N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
Cesare secondo Plutarco
L’eroe del rischio in perenne lotta con il destino - PARTE II
di Paola Scollo
Dopo
il
brano
eidografico
(XV-XVII)
ha
inizio
la
narrazione
alquanto
ampia
delle
guerre
galliche
ai
capitoli
XVIII-XXVII.
Un’estensione
notevole
trattandosi
di
un’opera
biografica.
Con
ogni
probabilità
per
questa
sezione
Plutarco
non
ha
attinto
recta
via
ai
commentari
di
Cesare.
Tale
sequenza
si
pone
in
linea
con
il
taglio
encomiastico
dei
capitoli
precedenti:
ambizione,
coraggio,
audacia,
capacità
di
sfruttare
il
momento
opportuno
e
brama
di
gloria
costituiscono
i
tratti
distintivi
dell’ethos
di
Cesare
cui
Plutarco
intende
dar
luce.
In
seguito
alla
prima
significativa
vittoria
su
Elvezi
e
Tugurini
nei
pressi
del
fiume
Arar
nel
58
a.C.,
Cesare
sostenne
una
seconda
guerra
contro
i
Germani.
Lasciato
l’esercito
a
svernare
nel
paese
dei
Sequani,
si
diresse
nella
Cisalpina,
provincia
a
lui
affidata.
I
ribelli
che
abitavano
lungo
la
riva
dell’Oceano
gli
si
arresero
senza
combattere;
di
contro,
fu
costretto
a
ingaggiare
una
spedizione
contro
i
Nervii,
che
vennero
massacrati.
In
tale
occasione
il
senato
decretò
sacrifici
di
ringraziamento
agli
dèi
per
quindici
giorni
-
«quanti
mai
per
nessuna
vittoria
precedente»
(Caes.
XX
10).
«Il
pericolo
-scrive
Plutarco-
era
apparso
grande
per
essersi
sollevate
contemporaneamente
popolazioni
così
numerose
ed,
essendo
risultato
vincitore
Cesare,
la
benevolenza
che
i
più
nutrivano
nei
suoi
confronti
rendeva
ancor
più
splendida
la
vittoria»
(Caes.
XXI
1).
Tornato
in
Gallia,
Cesare
trovò
nella
regione
una
grande
guerra
tra
le
popolazioni
germaniche
degli
Usipi
e
dei
Tenteriti.
In
diciotto
giorni
mise
a
fuoco
le
terre
dei
nemici.
Nella
narrazione
di
Plutarco
non
trovano
spazio
gli
eventi
militari
del
56
a.C.
L’attenzione
viene
piuttosto
focalizzata
sui
tentativi
di
Cesare
di
sistemare
la
situazione
politica
a
Roma.
Sul
filo
di
questa
direttrice
la
guerra
gallica
non
è
che
una
parentesi.
Nell’aprile
del
56
Cesare
si
recò
prima
a
Ravenna
e di
qui
a
Lucca
per
incontrare
Pompeo
e
Crasso.
Durante
i
colloqui
venne
stabilito
che
Pompeo
e
Crasso
si
sarebbero
presentati
al
consolato
per
il
55.
Inoltre
Crasso
avrebbe
ottenuto
il
proconsolato
della
Siria
con
l’incarico
della
guerra
contro
i
Parti,
Pompeo
il
proconsolato
delle
due
Spagne
per
cinque
anni,
Cesare
la
proroga
del
proconsolato
delle
Gallie
per
altri
cinque
anni.
Pompeo
decise
poi
che
Gabinio,
governatore
della
Siria
e
già
tribuno
nel
67,
avrebbe
dovuto
ricollocare
sul
trono
d’Egitto
il
re
Tolomeo
Aulete,
cacciato
in
seguito
a
una
rivoluzione.
Cesare
invece
avrebbe
dovuto
tenere
dieci
legioni
in
armi,
sostenute
con
i
soldi
dell’erario
pubblico.
