N. 100 - Aprile 2016
(CXXXI)
Cesare a Zela
“VENI,VIDI,VICI”
di Carlo Ciullini
Il
genio
talvolta
(anzi,
spesso)
non
può
attendere:
e a
distinguerlo
dall’agire
comune
è
proprio
la
celerità
con
la
quale
si
mette
in
azione,
si
manifesta
agli
altri
e
palesa
tutta
la
sua
forza
immane.
Il
genio
avverte
la
scintilla,
e
segue
la
scarica
là
dove
essa
lo
porta,
fidando
ciecamente
nel
suo
istinto:
un
istinto
ispirato,
che
in
alcuni
uomini
è
stato
quasi
di
natura
divina.
E
una
sorta
di
semi-dio
incarnato
fu
Gaio
Giulio
Cesare,
la
cui
proverbiale
rapidità
di
pensiero
travalica
ancor
oggi
i
confini
della
memoria.
“V”
come
veni,
“V”
come
vidi,
“V”
come
vici:
quello
che
pare
un
gioco
di
parole,
un
esercizio
retorico
di
allitterazione,
riassume
invece
in
sé,
in
modo
conciso
quanto
efficace,
il
genio
pratico
di
Caio
Giulio
Cesare.
Uomo
di
straordinaria
azione,
Cesare
riflesse,
nelle
proprie
opere
letterarie
così
come
nei
sermoni
e
nelle
adlocutiones
alle
truppe,
l’essenzialità
di
concetto
e la
capacità
sintetica
che
sempre
mossero
i
suoi
pensieri.
Una
esposizione,
quella
di
Cesare
scrittore,
senza
svolazzi
o
ampollosità
ma,
al
contrario,
asciutta
e
sobria;
lo
stesso
accadeva
quando
si
trattava
non
di
scrivere,
ma
di
parlare.
Personaggio
dotato
di
prodigioso
intelletto,
egli
sopratutto
badò
al
sodo
e al
raggiungimento
concreto
dei
propri
obiettivi:
la
famosa
frase
“Veni,
vidi,
vici”,
inviata
celermente
a
Roma
per
annunciare
la
vittoria
conseguita
a
Zela
dopo
un’aspra
battaglia,
riassume,
nella
sua
nudità,
la
prontezza
decisionale,
la
presenza
di
spirito,
l’ardore
combattivo
sgombro
da
ogni
sorta
di
paura
del
condottiero
romano.
Indugi,
remore,
tentennamenti:
concetti
estranei
a
Cesare,
il
quale
fu
capace,
nello
scenario
di
una
respublica
ormai
agonizzante,
di
rendere
non
solo
possibile,
ma
anche
ben
saldo
il
predominio
di
un
singolo
rispetto
alle
tradizionali
istituzioni
preposte
al
governo.
Cesare,
lo
sappiamo,
non
fu
il
primo
imperatore
romano
della
Storia:
tale
carica
fu
assunta
dal
nipote,
e
figlio
adottivo,
Gaio
Ottavio,
poi
divenuto
Cesare
Ottaviano
Augusto.
Tuttavia
non
sbaglia
di
molto,
chi
ritenga
sia
stato
Cesare
il
vero
princeps
iniziatore
dell’epopea
imperiale.
Le
prerogative
di
cui
seppe
copiosamente
munirsi
(consolati
a
raffica,
dittatura
a
vita)
lo
innalzarono,
e di
tanto,
non
solo
rispetto
alla
plebs
repubblicana,
ma
anche
e
sopratutto
nei
confronti
del
Senato,
che
sino
ad
allora
aveva
retto
il
governo
della
città
e
dei
suoi
domini
in
continua
espansione.
Traspare
evidente
la
straordinarietà
dell’uomo:
egli
appartiene
davvero
alla
schiera
ristrettissima
di
coloro
che,
con
il
proprio
operato,
seppero
influenzare
non
solo
la
vita
dei
contemporanei,
ma
impressero
un’orma
indelebile
nel
percorso
della
Storia
umana.
