contemporanea
CHAPLIN E IL GRANDE DITTATORE
UN CAPOLAVORO DI INTELLIGENCE
SULLA GERMANIA NAZISTA
di Gianfranco Massetti
Sulle pagine del londinese “Spectator”
il 21 aprile del 1939 compariva un
articolo anonimo su Charlie Chaplin. «La
Provvidenza – diceva l’articolo – era in
vena d’ironia quando, esattamente
cinquant’anni fa, dava ordine che
Charles Chaplin e Adolf Hitler facessero
il loro ingresso nel mondo a quattro
giorni di distanza l’uno dall’altro […]
Entrambi, in modi diversi, hanno
espresso le idee, i sentimenti, le
aspirazioni dei milioni di cittadini che
si arrabattano fra le sfere più alte e
quelle più umili della società; la data
di nascita quasi comune e i baffetti
identici (volutamente grotteschi in
Chaplin) potrebbero essere stati
preparati dalla natura stessa per
sottolineare la natura analoga del loro
genio; ché entrambi, senza dubbio, di
genio sono dotati. Tutti e due
rispecchiano la stessa realtà: la
condizione del “piccolo uomo” nella
società moderna; e tutti e due la
rispecchiano in modo distorto, l’uno in
senso positivo, l’altro in senso
orribilmente negativo. In Chaplin,
l’ometto è un clown timido,
inefficiente, pieno di infinite risorse
ma sconcertato da un mondo che non ha
posto per lui: se dà un morso a una
mela, ci trova un verme; i suoi
pantaloni, lacero residuo di eleganza,
lo fanno inciampare; il suo bastone da
passeggio arieggia a uno chic del tutto
ingiustificato; se aziona una leva è
quella clamorosamente sbagliata e ne
consegue una catastrofe. È una figura
eroica, ma eroica solo nel senso che sa
affrontare tutti i colpi del destino con
pazienza e con spirito indomito; è una
figura che emula gli angeli nel suo
comportamento ingenuo e nella sua grande
capacità d’amore. In Herr Hitler,
invece, l’angelo è diventato un demonio;
gli stivali senza suola si sono
trasformati in Reitstieffeln; i
pantaloni sformati in costume da
cavallerizzo; il bastone da passeggio in
un frustino; la bombetta in una bustina
militare. Insomma, il vagabondo si è
arruolato fra i così detti
“Sturmtruppen”: solo i baffi rimangono
gli stessi».
Alla data di questo articolo, gli
avvenimenti stavano già precipitando.
Hitler nel marzo del 1938 aveva attuato
con un colpo di mano l’annessione
dell’Austria al Terzo Reich, a cui era
seguita nel maggio l’occupazione dei
Sudeti. La conferenza di Monaco del 29
settembre dello stesso anno aveva
differito la guerra soltanto di qualche
mese. Infatti, l’inizio della primavera
del 1939 aveva coinciso con la
violazione dei patti di Monaco, in
seguito all’occupazione tedesca della
Cecoslovacchia e alla rivendicazione
della città di Danzica e del “corridoio”
per la Prussia Orientale, ai danni della
Polonia.
Nell’autunno del 1940, quando il
conflitto stava già dilagando in tutta
Europa, usciva nelle sale
cinematografiche Il grande dittatore
di Chaplin, la satira del barbiere
ebreo che rievoca la vicenda del
caporale tedesco divenuto dittatore
della Germania. Come sosia del
dittatore, il barbiere si sostituisce a
lui e il clamoroso epilogo della vicenda
è il discorso di Chaplin, un inno
all’uguaglianza e alla pace. Così, Il
grande dittatore segna per l’attore
inglese l’abbandono del cinema muto e
l’archiviazione del personaggio di
Charlot, che attraverso questo lungo
discorso, pieno di buoni sentimenti,
pone fine alla sua carriera di comico.
L’analisi condotta intorno alla figura
di Charlot da parte di Hannah Arendt,
che lo assimila allo schlemil di
Heine, ovvero, secondo la filologia
ebraica del termine, allo She-lû-nu-el,
“colui che non vale nulla”, si basa
fondamentalmente su un presupposto
errato: quello delle origini ebraiche di
Chaplin; una vera e propria leggenda
metropolitana, che risale all’epoca de
Il grande dittatore e che Chaplin
non smentirà fino al termine della
guerra.
