N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
LA DIVISIONE ACQUI A CEFALONIA
UNA PREZIOSA TESTIMONIANZA
di Vincenzo Santoro
Il
massacro
della
divisione
"Acqui"
nell’isola
di
Cefalonia,
avvenuto
nel
settembre
del
1943,
rappresenta
il
culmine
dei
tragici
avvenimenti
accaduti
all’indomani
della
firma
dell’armistizio
con
le
truppe
anglo-americane
(8
settembre
1943),
quando
il
vuoto
di
potere
ed
il
caos
istituzionale
che
ne
scaturì,
consegnò
l’Italia
all’ex
alleato
tedesco
e
contestualmente
vide
le
forze
armate
italiane
allo
sbando,
senza
ordini
o
con
indicazioni
imprecise
o
contraddittorie.
Nella
maggior
parte
dei
casi
i
soldati
italiani
sbandati
tentarono
di
ritornare
nelle
proprie
case,
volendo
mettere
la
parola
fine
alla
guerra
ed
ai
tanti
sacrifici
patiti;
moltissimi,
di
stanza
nei
numerosi
teatri
operativi,
furono
fatti
prigionieri
dagli
ex
alleati
(a
volte
con
l’inganno),
portati
presso
campi
di
reclusione
ubicati
in
vari
paesi
dell’Europa
centrale
e
sottoposti
ad
un
durissimo
regime
carcerario.
Alcuni
aderirono
alle
lusinghe
tedesche
continuando
a
combattere
al
loro
fianco
ed
arruolandosi
presso
unità
militari
della
repubblica
sociale
italiana,
nel
frattempo
costituita,
oppure
presso
reparti
direttamente
dipendenti
dalle
autorità
naziste
(come
le
SS
ad
esempio).
Ma
ci
furono
anche
soldati
che,
dandosi
alla
macchia,
iniziarono
a
combattere
in
forma
autonoma
i
tedeschi
creando,
oppure
aggregandosi
a
formazioni
partigiane
nel
frattempo
presenti
nel
nord
Italia
od
all’estero
(es.
Balcani).
Così
come
nel
Regno
del
Sud,
intanto
costituito,
iniziava
a
prendere
forma
il
nuovo
esercito
italiano
attraverso
il
1°
Raggruppamento
motorizzato
che
man
mano,
assieme
alle
truppe
anglo-americane
iniziava
la
difficile
risalita
verso
nord.
A
ogni
modo
le
scelte
individuali
furono
tutte
difficili.
Da
un
canto
ci
fu
chi
non
se
la
sentì
di
imbracciare
le
armi
contro
soldati
che
per
oltre
tre
anni
di
guerra
erano
stati
alleati
su
vari
fronti
contro
un
nemico
comune;
dall’altra
chi,
nel
rispetto
del
giuramento
al
re
ed
alle
istituzioni
monarchiche,
ritenne
doveroso
combattere
i
nazisti
che
nel
frattempo
avevano
occupato
il
suolo
nazionale.
La
vicenda
della
Divisione
"Acqui"
è
invece
un
caso
a se
stante
di
combattimento
di
una
intera
unità
militare,
di
rilevanti
dimensioni,
con
l’esercito
tedesco,
rifiutando
la
resa
e la
consegna
delle
armi,
pur
in
mancanza
di
ordini
precisi
provenienti
dalle
autorità
italiane.
L’Italia
repubblicana,
come
sostenuto
dall’
ex
Presidente
della
Repubblica
Ciampi,
nacque
a
Cefalonia,
nel
senso
che
per
la
prima
volta,
all’indomani
dell’armistizio,
ci
fu
resistenza
in
armi
ad
un
ultimatum
posto
dall’esercito
tedesco
di
resa
senza
condizioni.
Episodio
simile
avvenne
a
Roma,
presso
Porta
San
Paolo,
ad
opera
dei
granatieri
di
Sardegna
nel
coraggioso,
quanto
vano,
tentativo
di
difendere
la
capitale
dall’occupazione
tedesca.
Il
Regio
esercito
combatteva
da
un
paio
d’anni
in
Grecia
e
specificamente
la
33a
Divisione
di
Fanteria
"Acqui",
composta
da
oltre
10.000
uomini
e
comandata
dal
generale
Gandin,
operava
da
tempo,
alle
dipendenze
dell’11°
armata,
a
presidio
delle
isole
Ionie
(tra
Corfù
e
Cefalonia),
settore
strategico
per
il
controllo
del
golfo
di
Corinto
e
del
mar
Egeo.
