N. 67 - Luglio 2013
(XCVIII)
PRIMO RISORGIMENTO ITALIANO
CAUSE E SCOPPIO DELLA RIVOLUZIONE DEL 1848 IN VENETO
di Luca Zampino
Nel
1848
l’assetto
politico-territoriale
della
penisola
italiana
era
praticamente
immutato
da
quando
il
suo
frazionamento
in
stati
medio-piccoli
con
governi
monarchici
assolutistici
fu
deciso
al
Congresso
di
Vienna,
nel
1815,
data
con
cui
si è
soliti
ad
indicare
l’inizio
del
periodo
chiamato
della
Restaurazione.
A
sud
la
dinastia
dei
Borbone
governava
il
Regno
delle
Due
Sicilie
con
pugno
di
ferro,
mentre
nel
centro
lo
Stato
della
Chiesa
e
nel
nordovest
il
Regno
di
Sardegna,
pur
essendo
monarchie
assolute,
stavano
aprendosi
timidamente
alla
teorie
liberali
che
stavano
espandendosi
in
tutta
Europa
dall’Inghilterra
e
dalla
Francia,
a
partire
dal
1846.
Con
esse,
nonostante
il
legame
dinastico
asburgico,
procedeva
sulla
via
delle
riforme
anche
il
Granducato
di
Toscana.
L’Austria,
con
il
suo
centralismo
politico
ed
economico,
si
premurava
che
la
situazione
rimanesse
statica,
per
evitare
che
teorie
liberali
o
addirittura
di
matrice
democratica
e
repubblicana
potessero
giungere
nel
Lombardo-Veneto,
territorio
controllato
direttamente
da
Vienna
e di
fatto
il
più
ricco
di
materie
prime
dell’Impero.
Tuttavia
l’imperatore
Ferdinando
I,
salito
al
trono
nel
1835,
non
era
in
grado
di
gestire
una
situazione
politica
che
si
stava
sempre
più
aggravando
e
che
metteva
in
crisi
la
sua
stessa
posizione,
soprattutto
a
causa
della
sua
scarsa
abilità
politica
e
del
suo
carattere
debole.
L’impero
austriaco
infatti
era,
ormai
da
molti
anni,
logoro
e in
declino:
le
cause
principali
stavano
nel
fatto
che
la
gestione
dei
territori
era
attuata
in
modo
tradizionale,
tipico
di
uno
stato
del
diciottesimo
secolo,
e
che
l’apparato
governativo
era
troppo
centralizzato
e
burocratizzato;
di
conseguenza
tutta
la
macchina
amministrativa
era
esageratamente
lenta.
Oltre
a
ciò,
assai
più
di
altre
monarchie
assolutistiche,
l’Austria
doveva
affrontare
il
problema
della
multietnicità.
I
sudditi,
distribuiti
su
un
territorio
che
andava
da
Milano
a
Budapest,
da
Zagabria
alla
Galizia,
erano
circa
venti
milioni
di
cui
poco
più
della
metà
erano
di
etnia
tedesca.
Italiani,
ungheresi,
slavi
e
altre
minoranze,
completavano
il
quadro
demografico
dello
stato,
tutti
con
una
storia
propria
e
con
esigenze
diverse
tra
loro
che
non
si
potevano
ignorare.
Lo
stato
asburgico
era,
inevitabilmente,
uno
stato
di
polizia.
Il
controllo
dei
territori
era
attuato
con
l’utilizzo
dell’esercito,
il
quale
era
formato
da
uomini
delle
varie
dell’impero,
che
erano
stanziati
in
territori
diversi
dalla
loro
terra
di
provenienza.
Ad
esempio
nel
Lombardo-Veneto
gran
numero
dei
soldati
era
di
origine
ungherese
e
croata,
oltre
che
austriaca
e in
minima
parte
italiana,
così
da
evitare
possibili
fraternizzazioni
fra
la
popolazione
e
gli
uomini
sotto
le
armi.
