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N. 60 - Dicembre 2012 (XCI)

Cesare secondo Plutarco

Elogio del dictator perpetuus - PARTE I
di Paola Scollo

 

Nella galleria dei personaggi illustri ritratti nelle Vite parallele di Plutarco trova collocazione anche l’ultimo dictactor di Roma, Caio Giulio Cesare. Tale biografia è speculare rispetto a quella di un altro illustre personaggio dell’antichità, Alessandro il Grande. Due condottieri dall’indiscutibile valore sul campo di battaglia che, nell’immagine di Plutarco, rivelano notevoli affinità.

 

In effetti che Cesare, sulla scia dell’exemplum macedone, anelasse alla realizzazione di un impero universale trova per noi una chiara testimonianza proprio nelle pagine di Plutarco. La politica di conquista del fondatore del principato fu ispirata dal medesimo spirito ecumenico. Cesare progettava di conquistare il territorio dei Parti, di spingersi oltre il Mar Nero per giungere sino alla Scizia e da Oriente attaccare la Germania. Ma c’è di più.

 

Sia Alessandro sia Cesare possono essere considerati gli ispiratori di una nuova forma di governo di tipo monarchico. Per queste ragioni appare verisimile ipotizzare da parte di Cesare un forte desiderio di emulazione nei confronti di Alessandro. A tal proposito Plutarco ricorda che Cesare, mentre si trovava in Spagna in qualità di questore, scoppiò in lacrime per l’irrilevanza delle proprie imprese al paragone con quelle compiute dal Macedone. Al di là dell’attendibilità dell’aneddoto, si può immaginare che Cesare abbia realmente assunto Alessandro Magno quale paradeigma, modello di riferimento, per il proprio modus agendi.

 

Cesare, come Alessandro, non ha goduto di una fama univoca nel corso dei tempi. La duplice rappresentazione di dictator da una parte e di padre adottivo di Augusto dall’altra è da porre alle origini di tali giudizi contrastanti. Cesare fu responsabile della crisi irreversibile della libertas oppure si pose quale fondatore di una nuova realtà istituzionale? Sono questi interrogativi che dividono e che meritano una risposta. E il racconto di Plutarco può rappresentare un valido contributo verso una maggiore comprensione e consapevolezza. Osserviamolo puntualmente.

 

Un’analisi della produzione biografica di Plutarco rivela uno spiccato interesse per il valore eidografico del personaggio. Scopo prioritario è quello di mettere in luce l’ethos, ovvero la dimensione etica ma anche eidetica dell’individuo. Nella Vita di Cesare gli excursus eidografici rispondono a tale intento, pur costituendo parte integrante della narrazione degli eventi. Il primo excursus, che si estende per tre capitoli (XV-XVII), coincide con uno specifico momento del cursus honorum di Cesare, ovvero il passaggio dal consolato al proconsolato, prima della spedizione in Gallia. Non si tratta dunque di una collocazione casuale. È qui individuato da Plutarco un punto di svolta nella gestione del potere da parte di Cesare. Il biografo parla infatti di «sistema nuovo», di «diversa strada di vita» e di «azioni nuove» (Caes. XV 3).

 

Sul filo di questa direttrice, Plutarco si propone di indagare le ragioni del successo di Cesare, prima fra tutte la philotimía, nonostante per i soldati fonte di ammirazione sia piuttosto la patientia, ovvero la resistenza alle fatiche. Segue di necessità un ritratto fisico del personaggio. L’excursus eidografico si conclude con l’episodio di Cesare che cede il letto a Oppio malato, un chiaro exemplum della sua magnitudo.

 

Con ogni probabilità la sezione incipitaria della Vita di Cesare, dedicata alla descrizione della gens e delle origini del personaggio, è andata perduta. E ciò è per noi motivo di forte rammarico. La narrazione prende avvio dalle nozze tra Cesare e Cornelia, figlia di Cinna, capo della fazione mariana. Di qui l’avversione nei confronti di Silla.

 

Stando a Plutarco, era diffusa la convinzione che «Cesare avesse ottime disposizioni naturali per l’oratoria politica e che coltivasse questa inclinazione con molta diligenza, tanto che raggiunse incontestabilmente il secondo posto: al primo aveva rinunciato perché si era prefisso piuttosto di raggiungere il primato nell’attività politica e militare, non conseguendo così quel primato nell’eloquenza, cui lo portava la natura, a causa delle campagne militari e dell’attività civile con la quale arrivò al potere» (Caes. III 2). Da queste affermazioni appare evidente il ruolo di centralità che l’impegno politico assunse nella vita di Cesare.

