N. 127 - Luglio 2018
(CLVIII)
i signori della guerra - parte ii
la
cavalleria
pesante
italiana
nel
xv
secolo
di
Mauro
Difrancesco
Chi
erano
i
cavalieri?
Chi
faceva
parte
di
quest'élite
militare?
Come
erano
equipaggiati,
in
quale
modo
combattevano?
Innanzitutto,
bisogna
pensare
alla
composizione
di
un
“reparto”
di
cavalleria
pesante
italiana
del
XV
secolo:
differentemente
da
quanto
avvenne
in
fasi
alterne
nel
resto
d’Europa,
e
ciò
vale
in
particolar
modo
per
i
maggiori
stati
dell’epoca,
dove
si
assistette
gradualmente
alla
composizione
di
unità
multiarma,
nel
senso
che
al
cavaliere
pesante
erano
affiancati
cavalleggeri,
balestrieri
(e
più
tardi
fanti
armati
di
armi
da
fuoco
portatili),
picchieri
o
alabardieri
e
truppe
di
fanteria
armate
alla
leggera,
in
Italia
l’unità
base
della
cavalleria,
vale
a
dire
la
lancia,
rimase
esclusivamente
composta
da
cavalieri.
Partiamo
appunto
dalla
lancia:
fino
a
tutta
la
prima
metà
almeno
del
Quattrocento,
la
lancia
italiana
era
composta
da
tre
uomini,
la
cui
formazione
vuole
far
risalire
le
proprie
origini
a
John
Hawkwood,
identificati
in
due
armigeri
armati
circa
allo
stesso
modo
e
accompagnati
da
un
paggio.
Tale
combinazione
nasceva
dall’esigenza
di
far
combattere
gli
uomini
anche
a
piedi
ma
quando
questo
uso
perse
di
significato
e
venne
pian
piano
abbandonato,
anche
la
composizione
della
lancia
mutò:
un
armigero,
un
servente
ed
un
paggio
o
cavalleggero
con
armatura
ridotta.
Il
ruolo
delle
ultime
due
figure
rimase,
invece,
sostanzialmente
lo
stesso,
ovvero
quello
di
servire
il
capo-lancia
svolgendo
funzione
di
palafreniere,
di
manutenzione
alle
armi
e
agli
equipaggiamenti,
di
preparare
il
cibo
e
recapitare
messaggi.
Dopo
il
1450
la
composizione
della
lancia
cambiò
in
base
alle
tendenze
che
gli
eserciti
del
tempo
stavano
assumendo
sui
campi
di
battaglia,
prima
fra
tutte
la
preferenza
nel
combattimento
a
piedi.
Abbiamo
infatti
documenti
e
fonti
attestanti
il
fatto
che
i
“cavalieri
corazzati
su
destrieri
bardati”
fossero
denominati
armigeri
veri
o
cappelletti.
Ciò
fa
supporre
che,
all’interno
della
lancia,
fossero
ormai
entrati
in
scena
combattenti
diversi
dalla
tradizionale
cavalleria
pesante.
Anche
i
numeri
di
quest’ultima,
ridottasi
gradualmente
fino
a un
terzo
del
totale
in
un’armata,
fa
pensare
ad
una
evoluzione
graduale,
dapprima
spontanea
e
informale,
poi
definita
e
organizzata,
della
lancia.
Da
un
altro
lato,
questo
comportò
l’aumento
del
numero
dei
componenti
in
una
lancia,
passato
da
tre
a
quattro
uomini
nei
contratti
stipulati
negli
anni
Settanta
del
Quattrocento
da
Firenze
e
Milano,
arrivando
a
un’anomalia,
la
cosiddetta
corazza
Pontificia,
attestata
intorno
agli
anni
Sessanta.
Forma
modificata
e
potenziata
della
lancia
da
tre
uomini,
essa
può
far
desumere
l’influenza
Angioina
proveniente
da
Napoli,
in
cui
erano
presenti
lance
da
sei
uomini,
tipiche
della
tradizione
Francese.
Improbabile,
invece,
sembra
il
fatto
che
l’influenza
Francese
abbia
fatto
entrare
in
scena
componenti
che
oltralpe,
in
Borgogna
e in
Francia,
erano
di
largo
uso:
i
balestrieri.