L’esercito
austriaco
era
uno
dei
più
efficienti
d’Europa,
nonché
uno
dei
più
numerosi.
Secondo
Piero
Pieri
gli
eserciti
dell’epoca
si
dividevano
in
due
categorie:
quello
numerico
e
quello
di
qualità.
Quello
di
numero
prediligeva
addestrare
una
gran
quantità
di
uomini,
accorciando
gli
anni
di
leva
obbligatoria,
e
quindi
di
addestramento.
Ci
si
trovava
così,
in
caso
di
guerra,
ad
avere
un
alto
numero
di
soldati
disponibile,
ma
con
poca
disciplina
e
spirito
militare.
Questa
struttura
era
tipica
dell’esercito
prussiano.
L’esercito
di
qualità
invece
preferiva
attuare
un
lungo
addestramento
per
un
ristretto
numero
di
uomini,
così
che,
al
momento
di
un
eventuale
guerra,
il
nucleo
centrale
dell’esercito
fosse
stato
disciplinato
e
con
un
elevato
spirito
militare.
T
ale
tipo
di
esercito
era
prediletto
dalla
Francia.
L’esercito
asburgico
era
strutturato
alla
francese,
quindi
la
macchina
bellica
austriaca
era
una
delle
armate
qualitativamente
più
efficaci
nel
panorama
militare
europeo,
inoltre
era
uno
dei
più
grandi
grazie
alla
sua
estensione
territoriale
elevata.
Solo
nel
Lombardo-Veneto
erano
stanziati
all’inizio
del
1848
poco
più
di
75.000
soldati.
Il
problema
di
un
esercito
permanente,
come
quello
austriaco,
era
di
conseguenza
soprattutto
economico.
Il
mantenimento
di
così
tanti
soldati
in
un
territorio
come
il
Lombardo-Veneto,
ricadeva
inevitabilmente
sulla
popolazione
locale.
Perciò
il
Regno
Lombardo-Veneto
doveva
provvedere
ai
suoi
stessi
guardiani,
incrinando
enormemente
i
rapporti
tra
l’autorità
e la
cittadinanza.
Fin
dalla
sua
prima
annessione,
nel
1814,
il
Veneto,
più
della
Lombardia,
era
sempre
stato
trattato
come
un
territorio
occupato,
anziché
come
una
parte
dell’impero
austriaco.
La
fine
della
Repubblica
di
Venezia,
conquistata
e
occupata
da
Napoleone
Bonaparte
nel
1797,
fu
un
evento
sicuramente
traumatico
per
i
veneti,
consapevoli
di
aver
perso
quella
libertà,
di
fatto
centenaria,
che
avevano
avuto
le
generazioni
a
loro
precedenti.
La
mancata
restaurazione
della
repubblica
oligarchica,
decisa
al
Congresso
di
Vienna,
fu
una
delle
più
importanti
modifiche
territoriali
avvenute
nel
1815.
L’unione
con
la
Lombardia
inoltre
era
solamente
un
modo
per
semplificare
l’amministrazione
del
territorio.
Non
furono
date
concessione
di
autonomia.
L’Austria
gestiva
questa
vasta
zona
ignorando
una
storia
secolare,
incancellabile
nelle
menti
dei
più,
in
soli
pochi
decenni.
Ancora
più
grave
fu
che
tale
atteggiamento
le
autorità
lo
mantennero
anche
con
la
classe
aristocratica,
la
più
colpita
dalla
fine
dell’indipendenza,
perciò
quella
più
delusa
(che
però
non
prese
parte
direttamente
alla
rivoluzione
del
1848).
Infatti
oltre
a
perdere
la
libertà,
i
nobili
veneziani
persero
anche
quei
privilegi
che
erano
stati
una
loro
prerogativa
per
secoli.
Tutti
i
cittadini
erano
quindi
esclusi
dalla
vita
politica.
L’amministrazione
austriaca
era
fortemente
centralizzata,
con
una
apparato
burocratico
lento
e
macchinoso.