“Alea
iacta
est”,
“Veni,
vidi,
vici”...:
sono
le
frasi
di
chi
fu
il
protagonista
assoluto
di
eventi
epocali,
e
che
non
nutrì
mai
alcun
dubbio
circa
l’iniziativa
da
intraprendere
a
corpo
morto,
con
ardore
e
vigoria
senza
pari.
Zela,
47
avanti
Cristo:
qui
ebbe
luogo
la
battaglia
nella
quale
rifulsero,
una
volta
di
più,
le
sublimi
doti
militari
di
Cesare,
che
investì
il
nemico
sorpreso
dalla
fulmineità
dell’azione.
Il
generale
proveniva
dall’Egitto
dove,
assieme
a
Cleopatra,
aveva
sostenuto
un
assedio
alla
reggia
alessandrina
portato
dalla
fazione
cittadina
ostile
alla
regina.
Ma,
pur
non
stornando
lo
sguardo
dal
Mediterraneo,
Cesare
veniva
spinto
dagli
eventi
in
Asia
Minore,
non
lontano
dalle
sponde
del
Mar
Nero.
A
Zela
già
avevano
cozzato
le
armi,
nel
67
a.C.,
quando
l’esercito
pontico
del
re
Mitridate,
uno
dei
più
fieri
nemici
che
mai
osteggiarono
Roma,
sbaragliò
le
legioni
di
Lucullo.
Un
ventennio
dopo,
Cesare
vi
si
sarebbe
scontrato
con
Farnace,
figlio
dell’ex-sovrano
ormai
morto
e
successore
al
trono
del
padre,
che
mostrava
evidenti
segnali
di
insofferenza
al
dominio
romano,
ben
radicato
in
quella
regione:
che
cosa
era
successo?
Midridate
Eupatore,
pur
duramente
sconfitto
da
Pompeo
nel
63
avanti
Cristo,
aveva
fatto
della
lotta
estrema
a
Roma
il
solo
motivo
della
propria
vita;
per
questo,
il
vecchio
re
aspirava
massimamente
a
perseguire
ogni
possibilità
di
lotta
contro
la
sua
acerrima
rivale,
pianificando
addirittura
una
invasione
del
suolo
italico.
Ma
c’era
chi
non
si
trovava
affatto
d’accordo
con
una
decisione
tanto
temeraria:
in
primis,
proprio
il
figlio
Farnace,
deciso
a
mantenere
un’assoluta,
imparziale
neutralità
nei
confronti
di
Roma,
in
attesa
di
tempi
e
occasioni
migliori.
Vistosi
abbandonato,
Mitridate,
provato
dagli
anni
e da
una
guerra
ultra-trentennale
contro
la
Respublica,
ritenne
giunto
il
momento
di
porre
fine
ai
suoi
giorni.
Il
Ponto
divenne
allora
provincia
romana,
e il
rispetto
mostrato
a
Roma
da
parte
dell’imbelle
Farnace
gli
valse
l’assegnazione
di
un
piccolo
regno,
il
Bosforo
Cimmerio,
l’odierna
penisola
di
Crimea.
Da
qui,
formalmente
alleato
dell’Urbe,
egli
assistette
da
spettatore
interessato
al
cruento
evolversi
della
guerra
civile
tra
Cesare
e
Pompeo,
non
intervenendo
a
fianco
né
dell’uno
né
dell’altro;
cosa
che
invece
fecero
prontamente
il
re
della
Galazia
Deiotaro
e
quello
della
Cappadocia
Ariobarzane,
stati-vassalli
di
Roma
schieratosi
in
Grecia
a
fianco
dei
conservatori,
e
limitrofi
al
Ponto.
Ma,
sfortunatamente,
Farsalo
non
arrise
alla
scelta
di
campo
pompeiana
dei
due...Farnace,
da
parte
sua,
non
poté
che
ringalluzzirsi,
in
segreto:
i
Romani
se
le
davano
di
santa
ragione
tra
loro,
mentre
i re
vicini,
impegnati
in
Tessaglia
al
fianco
di
Pompeo,
avevano
privato
i
propri
reami
delle
migliori
truppe
per
condurle
in
battaglia.
Grazie
a
ciò,
Farnace
aveva
rioccupato
l’antico
dominio
del
padre
e
mirava
a
nuovi
possessi,
appunto
quelli
di
Deiotaro
e
Ariobarzane,
lasciati
pressoché
incustoditi.