Un
breve
excursus
lo
merita
la
lancia
Borgognona,
che
all’apice
della
sua
evoluzione
comprese
appunto
un
numero
di
armati
ben
maggiore
di
cinque/sei
uomini,
arrivando
a
contare
circa
nove-dieci
elementi
e
includendo
almeno
un
picchiere
oltre
a
tiratori
armati
di
arco,
balestra
e
schioppetto/archibugio.
La
capillare
e
moderna
organizzazione
dell’esercito
guidato
da
Carlo
di
Borgogna
(il
famoso
Temerario)
doveva
però
aver
vita
breve,
scontrandosi
con
quella
macchina
da
guerra
incarnata
dai
picchieri
svizzeri,
che
ben
presto
assursero
al
ruolo
di
miglior
fanteria
d’Europa
e
giudicati
imbattibili
sul
campo
di
battaglia.
Tornando
alla
nostra
penisola:
l’evoluzione
dell’armatura
del
cavaliere,
divenuta
sempre
più
pesante,
portò
ad
aumentare
il
numero
delle
cavalcature
al
seguito
dell’armigero,
in
funzione
di
un
affaticamento
precoce
del
cavallo
e
anche
del
fatto
che
dal
secondo
Quattrocento
in
poi
la
pratica
di
colpire
le
cavalcature
per
appiedare
il
cavaliere
e
renderlo
impacciato
e un
facile
bersaglio,
divenne
prassi
comune
durante
le
battaglia,
mentre
nella
prima
metà
del
secolo
era
considerato
un
modo
vile
di
combattere.
Fu
giocoforza
aumentare
il
numero
degli
attendenti
e
quindi
ingrossare
le
file
della
lancia;
il
fatto
però
che
differentemente
dal
modello
franco-borgognone,
negli
eserciti
italiani
vi
fosse
la
generale
tendenza
a
distinguere
nettamente
la
cavalleria
pesante
da
quella
leggera
e la
fanteria
dalle
prime
due,
fece
in
maniera
tale
che
il
ruolo
della
lancia
(e
della
corazza)
rimanesse
sostanzialmente
invariato:
una
massa
di
cavalieri
pesantemente
corazzati
e in
sella
ad
enormi
destrieri
anch’essi
bardati
di
tutto
punto
che
serviva
da
ariete
per
sfondare
uno
schieramento
avversario
o
controbatterne
le
truppe
montate.
Parallelamente
all’evoluzione
della
tipica
unità
di
combattimento
(la
lancia,
appunto)
si
ebbe
anche
una
generale
tendenza
ad
uniformare
ed
organizzare
le
unità
di
cavalleria
pesante:
se
già
dal
Trecento
la
squadra
di
25
lance
era
considerata
l’unità
base
di
combattimento
all’interno
delle
compagnie
di
ventura,
con
l’aumentare
degli
effettivi
all’interno
degli
eserciti,
la
compagnia
stessa
divenne
l’unità
base
di
combattimento.
Data
la
sostanziale
diversità
nella
composizione
numerica
insita
nelle
compagnie
di
ventura,
ben
presto
questo
si
rivelò
un
sistema
organizzativo
infelice
e
poco
razionale,
tanto
che
verso
la
fine
del
secolo
le
condotte
venivano
generalmente
assoldate
in
modo
che
comprendessero
un
numero
fra
le
50 e
le
100
lance,
accettando
nel
contempo
anche
la
squadra
di
25-30
lance
come
unità
base
di
combattimento.
Come
abbiamo
visto
poc’anzi,
le
lance
stavano
aumentando
il
numero
dei
propri
effettivi
(mantenendo
però
invariato
il
singolo
armigero)
in
funzione
dei
bisogni
del
cavaliere
pesante.
Così
aumentò,
di
fatto,
anche
il
numero
degli
effettivi
delle
squadre
che
si
attestò,
sul
finire
del
Quattrocento,
sui
150
uomini
di
cui
25
armigeri
comandati
in
battaglia
da
un
caposquadra
o
squadriere.
Una
breve
menzione
dev’essere
fatta
per
una
ulteriore
novità
nel
panorama
organizzativo:
la
nascita
della
colonna,
un’unità
più
grande
e il
cui
comandante/condottiere
veniva
talvolta
definito
con
il
termine
di
colonnello.
Vario
a
seconda
della
composizione
di
un
esercito
era
l’effettivo
di
queste
nuove
unità.