Tutto
veniva
spedito
a
Vienna,
e
molto
di
questo
era
visto
personalmente
dal
sovrano.
In
particolar
modo
Francesco
I,
imperatore
fino
alla
morte
nel
1835,
visionava
gran
parte
delle
carte
provenienti
da
le
varie
parti
dell’impero,
allungando
ulteriormente
i
tempi
delle
procedure.
Ciò
fa
comprendere
perché
le
istituzionalizzazioni
rappresentative
in
Veneto
fossero
state
abolite
fin
da
subito,
e
come
le
congregazioni
che
avevano
il
compito
di
sostituire
tali
organi
fossero
sostanzialmente
inutili.
Il
tutto
veniva
aggravato
e
reso
ancora
più
pesante,
fin
da
subito,
dall’organizzazione
della
magistratura,
monopolio
degli
uomini
di
legge
austriaci.
Agli
avvocati
italiani
venivano
affidati
compiti
di
bassa
importanza.
Infatti
i
casi
di
cui
essi
si
occupavano
erano
tutti
civili,
le
cause
penali
erano
affidate
unicamente
ad
avvocati
trentini
e
tirolesi.
Di
conseguenza,
senza
possibilità
di
partecipare
alla
vita
politica
e a
quella
giuridica,
si
intuisce
come
l’aristocrazia
veneta
fosse
inevitabilmente
impotente
e
priva
di
un
qualsiasi
potere
decisionale.
Il
controllo
sulla
vita
dei
cittadini
era
soffocante
e
rigido.
Una
forte
censura
costringeva
la
maggior
parte
degli
intellettuali
italiani
a
scrivere
molte
opere
clandestinamente,
come
ad
esempio
Tommaseo
e
Cattaneo.
Ciò
venne
attuato
per
evitare
che
si
potessero
fomentare,
cosa
che
avvenne
comunque,
sentimenti
nazionali
e
indipendentisti.
L’alto
clero
appoggiava
questa
politica
di
censura
in
cambio
del
monopolio
dell’istruzione
nelle
scuole.
Salvo
alcune
eccezioni
infatti,
quasi
tutte
le
scuole
erano
affidate
a
preti
o a
parroci
cattolici.
Inoltre
non
era
raro
che
le
confessioni
dei
fedeli
italiani,
fossero,
pur
contro
la
regola
ecclesiastica,
passate
alla
polizia,
dai
preti,
in
caso
le
rivelazioni
fossero
state
compromettenti.
La
chiesa
dunque
era
un
vero
e
proprio
strumento
di
controllo
nelle
mani
delle
autorità
asburgiche.
La
situazione
dell’economia
veneta
non
era
sicuramente
sana,
e fu
un’ulteriore
causa
della
ribellione
del
1848.
Venezia
fu
considerata,
fin
dall’inizio
della
sua
inclusione
nello
stato
asburgico,
come
il
secondo
porto
dell’impero,
per
capacità
di
importazione
ed
esportazione,
militarmente
e
politicamente.
Trieste
godeva
infatti
di
tutti
i
vantaggi
possibili,
grazie
allo
status
di
porto
franco
concesso
da
Maria
Teresa
nel
XIII
secolo.
Solo
nel
1830
Venezia
poté
usufruire
della
stessa
condizione,
ma a
differenza
della
città
rivale,
era
sempre
soggetta
a
forti
dazi,
come
ad
esempio
sul
vino
e
sulla
seta,
i
prodotti
più
pregiati
della
regione.
Le
leggi
del
mercato
non
favorivano
dunque
i
commercianti
veneziani.
I
problemi
della
classe
contadina
invece
erano
di
altra
natura,
ma
di
gravità
superiore.
La
forte
tassazione
sui
prodotti
del
suolo
e
l’incertezza
sui
diritti
di
proprietà,
furono
le
complicazioni
più
gravi
di
questa
categoria
che
includeva
la
maggior
parte
della
popolazione
veneta.