Nei
tragici
fatti
che
si
delinearono,
si
inserisce
la
storia
del
signor
Antonio
Canino
di
Catanzaro.
Con
estrema
lucidità
e
con
dovizia
di
particolari
narra
gli
avvenimenti
che
lo
videro
giovanissimo
protagonista.
D’altronde
fu
uno
dei
sopravvissuti
ai
combattimenti
ed è
uno
degli
ultimi
reduci
superstiti
della
"Acqui",
per
cui
la
sua
è
una
testimonianza
preziosa.
“Nato
il
13
dicembre
1923,
a
diciannove
anni,
il 5
febbraio
1942,
viene
chiamato
alle
armi
ed
inviato
dapprima
a
Cosenza,
successivamente
a
Caserta
presso
la
caserma
Aldifredda.
Dopo
qualche
giorno
viene
imbarcato
a
Brindisi
su
una
nave
con
destinazione
ignota.
Sbarca
dapprincipio
a
Patrasso
in
Grecia
e
poi
viene
inviato
all’isola
di
Cefalonia.
Ad
Argostoli,
capoluogo
dell’isola,
viene
assegnato
alla
Divisione
Acqui
e
più
precisamente
al
110°
Battaglione
mitraglieri.
Sono
presenti
nel
reparto
altri
calabresi:
Bevilacqua
di
Catanzaro
Lido,
Furfura
di
Nicastro,
Vito
Simonetta
di
Francavilla
Angitola,
Raffaele
Serrao.
Nell’isola
vengono
svolte
attività
di
presidio,
pattugliamento
e
rinforzo
difese.
Vengono
anche
utilizzati,
in
mancanza
di
veri
pezzi
d’artiglieria,
tronchi
di
albero
per
simulare
la
presenza
di
numerosi
cannoni
antiaereo
da
142
mm.
Le
condizioni
di
vita
sono
buone,
il
vitto
però
è
scarso
ed
insufficiente.
Solo
la
frutta
è
buona
ed
abbondante.
La
popolazione
locale
ha
in
generale
un
po’
di
paura
ma,
tutto
sommato,
gli
italiani
sono
ben
visti.
La
stessa
cosa
non
vale
per
i
tedeschi.
In
realtà
anche
i
rapporti
tra
eserciti
alleati
non
sono
ottimi:
c’è
qualche
diffidenza
reciproca.
Il
tempo
passa
tutto
sommato
tranquillamente
svolgendo
compiti
di
vigilanza
e
controllo,
l’unico
problema
è la
lontananza
dalle
proprie
famiglie.
Arriva
la
fatidica
data
dell’otto
settembre
e,
nell’incertezza
che
ne
segue,
alla
specifica
richiesta
di
come
comportarsi,
giunge
l’ordine
un
pò
nebuloso
da
parte
del
generale
Badoglio
che
nella
terra
ferma
bisogna
depositare
le
armi,
nelle
isole
ioniche
si
deve
combattere,
seguito
da
un
altrettanto
sibillino
telegramma
da
parte
del
comandante
dell’11^
Armata
di
stanza
in
Grecia,
gen.
Vecchiarelli.
I
tedeschi
che
nel
frattempo
hanno
ricevuto
rinforzi,
formulano
alla
divisione,
nei
giorni
successivi,
reiterate
intimazioni
di
resa:
gli
italiani
debbono
cedere
tutte
le
armi
individuali
e
collettive
senza
condizioni.
In
realtà
tra
i
militari
della
Acqui
inizia
a
serpeggiare
l’intenzione
di
non
arrendersi
bensì
di
combattere.
Il
sig.
Canino
ricorda
che
non
ci
fu
un
vero
e
proprio
referendum,
come
molta
storiografia
afferma
al
riguardo,
ma
ci
fu
comunque
spontanea
ed
unanime
volontà
di
non
cedere
al
ricatto.
Dopo
vari
giorni
di
trattative
e
senza
aver
ottenuto
risposte
chiare
ed
esplicite
da
parte
dello
Stato
Maggiore
(anzi
giungono
ordini
piuttosto
contraddittori),
e
soprattutto
senza
aver
ricevuto
alcun
aiuto
o
rinforzo
dalla
madrepatria,
considerata
ugualmente
l’intenzione
da
parte
della
divisione
di
non
consegnare
le
armi,
intorno
al
14
settembre
iniziano
scontri
armati
che
dureranno
una
decina
di
giorni.
