moderna
CEM SEHZADE
UN PRINCIPE OTTOMANO TRA INTRIGHI E COMPLOTTI
di Francesco Biscardi
Spesso si presenta la storia dei
rapporti fra Cristianità e Islam
riducendola a un ineluttabile
antagonismo fra due mondi opposti:
termini come “crociata”, “jihad”,
“guerra santa”, fondamentalismo
islamico, epici scontri come Lepanto
(1571) o Vienna (1683), hanno
contribuito a dipingere il nostro
passato come un mai sopito “scontro di
civiltà”. Tuttavia, la storia è molto
più complessa, e i conflitti fra Oriente
e Occidente sono stati solamente uno dei
tasselli che hanno caratterizzato
l’intricato mosaico dei motivi di
incontro fra Est e Ovest.
Fra Quattro e Cinquecento, il Turco
(termine che veniva usato per indicare
in modo generico l’“infedele”)
effettivamente in Europa incuteva così
tanto timore da esser stato condensato
in una celebre espressione come «Mamma
li Turchi!», e magistralmente
rappresentato da Machiavelli nella
Mandragola in un malizioso scambio
di battute fra una donna e un frate, con
la prima che domandava: «Credete voi
che ‘l Turco passi quest’anno in Italia?»
– icastica la risposta del prelato – «Se
voi non farete orazione, sì» – e la
conclusione della signora amareggiata –
«Naffé! Dio ci aiuti […] Io ho una
gran paura di quello impalare!».
Terrore e apprensione dunque, ma a cui
poteva fare da contraltare l’invocazione
e l’attesa del Turco come possibile
vendicatore o salvatore. Fra i vari che
conosciamo, fu il caso dell’avversità
bizantina verso la Chiesa romana: «Meglio
il turbante alla tiara!» – si
esternava a Costantinopoli alla vigilia
della sua caduta. O di un cospiratore
bolognese che, condannato
all’impiccagione, esclamò: «Vorrìa
piuttosto el governo del Turco a quello
di preti!». O del segretario
fiorentino Agostino Vespucci che
sentenziò: «Pare necessario il Turco».
È in questa storia di ambigua visione,
mista di paura e di rispetto-attesa
dell’“altro”, dell’ottomano, che si
inserisce la vicenda di Cem (conosciuto
anche come Gem, o Djem, o ancora Zizim),
figlio di Maometto II e pretendente alla
successione insieme con il fratello
Bayezid II. Al momento del trapasso del
valoroso sultano si aprì la disputa fra
i due: Cem, che aveva il titolo di
sehzade (“principe”), dall’indole
bellicosa, godeva del favore
dell’aristocrazia turca, desiderosa di
ampliare le conquiste territoriali, ma
non dei cittadini della capitale e della
penisola anatolica.
Messo alle strette riparò nel nord
dell’attuale Turchia, ma fu sconfitto
nella battaglia di Yenishehir il 20
giugno 1481. Fuggì in Siria, allora
controllata dai mamelucchi d’Egitto,
ostili alla corte di Istanbul, per poi
commettere l’errore di tentare il
rientro in Anatolia, convinto di poter
suscitare un moto generale contro il
consanguineo rivale. Avendo fallito
nuovamente, cercò rifugio nel 1482
presso i Cavalieri di Rodi, dove fu
sostanzialmente segregato dal Gran
Maestro dell’Ordine, Pierre d’Aubusson.
Sotto la sorveglianza dell’Ordine, venne
traslato in Francia, ove rimase
custodito in una strana condizione di
ospite-ostaggio, per poi essere spostato
in varie zone (dopo che a Nizza era
scoppiata un’epidemia di peste), finché,
nel 1489, non cadde nelle mani della
Santa Sede, dopo che vari sovrani
avevano mostrato interesse a ergersi
quali sui protettori: da Mattia Corvino
d’Ungheria a Ferdinando d’Aragona, dai
re iberici al sultano mamelucco Qa’it
Bey.
Cem rimase negli anni seguenti a Roma
nella condizione ufficialmente di
ospite, ma in realtà succube in una
“prigione dorata”, e da strumento nelle
possibili manovre contro Istanbul
divenne una fonte di lauto guadagno per
papa Innocenzo VIII, giacché Bayezid si
impegnò prontamente a versare la cifra
di 40.000 ducati veneziani l’anno per il
suo mantenimento.
La sua storia cominciò a dipingersi di
tinte fosche fino a trasformarsi in un
giallo quando divenne pontefice
Alessandro VI, al secolo Roderigo
Borgia, e al momento della discesa in
Italia del re di Francia Carlo VIII. Il
sovrano d’oltralpe aveva un ambizioso
progetto che andava al di là della sola
rivendicazione dei diritti sul regno di
Napoli: erigere un dominio nel meridione
italico per poi contrastare gli infedeli
nel Mediterraneo, coltivando così, quale
novello Luigi IX, il sogno egemonico di
guidare una crociata di riconquista dei
luoghi santi, Gerusalemme in primis.
Alessandro VI aveva già dimostrato di
non essere insensibile agli appelli
contra los infieles, avendo aderito,
nel 1464, alla crociata di Pio II
allestendo, nella circostanza, una galea
a proprie spese. Tuttavia, asceso al
soglio petrino, cambiò strategia,
ricercando la pace e arrivando a
scrivere, nel 1494, una sorprendente
lettera a Bayezid in cui (in virtù di
una avversità verso Carlo VIII derivata
da motivi geopolitici e dalla sua
origine spagnola) si dichiarava disposto
a concedergli il destino del regno
aragonese: «Affidiamo alla tua
potenza quel regno [di Napoli], e ti
esortiamo che tu prenda sotto il tuo
affidamento tutte le sue terre e i suoi
uomini così come lo Stato e le terre
nostre e della Chiesa Romana».