Mentre,
quindi,
composizione
e
numerico
delle
unità
di
cavalleria
pesante
variarono
nel
corso
del
secolo
XV,
il
ruolo
che
queste
ebbero
sul
campo
di
battaglia
rimase
pressoché
immutato:
“la
maggiore
importanza
data
alla
squadra
o
alle
formazioni
di
più
squadre
consentì
una
flessibilità
maggiore
e
anche
una
più
efficace
disciplina
dei
movimenti
durante
le
battaglie.
Ed è
sicuramente
errato
pensare
che
la
principale
e
più
usata
manovra
tattica
italiana
fosse
allora
quella
dell’attacco
frontale
in
massa
della
cavalleria.
È
certo
però
che
i
cavalieri
italiani
rimasero
in
fondo
dei
lancieri
coperti
da
armatura
pesante”
(Michael
Mallet,
2006).
Riallacciandoci
alle
parole
del
Mallet,
capiamo
quindi
che
l’attacco
frontale
della
cavalleria
non
era
una
semplice
carica
in
massa
e
nient’altro,
anzi:
mentre
in
Francia
si
era
soliti
radunare
le
lance
in
tre
battaglioni
(avanguardia,
battaglia
e
retroguardia)
e
usandoli
appunto
per
attacchi
ravvicinati
e di
massa
(uso
peraltro
gradualmente
tralasciato
durante
e
dopo
la
Guerra
dei
Cent’anni,
che
ne
palesò
l’inefficacia),
nella
penisola
i
condottieri
tendevano
a
utilizzare
le
cariche
di
squadra
o di
squadrone
(2-3
squadre),
quindi
condotte
da
un
minor
numero
di
uomini,
nelle
fasi
iniziali
dello
scontro,
usandole
per
stancare
l’avversario
e
per
coinvolgere
poi
una
riserva
alla
fine
della
battaglia.
Tale
riserva,
comandata
generalmente
dal
condottiere
stesso,
poteva
essere
precostituita
oppure
organizzata
all’uopo,
sottraendo
ad
ogni
squadra
le
lance
migliori
da
impiegare
in
un
assalto
finale
diretto
dal
condottiere
e
che
mettesse
definitivamente
in
rotta
l’avversario.
Parliamo
di
“avversario”
e
non
di
“nemico”
in
quanto
la
pratica
della
guerra
nell’Italia
delle
Compagnie
di
ventura
possedeva
qualcosa
di
unico
nel
panorama
europeo.
Machiavelli
e
altri
letterati
del
suo
tempo
erano
soliti
dire
che
i
mercenari
non
si
ammazzassero
sul
campo,
preferendo
combattere
per
finta
in
modo
da
far
durare
la
guerra
il
più
a
lungo
possibile
e
aumentando
quindi
i
guadagni.
Ciò
era
vero
ma
solo
in
parte,
se
pensiamo
ad
esempio
alla
pratica
di
prendere
prigionieri
soprattutto
i
cavalieri
dello
schieramento
opposto,
onde
poter
poi
chiedere
un
riscatto.
Oppure,
come
si è
detto
poc’anzi,
la
strage
di
cavalli
che
dalla
seconda
metà
del
secolo
XV
era
diventata
prassi
comunemente
adottata
nelle
battaglie
campali.
Non
c’è
da
chiedersi
perché,
nel
1494,
ben
tre
dei
cinque
maggiori
Stati
Italiani
si
fossero
sciolti
come
neve
al
sole
dinnanzi
all’avanzata
di
Carlo
VIII.
C’è
piuttosto
da
interrogarsi
sul
come
una
società
che
basava
la
guerra
su
una
giostra
di
cavalieri
dai
cimieri
piumati
e
dalle
splendenti
armature
(non
del
tutto
ovviamente,
come
si è
visto)
ed
anzi,
su
un
vero
e
proprio
torneo
in
cui
si
mieteva
il
minor
numero
di
vittime
possibile
e le
distruzioni
erano
marginalizzate,
abbia
potuto
resistere
così
a
lungo,
prima
di
essere
spazzata
via
dalla
rivoluzione
militare
che
da
quel
momento
ebbe
il
suo
primo
esordio,
sviluppandosi
poi
nell’arco
di
almeno
tre
secoli
di
guerre
ed
evoluzione
tecnologica.
Perché
la
cavalleria
pesante
armata
di
lancia
rimase
dunque
in
auge
così
a
lungo?
