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N. 127 - Luglio 2018 (CLVIII)

Celestino V e il Pastor Angelicus

Le origini di un mito

di Alfredo Incollingo

 

Fu una leggenda su un chiodo assassino a "suscitare" il mito di Celestino V, salito poi agli onori delle cronache come san Pietro Celestino.

 

Si racconta che il 19 maggio 1296 un sicario di papa Bonifacio VIII lo avesse ucciso nella sua cella, all’interno del castello di Fumone, nei pressi di Frosinone, conficcandogli un chiodo nel cranio. Si parlò fin da subito di un assassinio politico e furono soprattutto i cronisti francesi e angioini a diffondere queste false notizie. Le ricognizioni sulle spoglie di san Pietro Celestino, eseguite nel 2013, hanno smentito qualsiasi ipotesi di omicidio. I contrasti politici tra il re francese Filippo il Bello e Bonifacio VIII non spiegano del tutto l’origine di queste infondate narrazioni.

 

Sulla personalità di Celestino V si sono addensate per secoli miti e simbologie delle dottrine millenariste elaborate tra l’XI e il XIII secolo. Uomo di fede e di preghiera, Celestino V, al secolo Pietro del Morrone, aveva accettato con riserva la sua elezione al soglio pontificio il 5 luglio 1294.

 

Amava la solitudine e l’incontro privato con Dio, che ricercava nei suoi eremi sui monti abruzzesi. Vedendovi probabilmente un segno della Provvidenza, che lo aveva scelto per guidare la sua Chiesa, si lasciò incoronare il 29 agosto nella chiesa di Santa Maria in Collemaggio, a L’Aquila.

 

Erano anni difficili per il cattolicesimo. Da due anni il conclave non riusciva a eleggere il successore di Niccolò IV e la curia romana versava in uno stato di totale anarchia. Le tensioni tra le nobili casate laziali, che si contendevano il papato, e le ingerenze dei monarchi europei ritardarono per mesi la fine dei lavori, aggravando una situazione già di per sé precaria.

 

Fu il popolo dei fedeli ad accorgersi della pericolosa deriva e numerosi movimenti religiosi, spontanei o organizzati, chiedevano da tempo una riforma della Chiesa Cattolica. Si trattò alle volte raggruppamenti ereticali (Catari, nella Francia meridionale, o i Begardi e le Beghine, nell’Italia settentrionale) o di nuovi ordini religiosi (come i Frati Minori di san Francesco d’Assisi), che, obbedendo all’ortodossia, chiedevano un rinnovamento del cattolicesimo.

 

Quando Celestino V venne presentato alle folle giubilanti, alla vista di quell’uomo umile e caritatevole, molti sperarono finalmente nel cambiamento. Il frate Gioacchino da Fiore aveva profetizzato l’avvento di una nuova era, l’Età dello Spirito, e la venuta di un Pastor Angelicus, un uomo di Dio che avrebbe distrutto la Chiesa carnale, corrotta e mondana, per costruire una nuova comunità spirituale in attesa del Giudizio Universale.

 

Non è verosimile ipotizzare che molti uomini di cultura, come Dante Alighieri, ebbero fede nelle parole di Gioacchino e le videro esaudite nell’elezione di Celestino V. Il papa molisano fu sicuramente un riformatore, anche se il suo agire è piuttosto ambiguo. Sembrò assecondare quasi del tutto le richieste del re napoletano Carlo d’Angiò, il suo protettore, per gratitudine.

 

In altri casi, invece, si mostrò autoritario nei confronti degli altri ordini religiosi, favorendo la sua congregazione eremitica, i Celestiniani. Più volte delegò la gestione della Chiesa Cattolica ai suoi consiglieri, uomini tutt’altro che integerrimi moralmente.

 

Preferiva abbandonare le questioni secolari per isolarsi in una cella di legno, costruita ad hoc per lui nei suoi appartamenti a Castel Nuovo, a Napoli: qui pregava e meditava lontano dalla confusione della corte papale.

 

È probabile che fosse cosciente del suo cattivo operato e del fallimento dei suoi propositi riformisti. Convocò un esperto in diritto canonino, il cardinale Benedetto Caetani, il futuro papa Bonifacio VIII, per vagliare la possibilità di abdicare. Lo chiamò anche per affidargli un altro importante incarico: rimettere ordine all’interno della Chiesa dopo le sue dimissioni.

 

Il papa indicò così il suo successore e il 13 dicembre 1294 rese noto la sua abdicazione. Celestino V aveva così dimostrato di non essere quel Pastor Angelicus tanto atteso, ma il mito non sembrò subire contraccolpi. Si intese la rinuncia come un gesto di libertà: di fronte all’impossibilità di riformare la Chiesa Cattolica, il papa scelse di fuggire dal compromesso con il malaffare pur di salvare la sua coscienza e il cristianesimo.

 

Non si trattò di viltà, come affermò Dante Alighieri, ma di moralità, come ritenne il Petrarca e, molti secoli dopo, lo scrittore Ignazio Silone. La rinuncia rilanciò la figura del Paster Angelicus: i tempi, infatti, non erano ancora maturi per il suo avvento. In questi termini si spiegò il fallimento di Celestino V e si spostò in un futuro incerto l’Età dello Spirito.  

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Frale Barbara, L’inganno del gran rifiuto: la vera storia di Celestino V, papa dimissionario, UTET, Novara 2013.

Gatto Ludovico, Celestino V: pontefice e santo, Eleonora Plebani (a cura di), Bulzoni Editore, Roma 2006.



 

 

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