Forse era un solo un sondaggio in vista
di richieste più concrete, o forse
l’intento era di riprendere il tentativo
di conversione avanzato da Pio II a
Maometto II nella Epistola ad
Mahometem del 1461, fatto sta che un
mese e mezzo dopo questa lettera il
pontefice inviò alla corte sultaniale un
legato genovese conoscitore del turco,
Giorgio Bucciardo, per discutere della
questione di Cem. Il pretesto era di
chiedere anticipatamente il denaro che
annualmente veniva versato per la sua
custodia, ma l’obiettivo precipuo era di
far presente al sultano il disegno di
Carlo VIII e il suo interesse per il
principe, possibile pedina di manovra
contro di lui, oltreché di alzare la
posta in gioco (avendo ricevuto
interessanti offerte per Cem da parte di
Qa’it Bey).
Bayezid rispose in cinque lettere: da un
lato reagiva al ricatto con un ricatto,
acconsentendo all’invio anticipato del
denaro, ma ammonendo il papa di
ricordarsi che i cristiani in Terrasanta
erano sotto il suo dominio e che, se
aveva a cuore la loro sorte, doveva
andare cauto con le minacce, per poi
aggiungere nei riguardi del fratello che
solo una cosa poteva risolvere ogni
problema: la sua morte. In cambio di
questo “favore” il sultano (il quale
lasciava al pontefice libertà di scelta
su come assicurarsi il trapasso a
miglior vita di Cem) si sarebbe
premurato di fare pervenire nelle casse
romane l’ingente somma di 300.000
ducati:
«Se
contentarà la Vostra Grandezza di
compiacerne che ditto Gem sia levato di
travaglio a quello miglior modo apparerà
a Vostra Grandezza, e translatata
l’anima sua ne lo altro mondo, dove
haverà miglior quiete».
Una sorta di “patto diabolico” sembra
quindi quello proposto dal sultano al
papa. Tuttavia, non possiamo essere
sicuri che sulle risposte sultaniali non
abbia operato la longa manus di
Giorgio Bucciardo. Sono principalmente
tre gli elementi che fanno riflettere:
in primis, il sovrano invocava la
complicità pontificia in nome di un Dio
unico e sulla base dei “nostri veri
evangelii”; oltre a quest’ultima
espressione ambigua, è difficile credere
che un sultano-califfo, per quanto
conscio della comune origine abramitica
delle due fedi, possa aver alluso a una
sorta di ecumenismo. In secondo luogo,
appare di dubbia originalità la
datazione delle lettere secondo
calendario cristiano. Infine, nella
quarta lettera, compare un’istanza
sconcertante: la richiesta al papa di
concedere il cappello cardinalizio
all’arcivescovo di Arles, Nicola
Bucciardo, cugino del nunzio pontificio.
Per quanto questi possa esser stato noto
a Bayezid, risulta ai limiti
dell’assurdo pensare che il “Gran
Signore dei Turchi” possa essersi
premurato tanto di un chierico di
provincia da intercedere presso la somma
autorità cristiana per una sua
promozione e che, invece, non sia stato
Giorgio Bucciardo ad aver cercato di
approfittare della situazione per il
proprio tornaconto.
Alla fine le cose finirono male sia per
l’inviato papale che per Cem: il primo,
di ritorno da Istanbul, cadde preda di
un’imboscata ordita da Giuliano della
Rovere ad Ancona, mentre il secondo,
sebbene finito nelle mani di Carlo VIII
in seguito a un regolare accordo con la
Santa Sede, morì nel febbraio 1495 a
Napoli. Sulla sua morte si cela un
mistero: si racconta che sarebbe stato
avvelenato da sicari di Alessandro VI,
furioso per come erano andate le cose e
per essersi dovuto piegare al re di
Francia.
Quella dell’omicidio è però soltanto
un’ipotesi, giacché non è mai stata
fatta piena luce sul suo presunto
assassinio, mentre quel che resta
dell’intricata vicenda è il fulgido
esempio degli intensi e ambigui rapporti
che legavano Oriente e Occidente e di
come la complessa politica estera della
Chiesa romana fra XV e XVI secolo non
escluse che alla causa crociata
potessero essere alternati occasionali
patteggiamenti e intese semisegrete con
il mondo islamico, come accadde tra
Alessandro VI e Bayezid II.
Questo riprova quanto, come ribadito
dallo storico Franco Cardini, da secoli
la nostra conoscenza dei rapporti fra
Europa e Islam si sia in larga parte
basata su una sorta di “doppio
malinteso”: un primo, che compiamo noi,
nel pensare retrospettivamente che fra i
due mondi vi sia stato solo un eterno
scontro di civiltà e di religioni, e un
secondo, che è stato compiuto dai nostri
predecessori, sia cristiani che
musulmani, che troppo poco si sono
realmente conosciuti, attribuendosi
reciprocamente una gran quantità di
intenzioni malevole.
Riferimenti bibliografici:
Boscolo A., Le vicissitudini di Cem
in Europa: uno sfortunato principe turco,
Medievalia, VII, 1987, pp. 23-35.
Cardini F., Europa e Islam. Storia di
un malinteso, Laterza, Roma-Bari
2006.
Formica M., Lo specchio turco.
Immagini dell’altro e riflessi del sé
nella cultura italiana di età moderna,
Donzelli, Roma 2012.
Ricci G., Appello al turco. I confini
infranti del Rinascimento, Viella,
Roma 2011. |