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N. 98 - Febbraio 2016 (CXXIX)

A CERCAR LA BELLA MORTE

I GIOVANI, LA GUERRA, LA MORTE E IL FASCISMO

di Elisa Temellini

 

I giovani in camicia nera sono i personaggi principali di Vecchia guardia, un film del 1934 diretto da Alessandro Blasetti di propaganda al regime. I protagonisti sono due fratelli, Roberto e Mario. Già dalle prime scene non è lasciato spazio al dubbio: il messaggio è apologetico al regime.

 

Roberto e i suoi amici partono ogni notte con una missione fondamentale: l’”insegnamento” del Fascismo agli avversari. Nel film non si vede come queste lezioni vengano impartite, lo si intuisce però... Mario, il fratello minore, è deluso di non poter partecipare alle missioni punitive in cui primeggia il fratello. Il bimbo, fin troppo intraprendente, decide di intrufolarsi nel camion dei giovani fascisti. Come potere lasciar correre, rimanere indifferenti davanti a tutte le proteste dei lavoratori rossi se neanche l’ospedale, che dirige il padre dei due giovani, non riesce a funzionare per colpa delle proteste degli infermieri? Il bambino quindi sceglie di contribuire al bene della patria ma, ahimè, rimane ucciso da uno dei fucili degli avversari. Il film finisce con il padre e il figlio sopravvissuto, distrutti dal dolore, che si recano alla marcia su Roma.

 

I giovani del Ventennio avrebbero dovuto immedesimarsi in questi “eroi”: i più grandi in squadristi e i più piccoli in coraggiosi bambini energici, infelici di non poter ancora partecipare alle violenze legalizzate commesse su persone, che per la maggior parte della volte (al contrario di ciò che mostra il registra), erano inermi e disarmati. Neanche da dire: il film ebbe successo tra i gerarchi e addirittura ricevette apprezzamenti dallo stesso Adolf Hitler.

 

Ma vediamo quanto accadeva realmente.

I giovani squadristi utilizzavano, come strumenti del mestiere, l’olio di ricino per umiliare l’avversario che non si sottometteva, le taniche di benzina per incendiare le varie sedi dei sindacati, armi e bombe a mano da usare solo se la situazione volgeva al peggio. Purtroppo queste missioni non erano ragazzate, come si usava dire allora per giustificare i propri figli, ma l’inizio e l’emblema della dittatura fascista. Tante furono le persone che rimasero ferite e tante morirono a seguito delle violenze subite.

L’ordine di istituire le squadre punitive per ogni città o territorio fu impartito da Mussolini stesso nel 1921. Le squadre rispettavano gerarchie ben organizzate: a capo vi era il ras con potere illimitato, a seguire vi erano i principi, i giovani che agivano, infine i triari da usare solo in mancanza di organici.

 

Le autorità e la polizia spesso tolleravano, se addirittura non appoggiavano questi crimini. I signorotti locali rifornivano persino gli squadristi di armi e mezzi di trasporto. Oltre ai reduci della Prima Guerra Mondiale, i componenti di queste squadre della morte, erano ragazzi che avrebbero voluto partecipare alla Grande Guerra ma che a causa della giovane età non poterono. I rozzi squadristi sfogavano su un nemico più immaginario che reale, la loro volontà di dominio. In divisa nessuno era più quello che era di giorno e, come in trincea, si trovavano assieme, uniti dallo stesso fanatismo, il figlio del medico e il figlio del contadino sospesi da regole, da schemi, dalla quotidianità e soprattutto estranei alla gerarchia familiare allora ancora particolarmente patriarcale. Il moschetto veniva contrapposto al libro e per molti come è comprensibile la scelta era ovvia e dava a questi ragazzi il piacere di maneggiare armi come fossero giocattoli.

 

Negli anni Venti, quando da poco era terminata la Prima Guerra, si ebbe un’ondata di emozioni, di fantasie, di angosce che si trasmise dalla vita pubblica alla sfera privata e dal mondo adulto a quello infantile. La Grande Guerra divenne il cavallo di battaglia del regime. Travisata e revisionata, diventò il momento storico fondatore per la giovane Italia. Essendo stata un’esperienza di massa, vissuta da tutti con sentita partecipazione e ricordata con commozione, venne facilmente manipolata al fine di suggestionare la mente dei ragazzi. Intorno al 1922, la ritualità fascista aveva già conquistato il cuore della maggioranza degli italiani: il saluto romano, il giuramento delle squadre, la venerazione dei simboli della nazione e della guerra, il culto della patria e dei caduti, le cerimonie di massa.