Di questa leggenda metropolitana, che
trova credito in una biografia del 1940
di Gerith von Ulm e addirittura in
numerosi documenti del FBI, la Arendt,
quando nel 1948 scrive Charlie
Chaplin: Der Suspekte, non ne è al
corrente.
«Ciò che ha condotto tutto il popolo
ebreo ai più fatali risultati – scrive
la Arendt – la sua totale incomprensione
per la politica e la sua solidarietà e
unità popolare incurante di tutti i
rapporti moderni, ha prodotto nell’epoca
moderna un’opera incredibilmente bella e
unica nel suo genere: i film di Charlie
Chaplin. In essi il popolo meno amato
del mondo ha generato la più amata
figura del tempo, la cui popolarità non
si basa su opportune mutazioni delle
allegre, stravecchie farse, ma, molto di
più, si fonda sul risveglio di una
qualità che, dopo un secolo di lotte di
classe e di interessi, si era creduta
già quasi morta: il soggiogante fascino
del piccolo pover’uomo del popolo. Già
nei primi film, Chaplin ci fa vedere
come il piccolo pover’uomo entri sempre
inevitabilmente in conflitto con i
tutori della legge e dell’ordine, i
rappresentanti della società […].
Infatti agli occhi della società Chaplin
è sempre, e per principio, sospettato,
così sospettato che la straordinaria
molteplicità dei suoi conflitti è
percorsa da un unico filo conduttore:
nessuno, neanche la vittima, si chiede
se è giusto o ingiusto. Molto prima che
il sospettato si trasformi nella figura
dell’“apolide”, il reale simbolo della
figura di paria, molto prima che veri
uomini avessero bisogno, anche solo per
sopravvivere, delle proprie astuzie di
mille specie e della grande bontà
occasionale, Chaplin istruito dalle
decisive esperienze della sua infanzia,
aveva rappresentato la secolare paura
ebraica davanti al poliziotto in cui
s’incarna un ambiente ostile, e la
secolare saggezza ebraica per cui
l’umana astuzia di Davide può avere in
certi casi la meglio sulla forza
bestiale di Golia. Ne risultò che il
paria, che sta al di fuori della società
e che è sospetto a tutto il mondo,
godeva invece la simpatia del popolo che
evidentemente ritrovava in lui tutto
quanto di umano ha il suo diritto nella
società. Quando il popolo rideva per la
travolgente rapidità con cui Chaplin
faceva sempre diventare vero il modo di
dire “amore a prima vista”, faceva però
capire anche, nel modo meno
appariscente, che questo ideale d’amore
era pur sempre amore nel senso in cui il
popolo lo intendeva – anche se gli è
difficilmente concesso di farlo
avverare».
Seguiva la Arendt in questa
interpretazione del personaggio di
Charlot, per collocarlo però in un
contesto culturale meno “esotico” e
maggiormente universale, uno studioso
come Dolf Sternberger che già aveva
assimilato Charlot al Don Chisciotte di
Cervantes e all’Idiota di Dostoevskij. A
penetrare con particolare acume l’arte
di Chaplin nel contesto della nascente
cultura di massa è invece un’analisi,
anche se incompiuta, come tutta la sua
vita, di un altro intellettuale tedesco:
Walter Benjamin.
Col cupo presentimento dell’imminente
catastrofe che doveva abbattersi sulla
Germania, Benjamin interpreta quest’arte
come una radicale dissacrazione nei
confronti della falsa coscienza del
mondo contemporaneo, dietro al cui
sussiego si nasconde una comicità che
volge in tragedia. Nel 1934, dopo aver
sentito un discorso di Hitler alla
radio, egli ci lasciava degli appunti,
che citiamo dall’introduzione di Ritter
Santini alla raccolta di alcuni saggi di
Sternberger.