Eletti
consoli
per
il
55,
Pompeo
e
Crasso
si
impegnarono
sin
da
subito
a
trasformare
in
legge
tutti
i
provvedimenti
presi
nell’incontro
di
Lucca.
La
digressione
in
Plutarco
sul
convegno
costituisce
la
prova
decisiva
del
potere
smisurato
conquistato
da
Cesare.
Nel
novembre
del
55
Crasso
si
recò
in
Oriente,
mentre
Pompeo,
trattenuto
nei
pressi
di
Roma
per
assolvere
l’incarico
dell’annona,
fu
costretto
a
inviare
nelle
province
dei
legati.
Gabinio
portò
a
compimento
il
suo
incarico
in
Egitto.
Nel
53
Crasso
fu
costretto
a
cedere:
i
Romani
sconfitti
dovettero
rinunciare
alla
Mesopotamia.
Mentre
a
Roma
la
situazione
appariva
drammatica,
Cesare
alla
fine
del
53
fu
costretto
ad
affrontare
le
rivolte
dei
Galli,
guidati
da
Vercingetorige,
che
non
intendevano
rinunciare
all’indipendenza.
Pur
incontrando
notevoli
difficoltà,
riuscì
anche
in
questa
circostanza
a
confermare
la
sua
abilità
di
stratega.
La
resa
definitiva
dei
Galli
si
ebbe
nel
52
con
la
caduta
di
Alesia.
Cesare
concesse
trattati
di
alleanza
ai
popoli
che
ne
avevano
facilitato
la
vittoria,
tra
cui
Edui,
Remi
e
Lingoni,
mentre
ridusse
gli
altri
in
condizione
di
tributari.
Con
la
morte
di
Crasso
gli
equilibri
tra
i
triumviri
cominciarono
a
incrinarsi.
Cesare
infatti
desiderava
eliminare
Pompeo.
Negli
anni
53-52
Roma
fu
in
preda
all’anarchia.
Il
18
gennaio
del
52
Clodio,
che
aspirava
alla
pretura,
venne
ucciso
sulla
via
Appia
dalla
banda
di
Milone,
suo
competitor
candidato
al
consolato.
La
Curia
Ostilia
andò
in
fiamme
insieme
alla
Basilica
Porcia
e a
numerosi
altri
edifici.
Alla
fine
di
febbraio
il
senato
scelse
di
nominare
Pompeo
consul
sine
collega.
A
tutti
gli
effetti
diveniva
princeps,
uomo
politico
di
riferimento
per
l’oligarchia
senatoria
con
il
compito
di
tutelare
la
res
publica
da
eventuali
attacchi
da
parte
di
Cesare.
La
situazione
a
Roma
sembrava
destinata
a un
epilogo
tragico,
nonostante
fosse
viva
nella
maggior
parte
dei
senatori
la
speranza
di
giungere
a un
accordo:
nessun
uomo
di
senno
avrebbe
potuto
desiderare
la
guerra
civile
(Cic.,
ad
Att.
V
20.
8).
Nel
corso
del
49
Pompeo
si
mostrò
disponibile
ad
accogliere
le
richieste
di
Cesare
di
rinnovare
gli
accordi
di
Lucca.
Ma
non
si
verificò
nulla
di
tutto
ciò.
Cesare
inviò
a
Roma
Curione,
dichiarando
di
essere
disposto
ad
abbandonare
il
comando
dell’esercito
soltanto
se
Pompeo
avesse
fatto
lo
stesso;
in
caso
contrario,
avrebbe
difeso
se
stesso
e la
patria.
Dopo
la
lettura
in
senato
dell’ultimatum
di
Cesare,
Metello
Scipione
invitò
i
senatori
a
decretare
che
Cesare
dovesse
deporre
il
comando
ante
certam
diem,
in
un
giorno
ben
preciso,
e
che
venisse
dichiarato
hostis
publicus
qualora
avesse
opposto
resistenza.
M.
Antonio
e Q.