 

Nei primi capitoli motivo di interesse per Plutarco è il crescente favore che Cesare riesce a conquistarsi. Metro per il raggiungimento del potere non è il grado del cursus honorum, ma la popolarità. Come spiega il biografo, Cesare riuscì a ottenere progressivamente una certa autorità politica grazie ai pranzi che imbandiva, alla tavola e in generale alla raffinatezza del modo di vivere (Caes. IV 5). Dapprima gli avversari sottovalutarono il favore di cui Cesare godeva presso i concittadini, ipotizzando che sarebbe venuto meno in parallelo con il diminuire delle sostanze. Tuttavia, furono poi costretti ad ammettere «che non si deve ritenere trascurabile all’inizio nessuna azione, che rapidamente diventa grande se è continua, e che poi diviene irresistibile se non viene considerata per quel che è» (Caes. IV 7). E il primo «ad aver sospettato e temuto la bonaccia dell’attività politica di Cesare, come quella del mare, e aver temuto la potenza del suo carattere, dissimulata dal tono ilare e affabile» fu Cicerone, «che disse di vedere un intendimento tirannico in tutti i suoi pensieri e in tutte le sue azioni politiche». Ma lo stesso Cicerone -scrive Plutarco- ammetteva: «quando vedo i suoi capelli così ben curati e lo vedo grattarsi la testa con un dito, davvero non mi pare che questo uomo possa concepire un pensiero così funesto, e cioè la distruzione della costituzione romana» (Caes. IV 8-9). Come tutti i politici di un certo rilievo Cesare doveva ben conoscere e praticare la dissimulatio, ovvero l’arte del “camaleontismo”.

 

Nonostante l’atteggiamento di Cesare sin dall’adolescenza potesse essere reputato una chiara anticipazione della potenza futura, fu solo in seguito all’elezione a pontifex maximus che apparve un politico temibile per il senato e gli ottimati. I tratti demagogici della sua condotta soltanto con il trascorrere del tempo apparvero una vera e propria aspirazione alla tirannia. Di qui la minaccia per la libertas.

 

Nel giudizio di Plutarco, il primo segnale del generale consenso di cui godeva Cesare si può collocare nel 73 a.C. quando, di ritorno dall’Asia, fu proclamato tribuno militare. Un secondo segnale si pone nel 69 a.C. in occasione della morte di Giulia, moglie di Mario. Cesare, che ne era nipote, tenne uno splendido elogio nel foro ed ebbe l’audacia di esporre, durante il trasporto funebre, le statue di Mario: «Era la prima volta allora che le si vedeva dopo la dominazione di Silla, dato che quegli uomini erano stati nominati nemici dello stato» (Caes. V 1-3). Il popolo lo accolse tra grida di acclamazione e ammirazione «come se riconducesse dall’Ade in città, dopo molto tempo, i ricordi di Mario» (Caes. V 3). Ulteriore motivo di stima da parte del popolo fu la laudatio che Cesare tenne in onore della giovane moglie. Un evento unico che «gli guadagnò del favore, oltre alla partecipazione al suo lutto dei più, presi d’affetto per un uomo mansueto e pieno di buoni sentimenti» (Caes. V 5).

 

Di fronte agli scontri tra i seguaci di Mario e di Silla, che tormentavano l’Urbe, Cesare scelse di sostenere la schiera mariana. A tal proposito Plutarco spiega che Cesare, quando deteneva la carica di edile, fece realizzare in segreto delle statue di Mario e delle Vittorie portatrici di trofeo e di notte le fece trasportare e innalzare sul Campidoglio. Se da una parte in molti apprezzarono tale gesto, lodando Cesare come «l’unico della discendenza di Mario che ne fosse degno», altri invece iniziarono ad affermare che «Cesare praticava una politica tirannica, riesumando onori che erano stati affossati da deliberazioni legali e che tale gesto rappresentava una prova per controllare se il popolo, in precedenza addomesticato, era stato conquistato dalle sue larghezze e gli concedeva di scherzare in tal modo e di introdurre innovazioni» (Caes. VI 4). L’episodio fu oggetto di discussione in Senato. Lutazio Catulo si levò ad accusare Cesare, affermando: «Cesare cerca di arrivare al potere non più con gallerie, ma con macchine da guerra» (Caes. VI 6).