Anche
a
causa
del
forte
aumento
demografico,
che
si
ebbe
all’inizio
degli
anni
trenta
dell’ottocento,
la
loro
situazione
era
talmente
disperata
che
non
furono
rare
le
morti
per
inedia.
Tuttavia
e
difficile
spiegare
come,
con
questa
situazione
tragica,
le
rivolte
e le
proteste
dei
contadini
furono
molto
contenute,
rispetto
ad
esempio
a
quelle
che
avvennero
in
Sicilia,
e
che
furono
il
motore
trainante
della
rivoluzione
contro
i
Borbone
nel
1848.
Oltre
a
ciò
i
contadini
veneti
erano
la
classe
che
più
di
ogni
altra,
era
soggetta
alla
coscrizione
obbligatoria,
in
base
alla
quale
i
giovani
erano
costretti
ad
arruolarsi
nell’esercito
asburgico,
per
un
minimo
di
tre
anni,
sottraendo
così
numerose
braccia
alla
terra,
aggravando
ulteriormente
la
situazione
delle
famiglie
più
povere.
Questa
dunque
era
la
situazione
socio-economica
del
Veneto
alle
soglie
del
1848,
anno
della
possibile
consacrazione
della
classe
borghese,
a
discapito
dell’ormai
logoro
e
consumato
antico
regime.
Nei
decenni
successivi
al
Congresso
di
Vienna
infatti
la
rinfrancata
nobiltà,
che
aveva
tremato
durante
il
dominio
napoleonico,
tentò
di
cancellare
almeno
una
parte
dei
cambiamenti
che
vennero
portati
dall’ondata
rivoluzionaria
partita
da
Parigi
nel
1789.
Tuttavia
far
passare
quel
periodo
di
cambiamenti
solo
come
lunga
parentesi
era
troppo
semplicistico
e in
sostanza
questo
obiettivo
fallì
miseramente.
I
moti
rivoluzionari,
dei
democratici
italiani,
partiti
da
Parigi
nel
1830,
se
pur
fallimentari
misero
in
luce
come
una
gran
maggioranza
della
così
detta
classe
media,
e
degli
intellettuali
rimpiangesse
il
periodo
trascorso
sotto
il
regime
napoleonico.
Nella
penisola
italica
i
tentativi
repubblicani
più
importanti
furono
organizzati
e
messi
in
atto
da
Giuseppe
Mazzini.
Fondatore
delle
Giovine
Italia
nel
1831,
il
suo
sogno
era
la
creazione
di
uno
stato
italiano
indipendente,
unito
dalla
Sicilia
alle
Alpi
con
capitale
Roma.
Il
regime
doveva
essere
ovviamente
repubblicano,
salvaguardato
da
una
costituzione
che
prevedesse
il
suffragio
universale
maschile.
I
metodi
da
lui
proposti
per
raggiungere
questo
nobile
obiettivo
prevedevano
un’educazione
del
popolo
alla
guerriglia
e ai
valori
democratici.
Una
volta
educati
i
cittadini
si
sarebbero
sollevati
contro
i
vari
regimi
assolutistici
sotto
i
quali
erano
assoggettati.
Tuttavia
i
tentativi
attuati
dalla
Giovine
Italia
non
diedero
i
risultati
sperati:
sia
in
Savoia
nel
1833,
sia
in
Sicilia
nel
1844
le
rivoluzioni
tentate
si
dimostrarono
un
insuccesso
clamoroso,
evidenziando
come
il
popolo
“italiano”
non
fosse
ancora
pronto
per
questo
importante
passo.
Oltre
al
mazzinianesimo,vi
fu
un’altra
corrente
di
pensiero
i
cui
membri
sono
considerati
gli
artefici
della
sollevazione
del
popolo
italiano
nel
1848:
quella
del
movimento
moderato
liberale,
che
andava
sotto
il
nome
di
movimento
neoguelfo.