Domizio
Calvino
aveva
tentato
inutilmente,
con
le
sue
scarse
truppe
di
stanza
nel
Ponto,
di
contrastare
le
mire
del
“vassallo-ribelle”:
a
Nicopoli
il
legatus
era
stato
duramente
sconfitto,
e
non
pochi
cives
romani,
commercianti
per
la
maggior
parte,
ormai
indifesi
erano
stati
trucidati
dai
Pontici.
Urgeva
l’intervento
deciso
di
Cesare;
ci
rifacciamo,
per
la
ricostruzione
dei
fatti,
al
Bellum
Alexandrinum,
un
testo
che,
pur
appartenendo
al
Corpus
caesarianum,
quasi
sicuramente
non
fu
scritto
dal
dittatore,
ma
da
chi
fu
comunque
testimone
diretto
delle
vicende
descritte:
si
fa
il
nome,
al
proposito,
del
fidato
(ma
quanto
fidedegno...?)
luogotenente
Aulo
Irzio,
che
seguì
il
suo
generale
in
tutte
le
principali
campagne.
Cesare,
riportano
le
pagine
del
Bellum,
giunto
a
ritmi
forzati
in
Anatolia
dall’Egitto
cleopatreo,
incontrò
al
suo
arrivo
l’anziano
Deiotaro
che,
in
veste
di
supplice,
chiese
perdono
per
esser
sceso
in
campo
dalla
parte
sbagliata,
quella
di
Pompeo
e
dei
senatori
conservatori.
Adesso,
battuto
con
gli
alleati
a
Farsalo,
si
inchinava
al
vincitore
mettendosi
nelle
sue
mani
pietose:
e
anche
stavolta
Cesare
non
venne
meno
alla
sua
proverbiale
clemenza,
riaffidando
al
suo
legittimo
re
la
Galazia,
minacciata
dappresso
da
Farnace;
chiese
tuttavia
al
vassallo
la
consegna
della
Legio
deioterana
che,
unita
alle
sue
VI
e
XXXVI
e
agli
scampati
della
Legio
Pontica
reduce
dalla
disfatta
di
Nicopoli,
poteva
permettere
una
risistemazione
delle
cose
d’Anatolia
in
favore
della
Respublica.
Lasciato
il
vecchio
re
dei
Galati,
Cesare
si
vide
stavolta
venire
incontro
gli
ambasciatori
di
Farnace,
incaricati
di
ammansire
il
grande
condottiero,
invero
poco
incline
a un
facile
perdono:
rifiutò
da
subito,
infatti,
la
corona
d’oro
che
gli
venne
mellifluamente
offerta.
Parve
inflessibile
a
prescindere,
e
niente
affatto
malleabile:
il
non
aver
Farnace
preso
le
parti
pompeiane
non
significava,
ai
suoi
occhi,
essersi
emendato
dalla
colpa;
il
rampollo
della
casata
mitridatica,
infatti,
aveva
disatteso
agli
ordini
partiti
da
Roma
nel
bel
mezzo
del
caos
legato
alla
guerra
civile,
e il
suo
conseguente,
calcolato
non-intervento
sembrava
al
generale
romano
una
mossa
ben
studiata
in
vista
di
un
futuro
rendiconto.
Cesare
non
offrì
alternative
ai
messaggeri
di
Farnace:
innanzitutto,
il
Ponto
doveva
esser
sgombrato
e
tornare
provincia
romana;
dopodiché,
tutti
i
beni
violentemente
sottratti
nella
regione
ai
cives
e
agli
alleati
dovevano
venir
restituiti.
Farnace,
appresa
la
risoluta
risposta
del
Romano,
tergiversò,
riponendo
silente
la
propria
fiducia
nel
fatto
che
Cesare
dovesse
comunque
lasciare
l’Anatolia
a
giorni,
per
recarsi
prontamente
nella
Capitale
dove
si
esigeva
la
sua
presenza
per
sbrogliare
la
caotica
emergenza
politico-istituzionale.