Cassio
Longino
tentarono
di
porre
il
veto,
ma
furono
cacciati.
Il 7
gennaio
del
49
il
senato
affidò
ai
consoli
poteri
straordinari,
in
quanto
la
patria
era
gravemente
minacciata.
Il
giorno
successivo
a
Pompeo
venne
concessa
la
piena
facoltà
di
ricorrere
a
qualsiasi
mezzo
pur
di
salvare
la
patria.
Alle
due
province
di
Cesare
furono
assegnati
due
nuovi
governatori:
la
Gallia
Transalpina
a L.
Domizio
Enoarbo
e la
Cisalpina
a
Considio
Noniano.
Da
parte
sua
Cesare
ordinò
alle
legioni
della
Gallia
Transalpina
di
oltrepassare
le
Alpi,
mentre
si
impegnò
a
guidare
personalmente
la
XIII
legione
che
aveva
con
sé a
Ravenna.
Nella
notte
del
10
gennaio
oltrepassò
dunque
il
fiume
Rubicone,
che
divideva
la
sua
provincia
dall’Italia,
raggiungendo
i
suoi
soldati
a
Rimini.
Narra
Plutarco
che
la
notte
precedente
al
passaggio
del
Rubicone
Cesare
sognò
di
congiungersi
incestuosamente
con
la
madre
(Caes.
XXXII
9).
Un
aneddoto
che
dona
ulteriore
rilievo
all’episodio
più
significativo
dell’ascesa
al
potere
di
Cesare
in
perenne
lotta
con
il
destino.
Pur
mettendo
in
luce
i
lati
più
intimi
e
deboli
dell’ethos
del
personaggio,
dubbioso
sugli
esiti
della
sua
azione
e in
preda
alla
drammaticità
degli
eventi,
Plutarco
qui
ci
consegna
un’immagine
di
Cesare
quale
stratega
impassibile,
imperturbabile
e
tenace.
Le
truppe
di
Pompeo
erano
superiori
a
quelle
di
Cesare,
che
poteva
contare
unicamente
sulle
legioni
stanziate
nelle
Gallie.
Disponeva
infatti
delle
legioni
di
Spagna,
delle
riserve
d’Italia
e
delle
nazioni
alleate,
per
non
parlare
dell’appoggio
del
senato
e
della
nobiltà,
quindi
della
possibilità
di
attingere
alle
risorse
dello
Stato.
Pompeo
immaginava
di
abbandonare
l’Italia
a
Cesare
per
rifugiarsi
con
il
senato
e
poche
forze
in
Grecia.
In
tal
modo
avrebbe
potuto
riunire
un
grande
esercito,
mentre
Cesare
era
impegnato
ad
assicurare
il
suo
potere
in
Italia
e ad
allestire
una
flotta.
Ma
non
aveva
tenuto
in
considerazione
l’imprevedibilità
del
rivale.
Cesare
marciò
fino
ad
Arezzo,
riuscendo
ad
attrarre
a sé
i
contingenti
di
Pompeo
che
andava
incontrando
per
strada.
Dopo
aver
conquistato
Corfinio,
nel
febbraio
del
49
si
diresse
a
Brindisi
al
fine
di
impedire
l’imbarco
di
Pompeo,
ma
non
vi
riuscì.
Decise
quindi
di
combattere
le
forze
di
Pompeo
in
Spagna,
di
conquistare
l’Italia,
le
isole
e
l’Africa.
In
seguito
si
volse
verso
Roma,
dove
giunse
la
sera
del
31
marzo.
Stando
a
Plutarco,
Cesare
trovò
«la
città
più
ordinata
di
quanto
non
si
aspettasse»
(Caes.
XXXV
4).
Il
senato
concesse
a
Cesare
la
piena
facoltà
di
attingere
all’erario
dello
Stato
per
reperire
fondi
in
vista
della
campagna
militare
in
Spagna.