Esso
basava
la
sua
lotta
sulle
vie
legali,
cercando
di
scavare
lentamente
nell’organizzazione
monarchico
assolutista,
inserendo
idee
liberali
in
maniera
graduale.
Questo
movimento
prese
vigore
con
l’elezione
al
soglio
pontificio
di
Giovanni
Maria
Mastai
Ferretti,
che
prese
il
nome
di
Pio
IX,
nel
1846.
Egli
era
un
papa
considerato
di
idee
liberali
e
meno
conservatore
del
suo
predecessore
Gregorio
XVI.
In
verità
questa
sua
caratterizzazione
fu
forzata
dagli
stessi
neoguelfi
per
ottenere
l’appoggio
della
popolazione,
quasi
nella
totalità
ovviamente
di
religione
cattolica.
Egli
in
verità
era
un
papa
tradizionalista
e
conservatore
quasi
quanto
i
papi
che
lo
precedettero.
La
sua
apertura
riguardava
semplicemente
una
minore
rigidità
della
censura
e
delle
deboli
concessioni
alla
libertà
di
parola
delle
varie
gazzette
e
quotidiani
nello
Stato
Pontificio.
Il
suo
sbaglio
più
grave
fu
proprio
cadere
nell’adulazione
dei
neoguelfi.
Infatti
se
pur
non
appoggiava
le
idee
dei
liberali,
non
rinnegò
legittimamente
gli
elogi
e
gli
appellativi
sciovinisti
che
gli
vennero
affibbiati.
Non
si
rese
conto
di
quanto
la
rivoluzione
fosse
così
vicino
all’esplosione.
Non
c’era
da
stupirsi
se
durante,
ad
esempio
le
cinque
giornate
di
Milano,
o
durante
la
sollevazione
di
Palermo,
i
patrioti
assediavano
le
truppe
regie
esaltandosi
al
grido
di
“Viva
Pio
IX”.
Con
l’allocuzione
del
29
aprile1848
mostrò
le
sue
vere
intenzioni:
impossibile
fare
la
guerra
ad
uno
stato
cattolico
quale
era
l’Austria.
Questa
dichiarazione
avvenne
però
troppo
tardi:
la
guerra
era
iniziata
da
più
di
un
mese,
e le
truppe
pontificie,guidate
dal
generale
Durando,
erano
già
in
movimento
per
prestare
soccorso
ai
veneti
a
all’esercito
piemontese.
La
conseguenza
fu
la
creazione
della
Repubblica
romana
e la
sua
cacciata
dalla
città
eterna.
Assieme
al
papa
“liberale”
l’altra
figura
che
fece
sperare
concretamente
in
un
importante
cambiamento
fu
quella
di
Carlo
Alberto.
Re
di
Sardegna,
egli
fu
uno
dei
primi
sovrani
italiani
che
concesse
la
costituzione
nel
proprio
Stato,
che
prese
il
nome
di
Statuto
Albertino
in
suo
onore.
Il
popolo
sperava,
compresi
alcuni
proto-socialisti
come
Pisacane,
che
egli
potesse
essere
il
sovrano
liberatore
su
cui
fare
affidamento
per
la
sollevazione
contro
l’Austria,
il
principale
nemico
da
abbattere,
per
poi
discutere
a
guerra
finita
il
regime
giusto
per
l’eventuale
neonato
Stato
italiano.
In
verità
il
suo
intervento
fu
disastroso
e
non
fece
altro
che
rovinare
ciò
che
i
patrioti
delle
varie
città
italiane
avevano
fatto.
Egli
scese
in
guerra
contro
l’Austria
come
un
liberatore
del
popolo
dal
giogo
straniero,
ma
si
rivelò
ben
presto
poco
più
di
un
sovrano
che
faceva
solamente
gli
interessi
della
propria
corona,
tradizionalmente
volta
a
conquistare
la
Lombardia.