«La diminuita virilità di Hitler –
sctive Benjamin – da confrontare con
quell’arte femminile dei miserabili come
li rappresenta Chaplin, tanto splendore
e tanta meschinità. I seguaci di Hitler
da confrontare con il pubblico di
Chaplin. Chaplin – la lama dell’aratro
che penetra le masse; il riso che
scioglie la massa. Il terreno del Terzo
Reich calpestato e su cui non crescerà
più filo d’erba. Proibizione delle
marionette in Italia, dei film di
Chaplin nel Terzo Reich. Ogni marionetta
può imitare la mascella di Mussolini e
ogni pollice di Chaplin può imitare il
Fürer. Il povero diavolo vorrebbe essere
preso sul serio e vuol subito offrire
l’inferno intero. La docilità di Chaplin
è visibile agli occhi di tutti, quella
di Hitler solo a quelli dei suoi
committenti. Chaplin presenta la
comicità della serietà di Hitler; quando
lui fa l’uomo per bene sappiamo chi è il
Fürer. Chaplin è diventato il più grande
attore comico perché ha incarnato il più
profondo orrore dei contemporanei. Il
modello di Hitler non è quello militare
ma quello all’ultima moda del signore
distinto, gli emblemi feudali del potere
sono fuori corso; resta solo la moda
maschile. Anche Chaplin si attiene alla
moda maschile. Lo fa per prendere in
parola la casta dei signori. Il suo
bastoncino è la canna a cui si arrampica
il parassita (il vagabondo è un
parassita come il signore distinto) e la
sua bombetta che non sta più salda in
testa rivela che pencola anche il potere
della borghesia. Si farebbe torto alla
figura di Chaplin se la si interpretasse
solo psicologicamente».
A Chaplin, l’idea di sceneggiare un film
sul dittatore tedesco era stata
suggerita da Alexander Korda nel 1937.
Tuttavia, il progetto avrebbe preso
consistenza solo un anno dopo, a partire
dall’idea centrale del film, giocata
sull’equivoco del sosia Hitler-Charlot.
A detta di David Robinson, biografo
ufficiale dell’artista, nel dicembre del
1938, Chaplin aveva già preso sul film
decisioni definitive, anche per quanto
riguardava il finale.
Il 1° settembre 1939 le armate tedesche
invadevano la Polonia e Chaplin
terminava la sceneggiatura, che il 3
settembre, data della dichiarazione di
guerra dell’Inghilterra, era
definitivamente ciclostilata. Le riprese
del film cominciarono il 9 settembre del
1939 e proseguirono fino al marzo del
1940. Il discorso finale di Chaplin fu
registrato soltanto nel giugno, mentre
gli ultimi ritocchi alle riprese e al
montaggio ebbero luogo verso la fine
dell’estate. La prima del film fu tenuta
il 15 ottobre a New York e il 16
dicembre fu la volta della prima
inglese, a Londra. Esattamente un anno
dopo gli Stati Uniti entravano in guerra
contro la Germania.
Il grande dittatore
doveva essere sul piano della propaganda
contro il nazismo un’opera devastante.
La trovata del barbiere ebreo che si
sostituisce al dittatore di Tomania non
è soltanto una satira nei confronti
dell’antisemitismo di Hitler, ma
rappresenta un raffinato lavoro
psicologico di intelligence, sul
quale sarebbe opportuno e interessante
stabilire fino a che punto arrivasse la
consapevolezza di Chaplin o le
intenzioni di chi l’avevano potuto
ispirare in questa direzione.
È importante ricordare a questo
proposito che David Robinson nella sua
biografia di Chaplin dice che all’epoca
della guerra in Europa un’indagine della
Gallup aveva riscontrato tra gli
americani una contrarietà all’intervento
nel conflitto pari al 96%.
Negli Stati Uniti, coloro che
simpatizzavano coi regimi fascisti
europei erano inoltre molto numerosi, e
i più influenti fra essi cospiravano per
tenere il loro paese fuori dalla guerra.
Tra quanti esprimevano sentimenti di
amicizia per la Germania di Hitler
doveva esservi anche il magnate della
carta stampata William Randolph Hearst,
intimo amico di Chaplin, alla cui figura
si sarebbe ispirato qualche anno dopo il
regista Orson Welles per la
realizzazione di Quarto potere.
È invece indubbio che il film di Chaplin
abbia contribuito a spostare l’opinione
pubblica americana in direzione di una
totale solidarietà con l’Inghilterra e
la Francia attraverso quella che si può
benissimo definire un’eccellente opera
di intelligence sul dittatore
tedesco.