Inoltre
il
pretore
Emilio
Lepido
accolse
una
deliberazione
del
popolo
che
nominava
Cesare
quale
comitiorum
habendorum
causa,
ossia
dittatore.
Cesare
adottò
misure
finanziarie
al
fine
di
alleviare
la
crisi
economica
causata
dalla
guerra,
senza
tuttavia
prevedere
alcuna
cancellazione
dei
debiti,
le
novae
tabulae.
Fece
approvare
un’amnistia
per
tutti
i
comandanti
politici.
Dopo
la
celebrazione
delle
ferie
latine
del
49
depose
la
dittatura
e si
recò
a
Brindisi
per
raggiungere
l’esercito.
Sbarcò
presso
la
città
di
Orico
a
capo
di
sette
legioni,
quindi
si
diresse
alla
volta
di
Durazzo.
Pompeo
lo
raggiunse.
Nel
corso
dei
primi
mesi
del
48
cercò
in
tutti
i
modi
di
costringere
Pompeo
allo
scontro.
Nella
solitudine
della
sua
tenda
Cesare
trascorse
«la
più
opprimente
di
tutte
le
sue
notti,
in
pensieri
incerti,
nella
convinzione
di
aver
fatto
un
errore
strategico
perché,
per
quanto
ci
fosse
lì
vicino
un’ampia
regione
con
le
felici
città
di
Macedonia
e
Tessaglia,
non
aveva
spostato
là
la
guerra,
ma
rimaneva
qui
presso
il
mare
dove
i
nemici
avevano
il
sopravvento,
essendo
più
assediato
dalle
difficoltà
di
quanto
non
assediasse
i
nemici
con
le
armi»
(Caes.
XXXIX
9).
Obiettivo
di
Cesare
era
lo
scontro
diretto
con
il
nemico.
Il 9
agosto
Pompeo
accolse
l’invito
alla
battaglia
nella
pianura
di
Farsalo.
Si
trattava
della
battaglia
decisiva.
E di
questo
abbiamo
conferma
a
partire
dalle
pagine
della
narrazione
plutarchea,
ricca
di
eventi
prodigiosi
che
preannunciano
la
vittoria
di
Cesare.
Sconfitto
e
prostrato
dagli
eventi,
Pompeo
si
allontanò
dal
campo
di
battaglia,
recandosi
dapprima
ad
Amfipoli
e
poi
a
Mitilene
dove,
presi
con
sé
la
moglie
e il
figlio,
su
esortazione
dello
storico
Teofane
scelse
di
rifugiarsi
presso
Tolomeo
XIV
in
Egitto.
Qui
la
morte
lo
colse
il
28
settembre
del
48.
Pochi
giorni
dopo
la
vittoria
di
Farsalo,
Cesare
si
recò
in
Egitto
alla
ricerca
di
Pompeo.
Appresa
la
notizia
della
morte
del
rivale,
si
impegnò
a
sistemare
la
situazione
nel
Paese
africano.
Ma
l’arrivo
di
Cleopatra,
sorella
del
sovrano,
sconvolse
i
suoi
piani.
La
passione
per
la
giovane
ventiduenne
spinse
Cesare
a
trattenersi
per
qualche
tempo.
Pur
contrastato
dagli
Alessandrini,
riuscì
a
porre
sul
trono
d’Egitto
Cleopatra
con
il
fratello
Tolomeo
XV.
Nella
primavera
del
47
ottenne
una
vittoria
su
Farnace
a
Zela,
annunciata
al
senato
con
la
celebre
espressione
Veni,
vidi,
vici.
Conclusa
la
guerra
alessandrina,
Cesare
fece
ritorno
a
Roma.
Dopo
aver
sedato
i
numerosi
disordini,
celebrò
i
trionfi
ottenuti
in
Gallia
ed
Egitto,
quindi
elargì
ingenti
donativi
ai
soldati
impegnandosi
a
realizzare
riforme
durature.
Gli
venne
conferita
la
seconda
dittatura
per
dieci
anni
rei
gerundae
causa
e la
praefectura
morum
per
tre
anni,
oltre
alle
prerogative
della
potestà
tribunizia.
