, ben più difficile sarebbe poter pensare
che un tale passaggio di fondi attraverso lo IOR
avvenisse all'insaputa delle alte prelature e, forse,
del Papa stesso e comunque, con ogni probabilità almeno
il futuro Paolo VI ne avrebbe dovuto avere piena
conoscenza.
Nel qual caso, l'unica spiegazione per un tale crimine
(perché, anche volendo includere l'attenuante del fine
umanitario, comunque, in tutte le legislazioni del
mondo, il favoreggiamento nei confronti di criminali
conclamati è un crimine) da parte delle gerarchie
vaticane risulterebbe ancora una volta essere il
tentativo di costruire un fronte di uomini di idee
chiaramente antibolsceviche per tentare di frenare
l'avanzata comunista verso occidente.
Insomma, ancora una volta, il solito “i nemici dei miei
nemici sono miei amici” che, coinvolgendo anche, in
misura maggiore o minori, i servizi segreti delle
potenze vincitrici, segnò una dei picchi più bassi del
diritto internazionale.