N. 126 - Giugno 2018
(CLVII)
i signori della guerra - parte i
la
cavalleria
pesante
italiana
nel
xv
secolo
di
Mauro
Difrancesco
Nell’immaginario
collettivo
occidentale
il
termine
cavaliere
riporta
alla
mente
la
figura
di
un
uomo
cortese,
di
bell’aspetto
e
dai
modi
gentili.
Così
lo
ritroviamo
nella
letteratura
classica
italiana
del
Boiardo,
di
Ariosto
e
ancora
prima,
risalendo
fino
ai
due
grandi
filoni
letterari
europei
dediti
alla
trattazione
di
eroi,
dame
e
cavalieri:
il
Ciclo
Bretone/Carolingio
(Chansons
de
geste)
e
quello
Arturiano
(i
più
che
famosi
cavalieri
della
tavola
rotonda,
tanto
cari
al
cinema
Hollywoodiano).
Ma
era
realmente
tutto
qui?
Il
cavaliere
medievale
era
“solamente”
un
nobile
vestito
di
un’armatura
pesante
che
combatteva
gli
ingiusti
e i
malvagi,
difendeva
coloro
che
non
potevano
farlo
da
soli
e
viveva
nella
grazia
del
Signore?
Partendo
dalla
composizione
delle
formazioni
di
cavalleria
pesante
italiana
del
Quattrocento
(analizzando
in
breve
anche
il
ruolo
secondario,
ma
in
fase
ascendente,
della
fanteria),
si
cercherà
di
mettere
in
luce
i
punti
forti
e le
debolezze
di
quest’arma,
analizzando
il
modo
in
cui
veniva
impiegata
in
battaglia,
organizzata
e
strutturata.
Vedremo
come,
nell’arco
di
oltre
un
secolo,
gli
Stati
della
penisola
Italiana
si
fossero
quasi
“ibernati”
in
un
modo
di
guerreggiare
che
venne
drammaticamente
surclassato
dalla
calata
di
Carlo
VIII
di
Francia
nel
1494
e di
quello
che
venne
considerato,
di
lì a
breve,
l’esercito
più
moderno
ed
efficiente
d’Europa.
Non
erano
carenti
gli
uomini,
le
tattiche
o i
comandanti,
bensì
il
pensiero
stesso
della
guerra,
la
sua
filosofia
fatta
di
inseguimenti,
schermaglie,
assedi
logoranti
e
riscatto
dei
prigionieri;
laddove
i
Transalpini
(Svizzeri
in
testa)
combattevano
invece
una
guerra
di
annientamento,
o
per
meglio
dire,
annichilimento
del
nemico
e
della
sua
capacità
di
combattere.
Ecco,
nel
panorama
della
guerra
nell’Italia
del
Quattrocento,
andremo
ad
analizzare
questo
strumento
potente
e
nel
contempo
tanto
fragile
che
fu
la
cavalleria
pesante
italiana.
“Una
delle
critiche
principali
all’andamento
delle
vicende
militari
italiane
nel
Quattrocento
ha
avuto
per
oggetto
il
continuato
predominio
di
un
tipo
anacronistico
di
cavalleria
pesante
nella
composizione
degli
eserciti
italiani
del
tempo
e la
congiunta
ignoranza
degli
sviluppi
ormai
in
atto
fuori
dall’Italia
nell’uso
dell’artiglieria
e
della
fanteria.
Insomma
si è
voluto
affermare
che
nell’Italia
d’allora
l’arte
della
guerra
non
conobbe
progresso
alcuno”.
Nella
sua
opera
Mallet
ripercorre
un
arco
di
tempo
che
inizia
con
il
Duecento
e si
conclude
con
l’inizio
delle
famigerate
Guerre
d’Italia,
in
quello
che
può
essere
definito
il
primo
episodio
di
una
saga
che
andrà
avanti
fino
alla
pace
di
Cateau-Cambresis
(2-3
Aprile
1559).
Tale
insieme
di
conflitti
videro
l’importanza
politica
nonchè
militare
(tranne
che
per
certi
aspetti
quantitativi,
d’altronde
le
parti
in
lotta
dovevano
pur
rimpinguare
i
ranghi,
e
assoldare
mercenari
locali
era
più
rapido
e
semplice
che
non
far
venire
truppe
da
luoghi
ben
più
lontani)
degli
Stati
Italiani
ridursi
fino
all’osso,
fino
a
che
non
vennero
relegati
a
svolgere
delle
comparsate
per
sostenere
ora
la
Spagna,
ora
i
Francesi
nel
predominio
su
una
penisola
che
non
avrebbe
mai
più
goduto
di
quell’idillio
isolatore
votato
a
lasciare
le
cose
d’Italia
agli
Italiani.