In
tal
modo
divenne
il
padrone
assoluto
di
Roma.
D’altra
parte,
stando
a
Plutarco,
il
potere
tirannico
si
configurava
agli
occhi
dei
Romani
quale
unica
alternativa
al
dramma
delle
guerre
civili:
«Piegatisi
dinnanzi
alla
fortuna
di
quell’uomo
e
accettatone
il
freno,
ritenendo
che
la
monarchia
fosse
un
sollievo
ai
mali
delle
guerre
civili,
i
Romani
lo
elessero
dittatore
a
vita;
ciò
equivaleva,
per
comune
consenso,
a
una
tirannide,
perché
a
questo
potere
monarchico
si
aggiungeva
la
perpetuità
nel
tempo
oltre
allo
svincolo
da
ogni
imposizione
di
rendiconto»
(Caes.
LVII
1).
Pur
essendo
stato
nominato
dictator
perpetuus,
Cesare
non
si
mostrava
soddisfatto.
La
philotimia,
ovvero
la
brama
di
gloria,
era
aspetto
predominante
del
suo
ethos:
«Poiché
i
molti
successi
non
volgevano
la
sua
naturale
ambizione
e
l’ansia
di
grandi
imprese
a
godere
di
quel
che
otteneva,
ma
come
un
incitamento
e
uno
sprone
verso
il
futuro
gli
suggerivano
di
ideare
maggiori
imprese
e di
aspirare
a
nuova
gloria,
quasi
che
fosse
ormai
sazio
di
quelle
che
godeva,
il
suo
stato
d’animo,
pathos,
non
era
altro
che
invidia
di
sé,
quasi
che
fosse
un
altro,
e
tensione
verso
il
da
farsi
per
superare
il
già
fatto»
(Caes.
LVIII
4-5).
Cesare
era
animato
dalla
smania
di
progetti
sempre
più
grandi
e
ambiziosi.
E
proprio
tale
condizione
patologica
lo
avrebbe
condotto
verso
il
precipizio.
Definitivamente.
Nell’immagine
di
Plutarco
la
morte
di
Cesare
«fu
opera
di
un
dio,
daimon,
che
indirizzava
e
guidava
là
l’azione»
(Caes.
LXVI
1).
Il
dictator
fu
assassinato
ai
piedi
della
statua
di
Pompeo
dinanzi
alla
folla
interdetta
di
senatori
in
una
sequenza
di
azioni
dall’elevato
valore
rituale.
Avvolto
da
una
schiera
di
spade,
«ovunque
volgesse
lo
sguardo
incontrando
solo
colpi
e il
ferro
sollevato
contro
il
suo
volto
e i
suoi
occhi,
inseguito
come
una
bestia,
venne
a
trovarsi
irretito
nelle
mani
di
tutti;
era
infatti
necessario
che
tutti
avessero
parte
alla
strage
e
gustassero
del
suo
sangue»
(Caes.
LXVI
10-11).
L’immagine
della
bestia
trova
peraltro
riscontro
nella
rappresentazione
platonica
del
tiranno
quale
belva
feroce.
La
violenza
dei
congiurati
si
riversò
senza
pietà
sul
corpo
di
Cesare,
trafitto
da
ventitré
colpi.
Il
sangue
del
dittatore
bagnò
il
simulacro
di
Pompeo,
che
sembrava
gridare
vendetta.
La
Vita
di
Cesare
di
Plutarco
non
si
conclude
con
la
narrazione
della
morte
del
protagonista,
ma
con
il
suicidio
di
Bruto,
l’assassino
di
Cesare,
quasi
l’estrema
esaltazione
del
dominio
assoluto
e
incontrastato
del
daimon,
forza
vendicatrice
che
sempre
ha
guidato
l’eroe
amante
del
rischio
in
perenne
lotta
con
il
destino.
Fino
all’ultimo
respiro.