Ma
il
nuovo
signore
di
Roma
subodorò
le
intenzioni
proditorie
del
re,
e
decise
di
agire
di
conseguenza,
con
impareggiabile
efficacia
e
sollecitudine.
In
un
luminoso
giorno
d’agosto,
a
Zela,
due
colline
poste
l’una
di
fronte
all’altra
furono
teatro
di
uno
scontro
protrattosi
per
poche
ore,
ma
sanguinosissimo.
L’esercito
pontico,
forte
di
ventimila
uomini,
si
era
accampato
su
un’altura
in
cima
alla
quale
si
ergeva
la
cittadina
di
Zela;
di
fronte
al
nemico,
Cesare,
improvvisamente
sopraggiunto,
fece
occupare
dalle
sue
quattro
legioni
una
collina
della
stessa
altezza
circa.
Pur
sorpreso
dall’improvviso
arrivo
delle
armi
romane,
il
figlio
di
Mitridate
diede
l’ordine
ai
suoi
di
scaraventarsi
giù
dalle
proprie
posizioni
e di
assalire
repentinamente
le
linee
legionarie,
per
quanto
ciò
richiedesse
alle
schiere
pontiche
un
attacco
tanto
impetuoso
quanto
fiaccante:
solo
una
poderosa
ascesa
dell’altura
tenuta
da
Cesare
poteva
permettere
di
scontrarsi
coi
milites
appena
giunti,
e
dunque
non
ancora
allineati.
I
ruoli
parvero
così
ribaltarsi:
i
Romani
si
smarrirono
a
loro
volta
per
l’inattesa
mossa
avversaria,
ritenendo
un
attacco
ascendente
da
parte
dei
Pontici
troppo
dispensioso
e
per
forza
di
cose
destinato
all’insuccesso.
Le
prime
fasi
della
battaglia
furono
devastanti
per
i
cesariani:
le
coorti,
colte
impreparate,
non
ebbero
la
prontezza
di
predisporre
da
subito
una
efficace
reazione,
e
cominciarono
a
cedere
il
passo
con
gravi
perdite.
Ma
il
genio
tattico
di
Caio
Giulio
Cesare
vegliava
splendente
e
protettivo
sopra
i
vexilla
delle
legioni:
niente
affatto
persosi
d’animo,
il
condottiero
piazzò
a
destra
la
Legio
VI,
poi
la
Pontica,
la
Deioterana
e,
infine,
la
XXXVI
sull’estrema
sinistra.
In
breve
tempo
le
parti
si
invertirono
nuovamente:
i
Pontici,
spossati
dalla
salita
e
dal
non
aver
fatto
crollare
la
resistenza
romana
al
primo
assalto
(che
avrebbe
dovuto
essere
necessariamente
anche
quello
decisivo),
cominciarono
a
indietreggiare
decimati.
In
un
baleno,
la
ritirata
pontica
si
trasformò
in
una
vera
e
propria
rotta,
con
le
schiere
di
Farnace
incalzate
senza
pietà
dai
legionari:
ben
pochi
furono
quelli
che
riuscirono
a
guadagnare
le
posizioni
di
partenza,
rifugiandosi
nel
campo
posto
alle
porte
di
Zela.
Fu
una
salvezza
solo
momentanea,
giacché
i
Romani
penetrarono
oltre
il
vallo
facendo
strage:
Farnace
riuscì
comunque
a
salvar
la
pelle,
galoppando
spedito
verso
il
proprio
regnucolo,
accompagnato
da
qualche
centinaio
di
cavalieri.
Seppe
mantenere
la
sovranità
sui
suoi
limitati
possessi
per
circa
tre
lustri,
prima
che
un
suo
generale,
Asandro,
lo
facesse
fuori
per
sostituirlo
sul
trono.
Non
ancora
soddisfatto,
il
regicida
consolidò
il
nuovo
assetto
dinastico
sposando
la
figlia
dell’assassinato:
per
quieto
vivere,
ad
ogni
modo,
Asandro
giurò
piena
fedeltà
a
Roma,
facendosene
un
vassallo
su
cui
riporre
piena
fiducia.
Tenersi
buona
Roma,
la
padrona
del
mondo,
risultava
a
quei
tempi
la
terapia
migliore
per
sopravvivere
serenamente
assiso
su
uno
scranno
regale.