La
battaglia
è
furiosa
nelle
varie
zone
dell’isola
ed
avvengono
numerosi
bombardamenti
aerei
da
parte
dell’aviazione
tedesca,
contro
gli
italiani,
finalizzati
a
fiaccarne
lo
spirito.
Nel
corso
di
un
attacco
di
Stukas
salta
in
aria
un
deposito
carburante;
ci
sono
tantissimi
morti
ed
il
signor
Canino
viene
ferito
gravemente
ad
una
gamba
e
catturato
dai
tedeschi,
dopo
aver
assistito
a
scene
raccapriccianti.
Esaurite
le
munizioni
e
soverchiati
dalle
truppe
germaniche
superiori
in
armamenti
e
mezzi,
senza
aver
ricevuto
alcun
aiuto
dall’Italia
né
dai
nuovi
alleati,
gli
uomini
della
Acqui,
abbandonati
al
loro
destino,
il
22
settembre
sono
costretti
ad
arrendersi
con
la
speranza
di
ricevere
un
trattamento
da
prigionieri
di
guerra.
I
tedeschi
invece
considerano
gli
italiani
come
traditori
da
punire
con
la
morte.
Inizia
la
terribile
rappresaglia
a
danno
soprattutto
degli
ufficiali
che
vengono
portati
vicino
al
cimitero
di
Argostoli,
mitragliati
e
gettati
in
mare.
I
morti
dovuti
ad
esecuzioni
sommarie
sono
migliaia
(tra
di
essi
anche
il
generale
Gandin
che
viene
fucilato),
che
si
aggiungono
ai
tanti
morti
in
combattimento
dei
giorni
precedenti.
La
divisione
Acqui
è
pertanto
decimata;
di
essa
circa
duemila
uomini
vengono
fatti
prigionieri
e
deportati.
Canino
invece
riceve
le
prime
cure
dai
tedeschi,
poi
su
una
zattera
viene
inviato
a
Patrasso
ed
inizia
un
lungo
e
terribile
viaggio
di
undici
giorni
in
treno
fino
in
Polonia.
Viene
dapprima
ricoverato
all’Ospedale
di
Varsavia,
ove
subisce
un
delicato
intervento
alla
gamba.
Il
trattamento
riservatogli
è
complessivamente
umano
e
comprensivo.
Il
20
aprile
1944
nell’ospedale
cui
è
ricoverato
conosce
Hitler,
in
visita
nella
struttura
il
giorno
del
suo
compleanno,
in
quale
gli
dà
la
mano
apostrofandolo:
‘Italiano
maccarone’.
In
convalescenza,
vista
anche
la
sua
giovanissima
età,
cerca
di
socializzare
con
la
popolazione
del
posto
contravvenendo
però
ai
perentori
ordini
al
riguardo.
Un
sottotenente
tedesco
lo
scopre
e lo
fa
condannare
a
dieci
giorni
di
cella
di
rigore
a
pane
ed
acqua.
Tempo
dopo,
e
sempre
sofferente
alla
gamba,
viene
trasferito
in
altre
località
e
poi
a
Dachau,
ove
inizia
a
lavorare
presso
un
giornale
locale
alle
dipendenze
del
signor
Zimmer.
Viene
trattato
bene
ma
non
ha
alcuna
notizia
dall’Italia
ove
oramai
lo
credono
morto.
A
fine
guerra
viene
rimpatriato
presso
un
campo
di
smistamento
a
Verona
e
poi
inviato
dapprima
all’Ospedale
militare
di
Baggio
ed
infine
a
quello
di
Viggiù.
Una
sera
si
reca
presso
la
casa
del
soldato
e lì
finalmente
riesce
ad
informare
la
famiglia
del
fatto
che
è
vivo.
Dopo
4
mesi,
nel
1946,
ritorna
in
Calabria
e
può
così
iniziare
una
nuova
vita.
L’odissea
della
guerra
e
della
prigionia
è
finita,
oggi
rimane
però
il
vivido
e
perenne
ricordo,
a
quasi
65
anni
dal
loro
accadimento,
dei
tragici
fatti
vissuti
e
dei
numerosi
commilitoni
che
non
sono
più
tornati
a
casa
sacrificando
così
la
propria
giovinezza”.
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