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N. 58 - Ottobre 2012 (LXXXIX)

Morte a Cefalonia
Cronaca dal diario di un reduce

di Vincenzo Grienti

 

La fine di agosto del 1943 segna per il 317° Reg.to Fanteria il trasferimento nell’Isola di Cefalonia, la maggiore delle Isole Ionie all’imboccatura del Golfo di Patrasso, con capoluogo la città di Argostoli.

 

Un luogo considerato obiettivo strategico per diversi motivi. Tra i circa 11mila soldati italiani c’era anche Angelo Emilio, classe 1920, scomparso qualche anno fa nella sua città, Pozzallo, in provincia di Ragusa, in cui per anni è stato comandante dei vigili urbani. Questo è il suo racconto.

 

La sua storia di vita, così come quella di migliaia di militari italiani, si inserisce nella Storia d’Italia che, come l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sottolineò proprio a Cefalonia nel 2001, fu la dimostrazione che “la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali diede compattezza alla scelta di combattere”.

 

Attraverso il diario di Angelo Emilio trascritto con lucidità, esattezza di date ed avvenimenti, è possibile ripercorrere un momento drammatico, difficile e delicato della storia del nostro Paese. Un argomento dibattuto ancora oggi dagli storici, dagli analisti di storia militare e dagli eredi dei reduci.

 

«Non sappiamo ancora con sicurezza chi abbia dato ai tedeschi l’ordine di attaccare – racconta nel suo diario Angelo Emilio - Tuttavia un fatto è certo: ci furono ufficiali eliminati contro ogni norma internazionale, soldati sottoposti a decimazione e feriti fucilati invece di essere soccorsi».

 

Alla cosiddetta “Casetta Rossa”, rudere abbandonato nella zona di San Teodoro, per esempio, solo trentasette ufficiali ebbero salva la vita grazie alle suppliche del cappellano militare don Romualdo Formato.

 

«Fu lui che salvò anche il sotto tenente Silvio Rigo, mio ufficiale nel reparto della reggimentale a Merano», si legge nel diario del reduce che richiama alla memoria la visita a Cefalonia del comandante generale Antonio Gandin, qualche giorno dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia. «Per sollevarci il morale consegnò a ciascun militare un pacco dono – racconta Emilio - Ricordo ancora quando toccò a me: appena lo ricevetti fui avvicinato dal tenente Aldo Freddi perché era curioso di vedere cosa avessi trovato. Secondo lui, già comandante della mia compagnia che si distinse nei combattimenti dal 14 al 22 settembre, era troppo poco. Allora mi fece avere un altro pacco con lametta, sapone da barba, uno specchietto e altre piccole cose».

 

Un ricordo di quotidianità che sottolinea la fiducia delle truppe nei loro comandanti. In quella fase a presidiare Cefalonia insieme agli italiani della “Divisione Acqui”, circa dodici mila uomini, c’era un reparto di militari tedeschi di circa due mila soldati. «Fino ad allora la convivenza era stata pacifica – scrive Angelo Emilio - Eravamo lì per tutelare gli interessi comuni dell’Italia e della Germania. Quando, però, nell’isola giunse la notizia che il governo italiano, l’8 settembre aveva firmato un armistizio con gli Alleati, la guerra, di cui in patria si festeggiava la fine, scoppiò come un incubo a Cefalonia. Una vera catastrofe».

 

In seguito un grande giornalista come Indro Montanelli nel volume “Storia d’Italia” dedicato alla Seconda guerra mondiale ha scritto: «I capi politici e militari italiani non riuscirono a ingannare e a sorprendere i tedeschi, ma ingannarono, sorpresero ed abbandonarono i loro soldati».

 

All’atto dell’armistizio i tedeschi pretesero che i soldati italiani cedessero le armi. Per gli italiani non c’era scelta: accogliere le intimazioni dei tedeschi e consegnare le armi, o rifiutare e combattere. Subito iniziarono le trattative: il Generale Gandin cercò di mettersi in contatto con il comando di Brindisi, chiedendo insistentemente rinforzi, soprattutto mezzi aerei per far fronte a un eventuale attacco tedesco, ma senza risultati.

 

Solo il Contrammiraglio Giovanni Galati, ricevendo un messaggio di aiuto da Cefalonia, comandò che due torpedinieri, “Sirio” e “Clio”, carichi di materiale bellico, di pezzi antiaerei e di munizioni, facessero rotta verso Cefalonia. Avrebbero potuto essere la salvezza per gli italiani, ma la notizia - rivelatasi poi infondata - che l’unico approdo notturno disponibile a Cefalonia fosse controllato dai tedeschi lo fermò, e i rinforzi raggiunsero solo la vicina isola di Corfù.

 

In realtà, dietro questa scelta, ci fu la volontà dell’Ammiraglio inglese Peters che da Taranto dispose il rientro delle due torpediniere, perché avevano salpato le ancore senza l’autorizzazione dei vincitori.