 

Nel 68 a.C. Cesare fu nominato questore della Spagna Ulteriore, ottenendo così l’appoggio dei Transpadani e di Crasso. Venne poi eletto edile per il 65, nello stesso anno in cui Crasso ricopriva la censura. Alla morte di Metello nel 63 fu eletto pontifex maximus, nonostante i timori del senato e degli ottimati, convinti che avrebbe condotto il popolo a qualsiasi genere di eccesso.

 

Nel 62 ottenne la pretura, mentre l’anno seguente fu nominato propretore nella Spagna Ulteriore. In tale occasione rivelò ottime doti di comandante e amministratore. Scrive infatti Plutarco: «Dopo aver bene sistemato le operazioni belliche, non meno bene amministrava i problemi della pace, rendendo concordi le città e soprattutto sanando i dissensi fra debitori e creditori. [...] Con questo procedere si guadagnò buona fama e quando si allontanò dalla provincia era diventato ricco, aveva arricchito i soldati con le spedizioni ed era stato da loro salutato con il titolo di imperator» (Caes. XII 4). Un titolo che, concesso dai soldati in seguito a un trionfo, veniva di solito mantenuto sino al termine della carica.

 

Stando al racconto di Plutarco, giunto a Roma Cesare fu artefice di una vera e propria «macchinazione politica», che trasse in inganno tutti ad eccezione di Catone. Si trattava del cosiddetto primo triumvirato, la riconciliazione tra Pompeo e Crasso. In particolare, «Cesare li fece incontrare, da nemici li fece diventare amici e convogliò su di sé la potenza di ambedue, e con un atto che era definito di umanità mutò, senza che alcuno se ne accorgesse, la forma costituzionale» (Caes. XIII 4). In sintesi, nel giudizio del biografo fu proprio tale riconciliazione a segnare l’arché della drammatica stagione delle guerre civili.

 

Nel 59 Cesare fu eletto console insieme all’ottimate Calpurnio Bibulo. Presentò proposte di legge, come ad esempio la Lex Iulia agraria, adatte più che a un console a «un tribuno della plebe particolarmente audace» (Caes. XIV 2). Crasso e Pompeo si dichiararono favorevoli alla legge agraria, laddove il senato apparve turbato dall’idea di dover affrontare un «mostro a tre teste». La legge, grazie all’appoggio dei Comizi Tributi, venne approvata all’unanimità. Cesare costrinse i senatori a non opporsi all’esecuzione della legge, pena l’esilio. Tutti i senatori, Catone compreso, giurarono.

 

Durante il consolato Cesare si impegnò a far approvare le leggi che in breve tempo gli avrebbero consegnato un potere illimitato. Prima fra tutte la lex Iulia de actis Pompei, con cui convalidò l’opera compiuta in Oriente. Seguirono la lex Iulia de Ptolomaeo Aulete, con cui riconobbe l’autorità del sovrano Tolomeo Aulete, e la lex Iulia de publicanis, con cui ridusse di un terzo il canone d’appalto delle imposte d’Asia. Nel maggio o giugno dello stesso anno presentò ai Comizi Tributi la lex Vatinia de provincia Caesaris, con cui si assicurò il governo della Gallia Cisalpina e dell’Illiria con tre legioni e con la possibilità per il proconsole di nominare direttamente i suoi legati. Su proposta di Pompeo il senato aggiunse la Gallia Transalpina. La scadenza dell’incarico di proconsole venne fissata per il 28 febbraio del 54, quindi per un quinquennio. Nello stesso anno fu approvata la lex Iulia che ordinava la pubblicità dei processi verbali del senato e degli atti dei magistrati, gli acta senatus et populi Romani. Seguì un’altra legge, de pecuniis repetundis, al fine di regolare la definizione giuridica del reato di concussione.

 

Si può concludere che in breve tempo il potere del senato venne del tutto adombrato dal potere personale dei tre triumviri, ognuno dei quali sostenuto da un folto gruppo di clientes. In particolare Cesare si rivelò demagogo tenace e tribuno violento, fautore di una politica di opposizione al senato e a Catone. Culmine di questa strategia fu l’alleanza con Clodio, personaggio peraltro discutibile protagonista di un episodio vergognoso di cui Plutarco riferisce al termine della prima sezione eidografica della Vita di Cesare: nel 62 Clodio era penetrato di notte nell’abitazione di Cesare in occasione della festa della Bona Dea, vietata agli uomini.