Intorno alla metà del 1930, Hitler si
stava avviando verso un’importante
carriera politica. Fu a questo punto che
ricevette una notizia secondo la quale
due persone stavano trattando con dei
giornali americani del gruppo Hearst la
pubblicazione di una storia inerente
alcuni fatti privati della sua famiglia.
Queste due persone erano l’ex moglie e
il figlio inglesi del fratellastro di
Hitler, Alois junior, che dal 1910 fino
a poco prima lo scoppio della grande
guerra aveva soggiornato a Liverpool, in
Gran Bretagna. Una volta allontanatosi
dall’Inghilterra, senza lasciare traccia
di sé, Alois si era poi risposato in
Germania, andando incontro, intorno alla
prima metà degli anni Venti, a un
processo per bigamia.
Tuttavia, con la vicenda del
fratellastro, le notizie riservate che i
parenti inglesi del Fürer volevano
rendere pubbliche non c’entravano nulla.
Stando alle ipotesi messe larvatamente
in circolazione dai giornali, si sarebbe
invece trattato della possibilità che
nella famiglia di Hitler ci fosse un
parente prossimo di razza ebraica.
Del resto, la cosa non costituiva una
novità, dal momento che nel 1921 sul
“Münchener Post”, un giornale finanziato
dal partito socialdemocratico bavarese,
era comparso un articolo su Hitler che
faceva riferimento alle sue presunte
origini ebraiche. In quel caso, si
trattava però di un attacco sostenuto
attraverso le voci diffamatorie di una
fazione di minoranza del suo partito,
contraria alla leadership politica di
Hitler.
Ben diversa era invece la circostanza
dei parenti inglesi che non si sa bene
quali notizie volessero mettere in
circolazione sulla famiglia del Fürer.
L’intera vicenda venne messa a tacere
dal fratellastro di Hitler che invece
offriva al gruppo Hearst la
disponibilità a scrivere un più
edulcorato articolo biografico sul Fürer,
regolarmente apparso il 30 novembre 1930
sul periodico di New York “American”.
La satira del barbiere ebreo, inventata
da Chaplin per Il grande dittatore,
alla luce di una scena successivamente
scartata per il timore di incontrare il
veto della censura, risulta in questo
senso molto significativa. La scena
soppressa, dove appare la figura della
moglie del dittatore, eliminata
anch’essa nella stesura definitiva della
sceneggiatura, viene riportata nella
biografia di Robinson dalla quale
trascriviamo i dialoghi.
Signora: “Sono
una donna. Ho bisogno d’affetto, e tutto
quello a cui sai pensare è lo Stato. Lo
STATO !!! Hai idea in che stato sono
io?”.
Hynkel: “Tu
ti aspetti troppo da me. Purtroppo
anch’io invecchio. E a volte mi
chiedo…”.
Signora: “La
vita è breve, e questi momenti sempre
più rari […] Ricorda, Hyinkel, che io ho
fatto di tutto per te. Mi sono fatta
persino un’operazione […] al naso. E
sta’ bene attento, potrei dire a tutti
che sono ebrea!”.
Hynkel:
“Zitta!”.
Fanny: “E poi non sono mica tanto
sicura che non sia ebreo anche tu.
Stasera per cena avremo gefülte fish”
[si tratta di un piatto ebraico n.d.r.].
Hynkel: “Zitta, per carità!” .
In Germania, tra i numerosi pettegolezzi
che correvano intorno alla figura di
Hitler vi era anche quello raccolto dal
corrispondente americano del “Sun”,
Frederick Oechsner. In un rapporto per i
servizi segreti americani, egli
riferisce di una presunta operazione al
naso di Hitler. Il suo rapporto risale
tuttavia al 1942. Inoltre, egli sarebbe
stato l’unico a riferirsi alla
circostanza.
La scena archiviata da Chaplin per il
suo film, che parla di un’operazione al
“naso ebraico” della signora Hinkel, può
essere soltanto una coincidenza, anche
se non bisogna trascurare il fatto che
tra le possibili fonti dell’artista
riguardo alla figura di Hitler potevano
esserci anche le indiscrezioni
dell’amico Cornelius Vanderbilt, pure
lui corrispondente estero dalla
Germania.