 

Fallita la missione di soccorso, a decidere era rimasto solo il Generale Gandin. Ogni trattativa però fu inutile, e gli italiani giunsero allo scontro armato. La vendetta dei tedeschi non si fece attendere, e fu violenta e atroce. Molti rinforzi arrivarono a loro favore dalla terra ferma, ma fu l’intervento degli aerei “Stukas” a segnare le sorti del conflitto: in brevissimo tempo la “Divisione Acqui” fu travolta e massacrata.

 

Un fatto, però, è certo: gli ufficiali italiani furono eliminati contro ogni norma internazionale e i soldati sottoposti a decimazione mentre i feriti sul campo non furono soccorsi, ma fucilati sul posto. Angelo Emilio non dimenticò mai il 15 settembre 1943, quando gli Stukas tedeschi si gettarono in picchiata per annientare la 1ª batteria sul monte Telegrafo.

 

«Nel corso del bombardamento un ordigno cadde sul settore del plotone telefonisti – racconta Emilio - Tra i feriti ci fu il fante Natalizio Franzò, mio amico, che, pur prontamente soccorso e accompagnato all’Ospedale da campo, morì. Credo che la sua famiglia ancora oggi non sappia che fine abbia fatto. Ecco, la sua lapide si trova nel campo XX di Cefalonia, numero XXX».

 

Cefalonia si trasforma in un cimitero a cielo aperto. Il 18 settembre l’accanita resistenza della guarnigione italiana di Cefalonia attirò anche l’attenzione di Hitler che, personalmente, diede ordine di fucilare in combattimento tutti i militari italiani che opponessero resistenza. Molti ufficiali furono fucilati all’atto della resa, altri rastrellati, raggruppati e trasportati con autocarri nella suddetta “Casetta Rossa”.

 

Qui furono fucilati a gruppi di quattro o sei alla volta, in quattro ore di plotone di esecuzione 146 Ufficiali, colpevoli di avere compiuto il proprio dovere. Fu solo dietro le suppliche del cappellano militare don Romualdo Formato, anche lui portato con gli ufficiali alla “Casetta Rossa” che 37 Ufficiali italiani furono risparmiati.

 

Tra questi il Sotto Tenente Silvio Rigo, ufficiale dell’autore del diario, Angelo Emilio, nel reparto della Reggimentale a Merano e con il quale dopo la guerra Emilio ebbe corrispondenza epistolare, così come ebbe corrispondenza epistolare con don Romualdo Formato.

 

Il 21 settembre del 1943 il primo reparto del 724esimo battaglione Cacciatori tedesco sorprende sul fianco e alle spalle il terzo battaglione del 317esimo reggimento italiano schierato sulle basi di partenza: per Kardakata è l’ora della resa.

 

«Preso di forza dai tedeschi – si legge nel diario del reduce - fui scaricato accanto ad un ufficiale, anche lui dell’esercito ormai diventato nemico, il quale, con un binocolo in mano dirigeva le operazioni di guerra del proprio reparto. Si creò una fila. Migliaia di soldati italiani in marcia verso la morte. Decimati, cioè fucilati a gruppi di dieci, man mano che andavano avanti. Rimasi vivo perché ad un certo punto fui tirato fuori dalla colonna da un tedesco che mi diede l’incarico di guidare fino ad Argostoli un asinello rastrellato sul campo e caricato degli zaini dei carnefici».

 

Ammucchiati in quattro mila prigionieri nel campo di concentramento della vecchia caserma “Mussolini”, prima “Vittorio Veneto”, i sopravvissuti rimasero per giorni senza cibo e senza acqua dormendo all’aperto, sdraiati per terra, nel grande cortile di circa 1500 metri quadri. «Al centro dello spiazzale, un antico pozzo coperto di fango sul fondo. La nostra salvezza – si legge nel diario - attaccando lunghe cordicelle alle gavette riuscivamo ad attingere la melma da succhiare l’acqua attraverso stracci. Per la fame insopportabile, alcuni prigionieri arrivarono a dare la caccia ai topi, finché un giorno, da una nave che scaricava muli ne cadde uno in mare che annegò. Quando le onde lo portarono fino alla scogliera che era vicina all’accampamento, infatti, molti prigionieri ne assaltarono i resti putrefatti».

 

Il 31 ottobre, sempre del 1943, però, i tedeschi decisero di trasferire i sopravvissuti, via mare, in Russia, per avviarli ai lavori forzati.

 

Un imbarco alla rinfusa che vide le prime tre navi (Ardea, Alma e Maria Marta) piene di prigionieri urtare contro alcune delle mine che erano state disseminate nel golfo nel corso della guerra.

 

Di tutti i prigionieri, solo 2.600 raggiunsero l’Asia, mentre 1.350 morirono annegati.

 

Il resto del viaggio di Angelo Emilio è un’altra storia: quella della sua prigionia.



 

 

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