 

E se nei primi anni del regime la Grande Guerra e le lotte risorgimentali erano entrate nella retorica fascista come un’esperienza passata o meglio un’occasione perduta, nella seconda metà degli anni Trenta le imprese belliche da celebrare divennero quelle fasciste: la guerra d’Etiopia e la guerra di Spagna. L’ideologia fascista non crede alla pace perpetua che rende l’uomo rammollito e intimorito. Il pacifismo altro non è – secondo gli ideologi del regime – che una rinuncia alla lotta, alle virtù, alla tensione energica propria di un popolo eletto, alla vita stessa.

 

La guerra si era così impadronita delle fantasie di coloro che non l’avevano vissuta come un qualcosa di magico, una sorta di evasione dalla normale routine. Il regime prima si limitò a occupare la mente dei ragazzi italiani e in seguito si impossessò anche del tempo. Nelle prime settimane del 1935, ad anno scolastico già iniziato, i presidi delle scuole medie inaugurarono solennemente il nuovo corso di Cultura Militare, presentando alle scolaresche i nuovi professori provenienti da alti ranghi dell’esercito. Le ore annuali, prima venti poi trenta, avevano il compito di formare il cittadino–soldato, ma non solo sotto gli aspetti concreti della vita militare, piuttosto cercando di inculcare nel giovane una sorta di spirito militaresco. Lo scopo era chiaro: anche i giovani dovevano prendere dimestichezza con la guerra. Il popolo doveva prepararsi alle grandi battaglie che avrebbero dovuto fare dell’Italia un impero grandioso.

Nazareno Padellaro nel 1937, a proposito dell’educazione infantile, scrisse un testo molto esplicito, dove non molto velatamente, lasciava intendere che genere di preparazione bisognava impartire ai bimbi sin dai primi anni di vita:

 

Un fanciullo, che non esegue prontamente gli ordini è come un moschetto il cui otturatore s’inceppa. Un fanciullo che pur non rifiutando di obbedire, chiede “Perché?” è come una baionetta di latta. [...] Un moschetto, una baionetta di latta, un fanciullo che non obbedisce, sono la stessa cosa, o meglio sono tre inutili cose. [...]

Obbedite perché dovete obbedire.

Chi cerca i motivi dell’ubbidienza li troverà in queste parole di Mussolini...

 

Anche i giochi imitavano le azioni belliche. Assimilare la guerra al gioco rendeva la guerra alla portata di tutti. L’idea del sacrificio, della morte in guerra si insinuava nella quotidianità infantile. Spesso non ci si limitava di utilizzare surrogati. I ragazzi di campagna, di frequente, riuscivano a impossessarsi di armi, vestiti e accessori propri dei soldati, dimenticati, persi o nascosti durante la Grande Guerra.

Il confine che separava le due guerre, quella dei soldati e quella dei bimbi, con il passare degli anni si assottigliò sempre più. L’imitazione di battaglie armate altro non fece che illudere i bambini di essere divenuti adulti, di poter accedere all’aurea dell’eroismo tanto decantato dal Duce. E se i ragazzi più poveri simulavano più o meno inconsapevolmente la vita militare, i bambini di città, cresciuti in ambienti borghesi, si sottomettevano a una formazione fortemente patriottica.

 

I giovani cresciuti in un clima dove la violenza era legittimata si ritrovarono a combattere in un’atroce guerra e i più convinti addirittura vissero la Repubblica di Salò, illusi di partecipare a una gloriosa avventura che li avrebbe resi immortali grazie alla “bella morte”.

 

Il culto per la morte e gli eroi

La Grande Guerra aveva lasciato molti italiani amareggiati e delusi da una vittoria mutilata che disdegnavano. Il fascismo riuscì a sfruttare il malcontento generale a proprio favore e ancora, la demagogia mussoliniana cercava di illudere gli smarriti reduci che spesso non avevano trovato un posto nella società al loro ritorno dalla guerra, convincendoli dell’immenso valore che avevano ricoperto con le loro gesta eroiche. Per queste persone l’esperienza bellica era stata l’avvenimento più importante della loro vita. Cinici nei confronti della morte e annoiati dalla monotonia della quotidianità, furono soggiogati dalle parole del duce che asseriva che la morte in battaglia aveva reso proficua la vita.