L’autore
opera
un
sostanziale
ridimensionamento
circa
quei
difetti
che
gli
storici
del
tempo
(Machiavelli
e
Guicciardini,
per
citare
i
più
noti)
vedevano
nelle
compagini
militari
italiane.
Non
solo:
accanto
alla
narrazione
dei
più
salienti
fatti
d’arme
e di
coloro
che
vi
presero
parte
macchinando
dietro
le
quinte
o
esponendosi
sul
campo
di
battaglia,
Mallet
traccia
l’evoluzione
e
l’organizzazione
di
uno
strumento
militare
e
con
esso
della
macchina
burocratica
atta
a
tenerlo
in
piedi
e
farlo
funzionare
con
ampio
ricorso
a
fonti
e
documenti.
Consideriamo
che
l’arte
della
guerra
nell’Italia
del
Quattrocento
vedeva,
a
differenza
che
altrove
in
Europa,
l’assenza
di
grossi
e
ben
organizzati
reparti
di
fanteria.
E
questo
nonostante
la
sanguinosa
Guerra
dei
Cent’anni,
fra
le
corone
di
Inghilterra
e
Francia,
avesse
portato
molti
mercenari
in
Italia,
fra
cui
i
temuti
longbow
men
inglesi
delle
“white
companies”,
con
la
speranza
di
guadagno
data
dalle
continue
guerre
che
imperversavano
nella
penisola
e
quindi
avessero
portato
con
sé
un
bagaglio
militare
vasto
e
sperimentato,
non
si
assistette
alla
formazione
di
specialità
di
fanteria
in
vasto
numero
se
non
con
un
notevole
ritardo
rispetto
alle
controparti
estere.
Tale
assenza
non
è
però
da
considerarsi
assoluta
e
anzi
la
fanteria
italiana
del
Quattrocento
merita
sicuramente
una
trattazione
particolareggiata
e a
parte
per
la
vastità
dell’argomento.
Ci
limiteremo
ad
osservare
come
essa
fosse
formata,
all’inizio
del
secolo,
da
tre
tipi
di
formazioni:
lance
di
fanteria,
fanti
armati
di
grandi
scudi
detti
“palvese”
e “targone”
da
cui
i
termini
palvesari
e
targonieri,
e
balestrieri.
Occupazione
principale
della
fanteria
era
di
supporto
alla
cavalleria
pesante,
schermandola
durante
la
sua
riorganizzazione,
nel
presidiare
uno
spazio
sul
campo
di
battaglia,
ma
anche
dedicarsi
all’arte
poliorcetica,
assediando
le
città
fortificate
ed
erigendo
a
sua
volta
fortificazioni
campali.
Successivamente,
e
dietro
la
spinta
di
influenti
comandanti
ed
innovatori,
furono
creati
modelli
di
fanterie
che
potremmo
definire
2.0
e
che
accrebbero
il
prestigio
dell’arma
sul
campo
di
battaglia
non
meno
che
nei
riguardi
delle
autorità
statali.
“Sia
lo
Sforza
sia
Braccio
da
Montone
riservarono
particolari
cure
alla
loro
fanteria
e
Francesco
Sforza
seppe
addestrare
una
forza
di
fanteria
altamente
disciplinata
[…]”.
Fu
durante
le
Guerre
di
Lombardia,
che
videro
Milano
contrapposta
a
varie
leghe
di
stati
spesso
guidate
dalla
rivale
Venezia,
che
si
videro
nuove
formazioni
di
fanteria:
il
territorio
della
pianura
lombarda,
ricco
di
spazi
aperti,
ma
anche
di
fiumi
e
canali,
nonché
di
opere
agresti
che
potevano
facilmente
essere
arrangiate
a
fortificazioni,
dovevano
essere
conquistate
pezzo
per
pezzo
e
sicuramente
la
cavalleria
non
sarebbe
stata
di
alcuna
utilità
lanciandosi
al
galoppo
in
una
clamorosa
carica.