 

Il biografo spiega che l’elezione di Clodio a tribuno della plebe, «colui che aveva contaminato le leggi del matrimonio e quelle relative ai misteri notturni», era finalizzata alla distruzione di Cicerone: «Cesare non si allontanò da Roma per la sua azione militare prima di aver messo in difficoltà Cicerone con l’aiuto di Clodio e di averlo cacciato d’Italia» (Caes. XIV 17). Nel febbraio del 58 infatti Clodio presentò una legge che prevedeva l’interdictio aqua et igni, ovvero l’esilio, per chi condannasse o avesse condannato a morte un cittadino romano senza ricorrere all’appello del popolo. Pur non essendo espressamente nominato, Cicerone fu colpito. In tale occasione Cesare sostenne Clodio, dichiarando la colpevolezza di Cicerone. Pompeo preferì allontanarsi da Roma. Il giorno precedente alla rogazione di Clodio, il 21 marzo, Cicerone abbandonò Roma, scegliendo un esilio volontario che si sarebbe concluso nell’estate del 57. Poco dopo la partenza, Clodio fece approvare un’ulteriore legge con cui imponeva all’oratore di rimanere almeno a 400 miglia di distanza dall’Urbe. Cesare poté finalmente partire per le Gallie.

 

La scelta di farsi assegnare tale provincia non è da reputarsi casuale, in quanto poteva costituire il primo passo verso la definitiva conquista del potere. Inoltre, quando a causa dell’improvvisa morte di Metello Celere il governo della Gallia Narbonese rimase vacante, Pompeo propose di assegnare la provincia a Cesare. Il senato non si oppose. Veniva così a prospettarsi una guerra più lunga e vasta, ma certamente più ambiziosa.

Riguardo alla condotta di Cesare in Gallia, Plutarco non ha dubbi: «il periodo delle guerre che combatté in seguito e delle spedizioni con le quali assoggettò la Transalpina, quasi che egli avesse iniziato un sistema nuovo e si fosse messo in una diversa strada di vita e di azioni nuove, lo rivelò come combattente e stratega inferiore a nessuno dei grandissimi o di quelli che furono soprattutto ammirati per le capacità strategiche» (Caes. XV 3). In meno di dieci anni si assicurò più di ottocento città, assoggettò trecento popoli, si schierò contro tre milioni di uomini, uccidendone un milione in battaglia e facendone altrettanti prigionieri.

 

I soldati erano ben disposti nei suoi confronti e al suo seguito divenivano colmi di coraggio. Nel giudizio di Plutarco, era proprio Cesare a incentivare tale ardore compiacendo i soldati e premiandoli senza risparmio. I soldati non si stupivano tanto per l’amore per il rischio quanto, piuttosto, per la resistenza alle fatiche, apparentemente superiore alle possibilità fisiche. Spiega a tal proposito Plutarco che Cesare «era esile di complessione, bianco e tenero di carnagione, soggetto a emicranie e ad attacchi epilettici (si dice che il primo attacco di questo male lo ebbe a Cordova). Comunque egli non prese questa sua debolezza a giustificazione di vita molle, anzi considerò l’attività militare una cura di questa debolezza, contrastando i suoi malanni con lunghissime marce, mangiando frugalmente, dormendo sempre all’aperto, faticando, e così mantenendo il corpo inattaccabile ai mali. Dormiva per lo più in carri o in lettighe, utilizzando il riposo per l’azione, di giorno andava a controllare i presidi, le città, le fortificazioni, e gli stava vicino uno schiavo di quelli abituati a scrivere sotto dettatura anche durante il viaggio, e dietro stava un soldato con la spada. Procedeva poi con tale rapidità che quando uscì la prima volta da Roma nel giro di otto giorni fu al Rodano. Andare a cavallo gli era facile fino da fanciullo: era solito infatti spingere di gran carriera il cavallo con le mani intrecciate dietro la schiena» (Caes. XVII 6).

 

Al di là dell’elevata percentuale di topoi letterari, viene qui tessuto l’elogio di un abile stratega, di un audace leader politico amante della gloria e del rischio. In questi tratti si celano le ragioni del trionfo e a un tempo della caduta di Cesare. La historia, intesa quale magistra vitae, insegna tuttavia che l’amore per l’onore può spesso sfociare in ambizione. E fu proprio tale vizio a corrompere la naturale mansuetudo di Cesare, rendendolo il dictator perpetuus della sanguinosa e odiosa stagione della guerra civile.



 

 

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