Negli Stati Uniti, delle origini
ebraiche di Hitler si comincerà a
parlarne soltanto nel 1940, con l’arrivo
in esilio di Fritz von Thyssen, il re
dell’acciaio tedesco, che in alcuni suoi
scritti rivelava di aver finanziato il
partito nazista. Egli riferiva anche, in
un suo memoriale, di un rapporto
commissionato ai servizi segreti
austriaci dal Cancelliere Dollfuss. In
base a questo fantomatico rapporto
sarebbe addirittura documentata la
discendenza di Hitler dalla famiglia
Rothscild di Vienna, presso la quale la
nonna paterna del Fürer si presume
avesse lavorato come domestica.
Che queste voci, già ricorrenti nel
corso della carriera politica di Hitler,
avessero ripercussioni sull’altra sponda
dell’oceano Atlantico, proprio a cavallo
tra l’entrata in guerra degli Stati
Uniti e l’apertura del “secondo fronte”
in appoggio all’Unione Sovietica, può
essere comprensibile a partire dai
presupposti della guerra psicologica che
opponeva gli schieramenti rivali.
Ciò è sintomatico del fatto che fosse
attribuita in Germania altrettanta
importanza a una notizia priva di
fondamento come quella secondo cui anche
il presidente Roosevelt discendeva da
una famiglia di ebrei olandesi. Il
credito attribuito dai nazisti – e non
solo da loro – a informazioni di questo
tipo derivava dal fatto che la più
antica esegesi intorno alla figura
dell’Anticristo,
che
risale a un testo di Ireneo per giungere
fino a San Tommaso d’Aquino, vuole che
questi sia un discendente ebreo della
tribù di Dan.
Un ruolo molto importante di questa
guerra psicologica che investiva tanto
l’interesse per l’astrologia quanto
quello per le centurie di Nostradamus
rivestirono i Protocolli dei Savi
Anziani di Sion, che Hitler riteneva
attendibili a dispetto della loro
comprovata falsità. In essi, lo spettro
del millenarismo apocalittico e la paura
dell’Anticristo convivevano, appunto,
con la menzogna di una cospirazione
mondiale giudeo-massonica.
Confezionato nella Russia zarista
all’inizio del novecento, il pamphlet
antisemita dei Savi Anziani,
prima ancora che quello del Fürer,
avrebbe incontrato il favore del più
grande magnate dell’industria
automobilistica americana: Henry Ford.
L’imprenditore di origini irlandesi che
aveva adottato l’organizzazione
scientifica del lavoro, stupendamente
satireggiata da Chaplin in Tempi
Moderni, fu anche colui che diede
ampio impulso alla divulgazione dei
Protocolli non solo negli Stati
Uniti, ma nell’intero mondo occidentale.
Dopo aver provveduto, tra l’altro, al
finanziamento dei nazisti, Henry Ford
ebbe l’onore di comparire col suo
ritratto sulle pareti dell’ufficio
politico di Hitler nella sede storica
del partito, a Monaco.
Molti sono i misteri che avvolgono la
figura di Hitler, ma ce ne sono
altrettanti intorno a quella di Chaplin,
a proposito del quale i servizi segreti
britannici potrebbero essere invece
molto eloquenti.
Chaplin era giunto in America nel 1910,
al seguito della compagnia teatrale di
Karno, per rappresentare The Wow-Wows,
una parodia sulle società segrete, che
al di là dell’Atlantico godevano di un
vasto seguito. Dopo la sua tournée,
avrebbe scelto tuttavia di rimanere a
lavorare negli Stati Uniti, pur non
assumendone mai la cittadinanza.
Fu così che nei primi anni Cinquanta,
quando venne accusato di essere un
militante comunista, poté rinunciare al
proprio visto di ingresso per quel paese
con minor rimpianto, anche se poi
trascorse il resto della propria vita a
domandarsi come fosse potuto accadere
che gli muovessero queste accuse. Senza
la volontà di essere maliziosi, si
potrebbe avanzare il sospetto che a
porre fine alla carriera di Chaplin
negli Stati Uniti fosse stato qualcuno
che non aveva dimenticato la satira del
barbiere ebreo ne Il grande dittatore.
Riferimenti bibliografici:
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