Le
sue
discutibili
azioni,
come
ad
esempio
snobbare
i
volontari
del
Lombardo-Veneto
o
l’invio
di
aiuti
mancato
ai
difensori
della
Repubblica
Veneta
e
del
Friuli,
dimostrarono
come
egli
avesse
più
avversione
verso
i
repubblicani
che
contro
il
vero
nemico,
cioè
l’Austria.
Condusse
una
guerra
“d’invasione”
schierando
le
truppe
in
maniera
difensiva,
come
a
voler
mantenere
la
Lombardia
conquistata
nei
primi
giorni
di
campagna,
quando
invece
sarebbe
servita
un’azione
di
forza
contro
delle
truppe
nemiche
in
fuga
verso
il
Veneto,
quali
erano
quelle
di
Radetzky
alla
fine
del
marzo
del
1848,
ovvero
all’inizio
dell’offensiva.
Perdendo
praticamente
quasi
tutti
gli
scontri
campali
rischiò
addirittura
una
controffensiva
austriaca.
Abbandonò
i
milanesi
che
avevano
sperato
nella
suo
intervento
liberatorio,
lasciandoli
alla
mercè
degli
austriaci,
ritornati
nella
città
ribelle
pochi
mesi
dopo
le
cinque
giornate.
L’armistizio
di
Salasco
fu
probabilmente
l’unica
conclusione
degna
della
sua
azione
di
guerra
nel
1848.
Ad
ogni
modo,
la
così
detta
“primavera
dei
popoli”,
così
chiamata
perché
la
lotta
venne
iniziata
e
condotta
appunto
dal
popolo,
ebbe
inizio
a
Parigi.
Nel
febbraio
del
1848
il
regno
di
Luigi
Filippo
finì
e al
suo
posto
venne
istaurata
la
Repubblica.
A
macchia
d’olio
le
rivolte
per
chiedere
la
carta
costituzionale
si
estesero
in
tutta
Europa,
come
in
Belgio
e in
Polonia.
In
Italia
i
primi
a
insorgere
furono
i
siciliani
nel
gennaio
del
1848,
i
quali
costrinsero
Ferdinando
II
sovrano
del
Regno
delle
Due
Sicilie
a
concedere
la
costituzione,
seguito
da
Leopoldo
II
sovrano
del
Granducato
di
Toscana
e,
come
abbiamo
visto,
da
Carlo
Alberto
re
di
Sardegna.
Le
rivolte
nel
Lombardo-Veneto
si
ebbero
solo
quando
giunsero
le
notizie,
a
Milano
e a
Venezia,
della
sollevazione
di
Vienna,
con
la
quale
i
favorevoli
a
una
costituzione
liberale
spinsero
l’imperatore
a
fare
importanti
concessioni.
Milano
fu
la
prima
a
insorgere
e a
cacciare
le
truppe
del
generale
Radetzky,
nel
periodo
noto
come
“le
5
giornate
di
Milano”,
seguita
poi
da
Venezia.
La
città
lagunare
riuscì
a
liberarsi
delle
truppe
austriache
e a
creare
la
Repubblica
di
San
Marco
senza
praticamente
sparare
una
pallottola.
Ciò
fu
possibile
grazie
all’astuzia
e
alla
rapidità
d’azione
dell’avvocato
Daniele
Manin,
il
quale
grazie
alla
presa
immediata
dell’Arsenale
e
dei
vari
forti
posizionati
nell’entroterra,
riuscì
tra
la
notte
tra
il
22
marzo
e il
23
marzo
del
1848
ad
essere
padrone
della
città
e a
far
allontanare
tutte
le
truppe
austriache
già
il
24
marzo.
Tuttavia
Manin
commise
anche
gravi
errori,
il
primo
dei
quali
fu
di
far
imbarcare
il
governatore
austriaco
Palfy
sulla
stessa
nave
che
avrebbe
dovuto
avvisare
la
flotta
stanziata
a
Pola
della
rivoluzione.
Composta
nella
maggior
parte
dei
marinai
da
italiani,
essa
era
fondamentale
per
il
controllo
dell’Adriatico.