Cessato
a
Zela
il
clangore
delle
armi,
Cesare
spedì
(pare
al
caro
amico
Gaio
Mazio)
il
leggendario
messaggio,
tanto
breve
quanto
significativo;
fu
eretto
sul
luogo
della
battaglia
anche
un
cippo
commemorativo,
riportante
le
tre
fatidiche
parole:
di
recente,
purtroppo,
è
misteriosamente
scomparso
nel
nulla.
Diciotto
secoli
dopo
Zela,
l’immortale
frase
cesariana
riemerse
tra
le
fiamme
e la
polvere
di
un’altra
battaglia,
forse
ancor
più
importante
e
significativa:
l’11
Settembre
del
1683,
infatti,
la
Lega
Santa
delle
nazioni
cristiane
(cattoliche
o
protestanti
che
fossero)
sconfisse
a
Vienna
l’esercito
turco,
che
assediava
la
capitale
austriaca
ormai
allo
stremo.
La
vittoria
cristiana
fu
fondamentale
per
la
storia
dell’Europa
moderna:
infatti
l’ondata
musulmana,
che
pareva
inarrestabile
e
destinata
a
tracimare
attraverso
l’intero
continente,
venne
definitivamente
fermata
e
costretta
al
riflusso.
Da
lì
in
poi,
l’occupazione
ottomana
dell’Europa
avrebbe
visto
restringere
considerevolmente
i
propri
confini:
e
ciò,
come
detto,
grazie
a
una
coalizione
di
paesi,
tra
i
quali
primeggiò
la
Polonia
di
re
Giovanni
III,
alias
Jan
Sobieski.
La
disfatta
dell’armata
turca,
forte
di
un
numero
di
soldati
tre
volte
superiore,
fu
dovuta
all’azione
determinata
e
fulminea
(proprio
come
quella
di
Cesare
a
Zela)
condotta
dal
sovrano
polacco:
questi,
al
termine
dello
scontro,
tanto
gravido
di
conseguenze
per
le
sorti
dell’Occidente,
inviò
al
papa
Innocenzo
XI
(sotto
i
cui
auspici
s’era
formata
la
Lega
stessa)
le
insegne
e i
vessilli
sottratti
al
nemico
messo
in
rotta.
Le
parole
al
Santo
padre
che
Giovanni
accompagnò
al
bottino
di
guerra
furono:
Veni,
vidi,
Deus
vicit.
Un
riferimento
quanto
mai
esplicito
a
ciò
che
Cesare,
tanto
tempo
addietro,
aveva
compiuto
con
pari
coraggio,
determinazione
e
rapidità
d’azione:
la
chiave
del
successo,
nell’uno
e
nell’altro
caso,
ripose
proprio
in
tali
qualità,
anche
se
il
re
di
Polonia
preferì
assegnare
i
meriti
della
vittoria
cristiana
non
a se
stesso,
ma
all’Onnipotente.
La
battaglia
di
Zela
non
assunse
i
contorni
storici
che
fecero
di
quella
viennese
una
delle
più
importanti
mai
combattute:
anzi,
si
tenne
in
una
regione
in
fondo
periferica
dei
domini
romani,
ben
lontana
da
Roma
e
dal
cuore
del
Mediterraneo.
Tuttavia,
la
perentorietà
con
cui
Giulio
Cesare
intervenne
ai
confini
della
Respublica
e
l’acume
con
il
quale,
ancora
una
volta,
seppe
volgere
a
proprio
favore
una
situazione
tatticamente
sfavorevole,
si
pongono
a
lode
del
suo
leggendario
genio
bellico.
Dal
messaggio
Veni,
vidi,
vici
spedito
a
Roma
per
annunciare
la
vittoria,
traspaiono
l’orgoglio
smisurato
e l’autoconsiderazione
sublimata
di
Cesare:
i
tre
bisillabi
furono
una
testimonianza,
fredda
ed
essenziale
nella
forma
ma
in
realtà
intensa
e
piena,
della
assoluta
consapevolezza,
da
parte
del
grande
Romano,
di
una
personale
superiorità
rispetto
a
tutti
i
contemporanei.