Secondo
i
canoni
della
modernità,
essa
sarebbe
dovuta
tramontare
già
ai
tempi
dell’introduzione
della
balestra
e
del
long
bow
inglese,
come
arma
risolutiva
delle
battaglie
tramite
una
gloriosa
carica.
L’equipaggiamento
(le
armi
e
soprattutto
le
costose
armature
con
sofisticate
soluzioni
tecniche),
i
cavalli
e
coloro
i
quali
avrebbero
dovuto
badare
a
tutta
la
panoplia
avevano
reso
l’accesso
a
questa
compagine
militare
sempre
più
ristretto
ed
elitario,
possibile
solo
ai
ranghi
della
nobiltà.
“Fu
proprio
questo
a
mantenere
in
auge
la
cavalleria,
con
il
suo
contorno
culturale,
tradizionale
e
sociale:
il
valore
in
battaglia,
la
ricchezza
delle
armi
e la
qualità
della
cavalcatura
erano
simboli
della
superiorità
sociale
e
non
potevano
essere
abbandonati
soltanto
perché
contadini
e
fabbri
avevano
inventato
certe
diavolerie
che
cambiavano
la
guerra.
Almeno
così
pensavano
i
cavalieri.
Ma
non
poteva
durare
a
lungo.
La
battaglia
intesa
come
grandioso
torneo
e
campo
d’esibizione
dei
valori
individuali
venne
spazzata
via
dalla
ferocia
di
svizzeri
e
lanzi”
(Marco
Scardigli,
2014).
Glossario:
1.
Longbow:
arco
lungo
a
curvatura
unica
tipico
degli
eserciti
Inglesi.
Introdotto
nel
XIII
secolo
sotto
Edoardo
I
Plantageneto,
si
sviluppò
grazie
alla
condizione
di
marginalità
delle
isole
Britanniche
in
quel
periodo,
alla
mancanza
di
maestranze
specializzate
nella
produzione
di
balestre
e al
loro
costo;
2.
Palvese:
più
raramente
pavese,
era
un
grande
scudo
oblungo
che
per
il
suo
peso
era
trasportato
in
battaglia
da
un
fante
che
accompagnava
un
balestriere
e,
più
tardi,
lo
schioppettiere.
Posizionava
lo
scudo
di
fronte
a sé
per
proteggere
la
propria
figura
e
permettere
al
fante
armato
di
arma
da
tiro
di
ricaricare
e
puntare
protetto
dal
grande
scudo;
3.
Targone:
scudo
utilizzato
dalla
fanteria
italiana
medievale.
Deriva
probabilmente
dal
"targe",
lo
scudo
degli
Highlanders,
in
legno
di
larice
ricoperto
di
cuoio,
delle
dimensioni
di
50–60
cm
di
diametro,
con
impugnatura
(imbracciatura)
centrale;
4.
Arte
poliorcetica:
dal
greco
πολιορκητικόν,
poliorketikon
(letteralmente
espugnazione
di
città)
è il
termine
che
designa
l'arte
di
assediare
ed
espugnare
le
città
fortificate;
5.
Jinetes/Stradioti:
cavalleggeri
di
derivazione
iberica
ed
albanese
armati
alla
leggera
ed
utilizzati
in
particolar
modo
dagli
eserciti
spagnolo
e
veneziano;
6.
Schioppetto:
primitiva
arma
da
fuoco
portatile,
antenato
dell’archibugio;
7.
John
Hawkwood:
condottiero
di
ventura
di
origine
inglese.
Famoso
per
essere
diventato
il
grande
comandante
degli
eserciti
fiorentini
nel
XIV
secolo;
8.
Compagnie
di
ventura:
associazione
di
mercenari
sotto
la
guida
di
un
condottiero
che
si
diffusero
in
Italia
a
partire
dal
XIV
secolo
e
che
ebbero
il
momento
di
maggior
prestigio
nel
XV.
Riferimenti
bibliografici:
Michael
Mallet, L’arte della guerra, in
Michael
Mallet,
Signori
e
mercenari,
la
guerra
nell’Italia
del
Rinascimento,
Il
Mulino,
2006,
p.
151
Marco
Scardigli, Fanterie, artiglierie e la guerra che cambia, in
Marco
Scardigli,
Cavalieri,
mercenari
e
cannoni,
l’arte
della
guerra
nell’Italia
del
Rinascimento,
Arnoldo
Mondadori
Editore,
2014,
p.
338.