Neppure
sarebbe
stata
una
buona
idea
quella
di
far
smontare
gli
uomini,
che
sarebbero
risultati
troppo
impacciati
anche
nel
semplice
superamento
degli
ostacoli
naturali,
figuriamoci
un’opera
campale,
seppur
di
modesto
tenore.
La
soluzione
fu
la
cosiddetta
fanteria
di
spada
e
scudo
di
derivazione
Iberica.
L’arrivo
degli
Aragonesi
a
Napoli
negli
anni
quaranta
del
secolo
XV
portò
quindi
alcune
novità
anche
nel
modo
di
fare
la
guerra,
sia
a
piedi
che
a
cavallo
(vedasi
la
cavalleria
formata
da
Jinetes
spagnoli
come
poi
gli
Stradioti
Albanesi
al
soldo
della
Serenissima)
e il
primo
ad
usufruirne
fu
proprio
Braccio
da
Montone.
Questi
uomini
erano
armati
per
l’appunto
di
spada
e
scudo
rotondo
(da
qui
il
termine
rotularii
per
indicare
questo
tipo
di
fanteria),
coperti
da
armature
leggere
(talvolta
neppure
da
quelle)
e
addestrati
al
feroce
ed
aggressivo
combattimento
corpo
a
corpo.
Milano
per
prima,
poi
Venezia
e
infine
lo
Stato
Pontificio
potevano
vantarsi
di
avere
la
migliore
fanteria
d’Italia.
Per
Firenze
e
Napoli,
nonostante
l’influenza
Aragonese,
non
si
hanno
invece
corrispondenze,
tanto
che
la
prima
mantenne
una
ormai
davvero
anacronistica
fanteria
ripartita
come
quella
poc’anzi
descritta
e a
Napoli
non
è
attestato
nessuno
sviluppo
di
una
fanteria
particolarmente
efficiente.
Nello
stesso
periodo
andò
a
svilupparsi
con
maggiore
rapidità
e
quantità
un
altro
tipo
di
fanteria
che
vide
l’introduzione
delle
armi
da
fuoco
portatili
o
individuali.
In
principio
fu
lo
schioppetto,
il
cui
utilizzo
è
attestato
addirittura
nel
Duecento.
All’inizio
esso
era
prevalentemente
usato
come
deterrente
o
piuttosto
come
dimostrazione
di
superiorità
tecnologica,
aumentando
sempre
più
la
sua
presenza
nell’ambito
degli
eserciti
italiani
per
tutto
il
Quattrocento.
Milano
e
Venezia,
come
sempre,
rivaleggiavano
sul
podio
per
chi
avesse
fra
le
proprie
fila
più
schioppettieri,
mentre
lo
Stato
Pontificio
rimaneva
indietro,
seguito
a
sua
volta
da
una
Firenze
assai
poco
attenta
alla
cura
delle
proprie
forze
militari,
paragonata
agli
altri
maggiori
stati
della
penisola.
Si è
spesso
pensato
che
queste
rudimentali
armi
fossero
del
tutto
inaffidabili
almeno
fino
al
1500,
ma
il
numero
di
uomini
armati
di
schioppetto
(Milano
nel
1476
aveva
un
quinto
della
sua
fanteria,
circa
duemila
uomini,
armati
di
schioppetto)
e le
perdite
causate
sui
campi
di
battaglia
rimangono
un’attestazione
solida
del
contrario.
Altra
prova
ne è
il
fatto
che
questi
sostituirono
gradualmente
la
balestra
come
arma
comune
dei
tiratori
negli
eserciti
italiani:
nel
1482,
all’appressarsi
della
guerra
di
Ferrara,
il
contingente
Milanese
annoverava,
secondo
le
stime
di
Michael
Mallet,
circa
352
archibugieri
(che
andranno
gradualmente
a
sostituire
gli
schioppetti),
1250
schioppettieri
e
solo
233
balestrieri.
“Dunque
le
forze
di
fanteria
costituivano
una
parte
significativa
degli
eserciti
italiani
quattrocenteschi.
È
vero
che
tali
eserciti
non
avevano
quei
reparti
disciplinati
di
picchieri
alla
svizzera
che
oltralpe
stavano
conoscendo
un
successo
di
breve
durata
[...]
Ma
ormai
si
poteva
fare
assegnamento
su
fanti
esperti
e
ben
addestrati
e
costoro
svolsero
una
parte
sempre
più
importante
nelle
operazioni
belliche”.