Privare
completamente
l’Austria
della
forza
navale
significava
poter
attuare
un
blocco
sul
porto
di
Trieste,
attuando
un
offensiva
letale
per
l’economia
asburgica.
Ma
ciò
non
avvenne.
Sbarcato
a
Trieste,
Palfy
avvisò,
come
era
prevedibile,
le
autorità
le
quali
fecero
rapidamente
richiamare
la
flotta
prima
dell’arrivo
della
nave
incaricata
di
avvisarla
della
rivoluzione
di
Venezia.
Di
fatto
la
città
che
subì
il
blocco
navale
fu
proprio
Venezia.
L’altro
grave
errore
commesso
dal
Manin
fu
quello
di
concedere
a
più
di
3000
soldati
italiani
stanziati
a
Venezia,
precedentemente
sotto
le
armi
austriache,
il
congedo.
Permettendo
loro
di
tornare
alle
proprie
case,
perse
il
corpo
di
uomini
che
avrebbe
dovuto
formare
lo
zoccolo
duro
dell’esercito
veneto,
che
era
appena
da
creare.
Cosa
ancora
peggiore
a
queste
truppe
regolari,
pur
sapendo
che
si
sarebbero
sciolte
appena
sbarcate
sulla
terraferma,
venne
lasciato
loro
tutto
l’equipaggiamento
d’ordinanza
che
sarebbe
potuto
tornare
utile
successivamente
durante
la
guerra.
Attuando
queste
leggerezze
Manin,
involontariamente,
diede
un
colpo
mortale
a
qualsiasi
tentativo
offensivo
che
la
neonata
Repubblica
di
San
Marco
avrebbe
potuto
attuare.
Quindi,
senza
flotta
e
senza
un
esercito
in
grado
almeno
di
compiere
azioni
di
disturbo
e di
guerriglia,
Venezia
fu
costretta
per
tutto
il
corso
del
biennio
bellico
a
restare
inerte.
I
tentativi
attuati
da
Manin
per
far
del
bene
alla
città
lagunare
furono
soprattutto
diplomatici,
ma
purtroppo
per
lui
essi
non
diedero
alcun
frutto.
La
Repubblica
venne
lentamente
abbandonata
a se
stessa
dalle
varie
potenze
internazionali,
anche
quando
fu
l’ultimo
baluardo
europeo
contro
il
regime
imperialista
e
dispotico,
ciò
avvenne
soprattutto
agli
errori
all’inizio
dell’insurrezione
e
sopra
descritti.
Ad
ogni
modo
con
la
perdita
di
Venezia
l’esercito
asburgico,
nel
marzo
del
1848,
vide
cadere
una
dopo
l’altra
le
città
principali
della
regione:
Treviso,
Vicenza,
Padova,
Udine
e la
fortezza
di
Palmanova.
Solo
Verona
rimase
agli
austriaci,
città
importante
strategicamente,
avendo
sotto
controllo
praticamente
tutta
la
viabilità
del
Veneto,
in
cui
pose
il
suo
quartier
generale
il
comandante,
in
fuga
da
Milano
Radetzky.
Il
compito
dei
patrioti,
ormai
padroni
delle
varie
città,
era
quello
di
reclutare
il
maggior
numero
di
soldati
validi
per
contrastare
la
prevedibile
controffensiva
austriaca.
Molti
furono
i
volontari,
e, a
capo
delle
operazioni
militari,
vennero
scelti
ex
ufficiali
italiani
che
avevano
servito
sotto
l’Austria,
facendosi
la
giusta
esperienza,
e
coloro
che
avevano
partecipato
in
gioventù
alle
guerre
napoleoniche.
Riferimenti
bibliografici:
P.
Pieri,
Storia
militare
del
risorgimento,
Torino,
Luigi
Einaudi,
1962.
G.B.
Cavedalis,
I
Commentarii
volume
primo,
Udine,
tipografia
G.B.
Doretti,
1928.