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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 157 / GENNAIO 2021 (CLXXXVIII)


moderna

CEM SEHZADE

UN PRINCIPE OTTOMANO TRA INTRIGHI E COMPLOTTI

di Francesco Biscardi

 

Spesso si presenta la storia dei rapporti fra Cristianità e Islam riducendola a un ineluttabile antagonismo fra due mondi opposti: termini come “crociata”, “jihad”, “guerra santa”, fondamentalismo islamico, epici scontri come Lepanto (1571) o Vienna (1683), hanno contribuito a dipingere il nostro passato come un mai sopito “scontro di civiltà”. Tuttavia, la storia è molto più complessa, e i conflitti fra Oriente e Occidente sono stati solamente uno dei tasselli che hanno caratterizzato l’intricato mosaico dei motivi di incontro fra Est e Ovest.

 

Fra Quattro e Cinquecento, il Turco (termine che veniva usato per indicare in modo generico l’“infedele”) effettivamente in Europa incuteva così tanto timore da esser stato condensato in una celebre espressione come «Mamma li Turchi!», e magistralmente rappresentato da Machiavelli nella Mandragola in un malizioso scambio di battute fra una donna e un frate, con la prima che domandava: «Credete voi che ‘l Turco passi quest’anno in Italia?» – icastica la risposta del prelato – «Se voi non farete orazione, sì» – e la conclusione della signora amareggiata – «Naffé! Dio ci aiuti […] Io ho una gran paura di quello impalare!».

 

Terrore e apprensione dunque, ma a cui poteva fare da contraltare l’invocazione e l’attesa del Turco come possibile vendicatore o salvatore. Fra i vari che conosciamo, fu il caso dell’avversità bizantina verso la Chiesa romana: «Meglio il turbante alla tiara!» – si esternava a Costantinopoli alla vigilia della sua caduta. O di un cospiratore bolognese che, condannato all’impiccagione, esclamò: «Vorrìa piuttosto el governo del Turco a quello di preti!». O del segretario fiorentino Agostino Vespucci che sentenziò: «Pare necessario il Turco».

 

È in questa storia di ambigua visione, mista di paura e di rispetto-attesa dell’“altro”, dell’ottomano, che si inserisce la vicenda di Cem (conosciuto anche come Gem, o Djem, o ancora Zizim), figlio di Maometto II e pretendente alla successione insieme con il fratello Bayezid II. Al momento del trapasso del valoroso sultano si aprì la disputa fra i due: Cem, che aveva il titolo di sehzade (“principe”), dall’indole bellicosa, godeva del favore dell’aristocrazia turca, desiderosa di ampliare le conquiste territoriali, ma non dei cittadini della capitale e della penisola anatolica.

 

Messo alle strette riparò nel nord dell’attuale Turchia, ma fu sconfitto nella battaglia di Yenishehir il 20 giugno 1481. Fuggì in Siria, allora controllata dai mamelucchi d’Egitto, ostili alla corte di Istanbul, per poi commettere l’errore di tentare il rientro in Anatolia, convinto di poter suscitare un moto generale contro il consanguineo rivale. Avendo fallito nuovamente, cercò rifugio nel 1482 presso i Cavalieri di Rodi, dove fu sostanzialmente segregato dal Gran Maestro dell’Ordine, Pierre d’Aubusson.

 

Sotto la sorveglianza dell’Ordine, venne traslato in Francia, ove rimase custodito in una strana condizione di ospite-ostaggio, per poi essere spostato in varie zone (dopo che a Nizza era scoppiata un’epidemia di peste), finché, nel 1489, non cadde nelle mani della Santa Sede, dopo che vari sovrani avevano mostrato interesse a ergersi quali sui protettori: da Mattia Corvino d’Ungheria a Ferdinando d’Aragona, dai re iberici al sultano mamelucco Qa’it Bey.

 

Cem rimase negli anni seguenti a Roma nella condizione ufficialmente di ospite, ma in realtà succube in una “prigione dorata”, e da strumento nelle possibili manovre contro Istanbul divenne una fonte di lauto guadagno per papa Innocenzo VIII, giacché Bayezid si impegnò prontamente a versare la cifra di 40.000 ducati veneziani l’anno per il suo mantenimento.

 

La sua storia cominciò a dipingersi di tinte fosche fino a trasformarsi in un giallo quando divenne pontefice Alessandro VI, al secolo Roderigo Borgia, e al momento della discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII. Il sovrano d’oltralpe aveva un ambizioso progetto che andava al di là della sola rivendicazione dei diritti sul regno di Napoli: erigere un dominio nel meridione italico per poi contrastare gli infedeli nel Mediterraneo, coltivando così, quale novello Luigi IX, il sogno egemonico di guidare una crociata di riconquista dei luoghi santi, Gerusalemme in primis.

 

Alessandro VI aveva già dimostrato di non essere insensibile agli appelli contra los infieles, avendo aderito, nel 1464, alla crociata di Pio II allestendo, nella circostanza, una galea a proprie spese. Tuttavia, asceso al soglio petrino, cambiò strategia, ricercando la pace e arrivando a scrivere, nel 1494, una sorprendente lettera a Bayezid in cui (in virtù di una avversità verso Carlo VIII derivata da motivi geopolitici e dalla sua origine spagnola) si dichiarava disposto a concedergli il destino del regno aragonese: «Affidiamo alla tua potenza quel regno [di Napoli], e ti esortiamo che tu prenda sotto il tuo affidamento tutte le sue terre e i suoi uomini così come lo Stato e le terre nostre e della Chiesa Romana».