 

Commemorazioni, cerimonie e inaugurazioni di lapidi testimoniavano quanto fosse stato importante il sacrificio di giovani vittime nella Grande Guerra. Non erano morti invano e sicuramente avevano ottenuto l’immortalità tipica dei grandi eroi o dei grandi santi perché il sangue dei morti aveva rinnovato l’Italia. La visione dei giovani soldati martiri conquistava il cuore di tante persone che in un modo o in un altro erano state colpite dalla Prima Guerra Mondiale. Lo stesso Mussolini era un reduce. Le modeste ferite che aveva conseguito nel conflitto divennero la testimonianza di un eroico e virile sacrificio.

 

Il fascismo si impossessò della memoria collettiva degli italiani. Numerose furono le scuole, i parchi e le vie dedicate ai caduti delle guerre di liberazione, della grande guerra e delle battaglie fasciste legate alle camicie nere e quant’altro. Il tutto serviva a creare uno spirito militaresco, ad abituarsi all’idea della morte. La morte venne così banalizzata. Era necessario, per il fascismo, che il bambino maturasse con la convinzione che morire per la patria non era un vero morire. Spesso nei romanzi per ragazzi o nelle letture scolastiche si leggeva di qualche bimbo, che per salvare una persona o comunque a causa di un gesto coraggioso, perdeva la vita. Con la sua precoce morte avrebbe fatto di sé un mito, un nuovo caduto da commemorare, un santo da ricordare nelle preghiere…

 

Tutto era studiato a tavolino e il fine principale era proprio questo: trasformare il bambino in un soldato obbediente e subordinato pronto a sacrificarsi per il prestigio della patria, impersonata da Benito Mussolini:

 

Voi siete l’aurora della vita, voi siete la speranza della patria, voi siete soprattutto l’esercito di domani.

 

Le parole del duce sembrano anticipare la carneficina a cui la maggior parte di questi bimbi andò incontro.

In realtà, il mito della giovane morte eroica risale all’Ottocento e più precisamente all’ideale romantico. Con l’aumento della vita media, la morte di un ragazzo era associata a motivazioni eroiche, da combattente o comunque una morte sacrificale per qualche ideale: una fine associata, non alla vecchiaia ma alla lotta, alla forza, alla virilità, appunto alla giovinezza. Con la Grande Guerra morire giovani era diventato tragicamente comune.

 

La Prima Guerra Mondiale uccise milioni di ragazzi che si sacrificarono per valori a loro estranei rassegnati al macello. Ma gli esiti di questa immane tragedia furono trascurati dal fascismo.

A essere esaltata fu solo la morte in battaglia di questi giovani. Ed ecco che gli anniversari, le cerimonie univano i cuori di coloro che avevano condiviso il sacrificio della guerra suscitando nei superstiti emozioni di commozione miste a orgoglio. I bambini non furono esenti da questo contagio, tutt’altro…

 

Nelle immagini della cerimonia del trasporto in treno da Aquileia a Roma del Milite Ignoto, nell’autunno del 1921, erano i ragazzi a riempire la scena. Il fascino di un morto di cui nemmeno si conosceva il nome, rappresentante di tutti quei giovani immolati fu sicuramente affascinante per gli spettatori più giovani. Parteciparono alla cerimonia anche molte scolaresche.

 

La retorica fascista ebbe cura di associare l’idea della morte all’idea della vita, della continuità. La morte giovane riprese il suo posto nelle fantasie del fascismo che vedeva nel ragazzo un eroe da sacrificare. L’obiettivo, come già detto, era creare l’uomo nuovo, obbediente fino alla morte. Il discepolo del fascismo avrebbe dovuto raggiungere una grado di incoscienza tale da renderlo un cieco esecutore.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Gibelli, Il popolo bambino: infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005;

Benito Mussolini, La Dottrina del Fascismo, Casa Editrice Rondinella Alfredo, Napoli, 1937;

Gabrielli Gianluca, Montino Davide (a cura di), La scuola fascista: istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, Ombre corte, Verona 2009;

Padellaro Nazareno, Il libro della terza classe elementare. Letture, La libreria dello Stato a. XV (1937);

Montino Davide, Le parole educate: libri e quaderni tra fascismo e Repubblica, Selene, Milano 2005;

George L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza, Roma-Bari 2002;

Lelio Fiori, Rinascita italica: libro di cultura e di propaganda fascista per le scuole e per il popolo, a cura dell’autore, Firenze 1934;

Noris de Rocco, Plagiati e contenti: un anno di scuola con il Duce, Mursia, Milano 1994 [s.n.]



 

 

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