N. 98 - Febbraio 2016
(CXXIX)
CHADŽI-MURAT
FRA
RESISTENZA
ANTIRUSSA
E
FOLKLORE
POPOLARE
di
Filippo
Petrocelli
Fra il 1817 e il 1864, l’impero russo dedica
energie
sostanziose
alla
conquista
del
Caucaso.
Sotto
il
nome
generico
di
“guerre
caucasiche”
vengono
incluse
una
serie
di
spedizioni,
scontri
e
vere
e
proprie
operazioni
di
conquista
combattute
dagli
eserciti
dello
Zar
nella
cerniera
fra
Europa
e
Asia.
Di quest’epopea oltre che negli archivi di
stato
c’è
traccia
in
tutta
la
letteratura
russa:
per
esempio
in
Guerra
e
pace
è
costante
il
richiamo
al
Caucaso
e
alle
sue
battaglie,
anche
perché
Tolstoj
trascorre
in
veste
di
ufficiale
diversi
anni
della
sua
vita
in
quelle
zone.
Non solo a livello di state building,
la
Russia
zarista
trova
nell’avventura
caucasica
uno
dei
suoi
momenti
costituenti
ma
persino
a
livello
di
narrazione
letteraria,
la
grandezza
del
Cremlino
passa
anche
per
il
Caucaso.
Un racconto poco conosciuto di Tolstoj
Chadži-Murat
è
invece
dedicato
a un
celebre
combattente
avàro
del
XIX
secolo,
molto
famoso
nel
folklore
ceceno,
protagonista
indiscusso
dell’epica
popolare
fatta
di
canzoni
malinconiche
intonate
intorno
a
braci
di
betulla
del
Caucaso.
Chadži-Murat è un guerrigliero esperto che
cavalca
sulle
montagne
ai
confini
della
Russia
combattendo
contro
le
truppe
zariste,
poi
alleandosi
con
le
stesse
per
fermare
il
sanguinario
Samil,
suo
vecchio
compagno
di
lotta
per
l’indipendenza
di
quelle
terre.
In quelle zone aspre di montagna i russi
sono
sempre
stati
guardati
con
diffidenza,
ceceni,
e
avàri,
un
mosaico
di
popoli
chiamati
con
sfregio
“montanari”,
attaccati
alle
tradizioni,
dove
l’Islam
e il
clan
sono
i
pilastri
della
società.
Il racconto comincia con una similitudine
fra
Murat
e un
cardo
calpestato
dalla
ruota
di
un
carro
in
un
campo
fiorito
che
nonostante
appaia
quasi
spezzato
in
realtà
resiste
con
tenacia,
sopravvive.
Gli ingredienti sono quelli classici della
grande
letteratura
russa:
il
destino,
il
continuo
contrasto
fra
bene
e
male,
una
missione
quasi
divina,
la
lotta
contro
le
avversità.
Gli Zar vogliono il Caucaso e i ceceni
invece
desiderano
preservare
gelosamente
la
loro
autonomia,
il
loro
sistema
tribale.
Murat passa da essere il “diavolo bianco”
terrore
dei
russi,
al
prezioso
alleato
descritto
come
fosse
il
“buon
selvaggio”
in
un
dialogo
struggente
nel
salotto
di
un
ufficiale
russo
che
parla
francese
con
la
moglie.
Il rapporto fra il “terribile” Murat ei il
figlio
di
Voroncov,
il
plenipotenziario
russo
cui
si
consegna,
mostra
tutta
l’umanità
di
quello
che
veniva
considerato
come
un
nemico
giurato
della
Madre
Russia.
Ma se Murat diventa umano al contatto con
i
russi,
Samil,
il
suo
vecchio
compagno
rimane
brutale.
Samil
in
realtà
è il
vero
comandante
della
resistenza
antirussa,
che
ha
persino
rapito
la
madre,
la
moglie
e il
figlio
di
Murat,
il
suo
vecchio
sodale,
per
una
faida
che
coinvolge
i
due
ceceni
da
anni.
Alla fine però il valore di Murat non viene
premiato:
ormai
Samil
è
troppo
potente
e
mentre
Murat
tenta
un
colpo
disperato
per
liberare
i
suoi
famigliari
e
cerca
di
svincolarsi
dalla
tutela
russa,
viene
catturato
e
giustiziato
proprio
dall’esercito
zarista.
Compare anche la testa mozzata di Murat
davanti
alle
più
alte
autorità
russe
sul
campo
e
questa
volta
la
similitudine
è
con
un
cardo
reciso
alla
base,
che
dopo
un
sussulto
muore.
Si
intravede
una
certa
simpatia
per
Murat
da
parte
di
Tolstoj
che
alla
fine
viene
dipinto
come
un
uomo
valoroso,
fedele
ai
suoi
principi
e
pronto
a
morire
per
la
sua
battaglia,
sconfitto
più
delle
circostanze
che
dai
nemici.
Lo scrittore russo compone questo romanzo
breve
quasi
alla
fine
della
sua
vita
non
senza
incappare
nella
censura
russa
per
il
ritratto
tutt’altro
che
simpatico
verso
Nicola
I.
Un
racconto
senza
fronzoli
di
storia
russa
che
spiega
meglio
di
tante
altre
parole
il
complesso
rapporto
dei
russi
con
il
Caucaso
e
con
la
loro
storia
recente.