 

Forse era un solo un sondaggio in vista di richieste più concrete, o forse l’intento era di riprendere il tentativo di conversione avanzato da Pio II a Maometto II nella Epistola ad Mahometem del 1461, fatto sta che un mese e mezzo dopo questa lettera il pontefice inviò alla corte sultaniale un legato genovese conoscitore del turco, Giorgio Bucciardo, per discutere della questione di Cem. Il pretesto era di chiedere anticipatamente il denaro che annualmente veniva versato per la sua custodia, ma l’obiettivo precipuo era di far presente al sultano il disegno di Carlo VIII e il suo interesse per il principe, possibile pedina di manovra contro di lui, oltreché di alzare la posta in gioco (avendo ricevuto interessanti offerte per Cem da parte di Qa’it Bey).

 

Bayezid rispose in cinque lettere: da un lato reagiva al ricatto con un ricatto, acconsentendo all’invio anticipato del denaro, ma ammonendo il papa di ricordarsi che i cristiani in Terrasanta erano sotto il suo dominio e che, se aveva a cuore la loro sorte, doveva andare cauto con le minacce, per poi aggiungere nei riguardi del fratello che solo una cosa poteva risolvere ogni problema: la sua morte. In cambio di questo “favore” il sultano (il quale lasciava al pontefice libertà di scelta su come assicurarsi il trapasso a miglior vita di Cem) si sarebbe premurato di fare pervenire nelle casse romane l’ingente somma di 300.000 ducati: «Se contentarà la Vostra Grandezza di compiacerne che ditto Gem sia levato di travaglio a quello miglior modo apparerà a Vostra Grandezza, e translatata l’anima sua ne lo altro mondo, dove haverà miglior quiete».

 

Una sorta di “patto diabolico” sembra quindi quello proposto dal sultano al papa. Tuttavia, non possiamo essere sicuri che sulle risposte sultaniali non abbia operato la longa manus di Giorgio Bucciardo. Sono principalmente tre gli elementi che fanno riflettere: in primis, il sovrano invocava la complicità pontificia in nome di un Dio unico e sulla base dei “nostri veri evangelii”; oltre a quest’ultima espressione ambigua, è difficile credere che un sultano-califfo, per quanto conscio della comune origine abramitica delle due fedi, possa aver alluso a una sorta di ecumenismo. In secondo luogo, appare di dubbia originalità la datazione delle lettere secondo calendario cristiano. Infine, nella quarta lettera, compare un’istanza sconcertante: la richiesta al papa di concedere il cappello cardinalizio all’arcivescovo di Arles, Nicola Bucciardo, cugino del nunzio pontificio. Per quanto questi possa esser stato noto a Bayezid, risulta ai limiti dell’assurdo pensare che il “Gran Signore dei Turchi” possa essersi premurato tanto di un chierico di provincia da intercedere presso la somma autorità cristiana per una sua promozione e che, invece, non sia stato Giorgio Bucciardo ad aver cercato di approfittare della situazione per il proprio tornaconto.

 

Alla fine le cose finirono male sia per l’inviato papale che per Cem: il primo, di ritorno da Istanbul, cadde preda di un’imboscata ordita da Giuliano della Rovere ad Ancona, mentre il secondo, sebbene finito nelle mani di Carlo VIII in seguito a un regolare accordo con la Santa Sede, morì nel febbraio 1495 a Napoli. Sulla sua morte si cela un mistero: si racconta che sarebbe stato avvelenato da sicari di Alessandro VI, furioso per come erano andate le cose e per essersi dovuto piegare al re di Francia.

 

Quella dell’omicidio è però soltanto un’ipotesi, giacché non è mai stata fatta piena luce sul suo presunto assassinio, mentre quel che resta dell’intricata vicenda è il fulgido esempio degli intensi e ambigui rapporti che legavano Oriente e Occidente e di come la complessa politica estera della Chiesa romana fra XV e XVI secolo non escluse che alla causa crociata potessero essere alternati occasionali patteggiamenti e intese semisegrete con il mondo islamico, come accadde tra Alessandro VI e Bayezid II.

 

Questo riprova quanto, come ribadito dallo storico Franco Cardini, da secoli la nostra conoscenza dei rapporti fra Europa e Islam si sia in larga parte basata su una sorta di “doppio malinteso”: un primo, che compiamo noi, nel pensare retrospettivamente che fra i due mondi vi sia stato solo un eterno scontro di civiltà e di religioni, e un secondo, che è stato compiuto dai nostri predecessori, sia cristiani che musulmani, che troppo poco si sono realmente conosciuti, attribuendosi reciprocamente una gran quantità di intenzioni malevole.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Boscolo A., Le vicissitudini di Cem in Europa: uno sfortunato principe turco, Medievalia, VII, 1987, pp. 23-35.

Cardini F., Europa e Islam. Storia di un malinteso, Laterza, Roma-Bari 2006.

Formica M., Lo specchio turco. Immagini dell’altro e riflessi del sé nella cultura italiana di età moderna, Donzelli, Roma 2012.

Ricci G., Appello al turco. I confini infranti del Rinascimento, Viella, Roma 2011.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]