suGLI AFFRESCHI DELLA CATTEDRALE
DI ORTONA
TRA
LE DUE GUERRE E OLTRE / I
di
Teresa Nicolangelo
Ortona, dicembre 1943. La settimana
di Natale è ben lontana dal
dispensare pace e serenità alla
città, ma vi si abbatte,
squassandone il cuore, al pari di un
fulmine che si abbatta su di un
albero, squarciandone il tronco:
tutto ciò che rimane in seguito è
soltanto l’altissimo tributo di vite
umane versato (tra civili e
un’intera generazione di
giovanissimi militari, arruolati
principalmente sotto bandiera
canadese) – e che è valso alla
cittadina il triste appellativo di
“Piccola Stalingrado” –, unito a un
cumulo di macerie.
.
Rovine della Cattedrale di San
Tommaso Apostolo in seguito alla
distruzione
per mano tedesca del 21 dicembre del
1943
In occasione dell’ottantesimo
anniversario della liberazione della
città per mano alleata, celebrato il
28 dicembre scorso 2023, si vogliono
affidare alla memoria le ultime fasi
di quella che si è tramutata da
simbolo della devozione della città
a simbolo del suo martirio, la
Cattedrale di San Tommaso Apostolo,
minata e sventrata da mano tedesca,
ulteriore beffa sacrilega, proprio
all’alba del giorno della festività
dedicata al santo, il 21 dicembre.
Intitolata a Maria nel suo impianto
originario (senza risalire alle
precedenti fasi paleocristiana e
bizantina, dalla planimetria
lievemente difforme), databile al
1127 (come attestato dalla lapide
dedicatoria, ora al Museo
Diocesano), la cattedrale ortonese,
come si è detto, oggi dedicata
all’apostolo Tommaso – del quale dal
1258 è custode delle reliquie – ha
attraversato nei secoli numerosi
rimaneggiamenti, a causa di eventi
traumatici (i sismi del 1676 e del
1703, le profanazioni turca del 1566
e francese del 1799), ma anche per
maggior gloria del prezioso
thesaurum fidei di cui è
custode, giungendo infine a
conoscere nel XX secolo un’intensa
stagione di rivisitazioni e
restauri, dovuti certamente allo
zelo devozionale popolare, ma anche
e soprattutto alle vicissitudini
storiche che, come accennato in
precedenza, nel corso del secondo
conflitto mondiale hanno inferto
profonde ferite alla popolazione, al
territorio, all’edificio sacro.
La successione degli eventi è ben
documentata e ricostruibile grazie
ai verbali di delibera e alla
cronaca dell’epoca, i quali
informano della volontà, da parte
del Capitolo Generale e di cittadini
benemeriti, d’intraprendere
importanti restauri nel tempio,
sempre più deteriorato sia
all’interno che all’esterno,
proposito ulteriormente favorito dal
clima speranzoso scaturito dal
termine fausto della Grande Guerra e
dal recente insediamento del nuovo
vescovo, Mons. Nicola Piccirilli, al
termine di una vacanza episcopale in
diocesi durata ben sedici mesi.
Nel settembre 1919, con una missiva
in cui si richiede una valutazione
statica dell’edificio e un consiglio
su stile decorativo e ordine di
realizzazione degli interventi da
attuare, si sceglie di rivolgersi
direttamente a Giovan Battista
Giovenale, architetto artefice dei
Sacri Palazzi Apostolici, invito e
incarico che l’architetto accetta,
redigendo a seguito della sua visita
una puntuale e dettagliata relazione
in cui rassicura sull’aspetto
statico e sull’opportunità di alcuni
interventi, tra i quali il
rimaneggiamento della cupola a
tiburio eretta nel 1719,
necessitante principalmente di un
rivestimento in piombo in grado di
arginare le numerose infiltrazioni,
oltre che di una decorazione
adeguata all’importanza del sacro
edificio.
Il progetto del Giovenale trova
entusiastico consenso: l’opera di
restauro prende l’avvio e prosegue
senza posa e senza soluzione di
continuità persino quando, alla
scomparsa dell’architetto, si decide
di far succedere il figlio Luigi
nella direzione dei lavori, mettendo
mano dapprima al restauro delle
cappelle, poi al rivestimento della
cupola e alla sua classicheggiante
decorazione a lacunari in stucco
dorato, affidata al romano Francesco
Sarti, mentre una relazione del
Comitato Esecutivo Pro Restauri
Cattedrale, in data 7 gennaio 1930,
informa dell’intenzione del
Presidente, il Podestà Romolo
Bernabeo, di affidare la decorazione
a fresco delle quattro vele di
sostegno alla cupola “all’ortonese
Sig. Antonio Piermatteo che per
concorso, a giudizio di competenti,
e del pubblico, è risultato uno dei
migliori, e il cui valore artistico
è stato riconosciuto dallo stesso
Ing. Giovenale”, opinione del resto
condivisa e congiuntura auspicata
anche dalla stampa locale, spesso
assumente la voce di Alfredo
Francia: «Altra prova di tutto
l'interessamento che spiega il
benemerito Comitato sta nel fatto
che in questi giorni esso ha creduto
doveroso di esporre i bozzetti
inviati dai vari artisti, per far
dipingere nei quattro piloni, le
figure dei primi storici della vita
messianica del Nazareno. Il nostro
pittore Antonio Piermatteo, invitato
anch’egli ha fatto pervenire al
comitato due bozzetti: un S. Marco e
S. Giovanni. In questi due lavori
l'autore sia per la muscolatura
possente con cui ha disegnato le due
figure, sia per le carni aduste,
quasi bronzee, cui un prestigioso
giuoco di luci dà ai due corpi un
rilievo esuberante, mostra di
essersi ispirato – con giusto
criterio – ai nostri grandi maestri
del ’500, acciocchè i dipinti siano
in armonia con lo stile del tempio,
che è appunto il Rinascimento.
Veneranda oltre ogni dire è la
imponente figura di S. Marco, che ci
apparisce veramente mistico nel
momento in cui un angelo del Signore
gli addita il Cielo, onde egli a
quel gesto si spiritualizzata, e
resta assorto nella divina
contemplazione. Indovinatissimo il
S. Giovanni dal volto austeramente
dolce, nella calma appariscente del
quale c'è qualcosa che atterrisce
perché dopo che avrà scritto l'Evanglio,
che un paffutello spirito celeste
gl'ispira, ci annuncierà dall’isola
di Patmos i supremi decreti di un
Dio inflessibile. In questi due
lavori ben si ravvisano – oltre il
misticismo – la correttezza nel
disegno, il movimento, la vita, onde
ben possiamo esser certi che essi
accresceranno imponenza e vaghezza
al tempio che, per mole e
architettura, è tra le prime chiese
d’Abruzzo» (“La Nuova Fiaccola”,
15 giugno 1930).
Nella primavera del 1931 Antonio
Piermatteo espone in Cattedrale il
bozzetto/cartone preparatorio in
scala reale del primo Evangelista
che è chiamato a realizzare: «La
maschia, meravigliosa imponenza di
questo quadro colpisce subito
l'animo di chi guarda: lo storico
della Chiesa sostiene con la
sinistra un volume aperto, mentre
tra le dita della mano destra
stringe la penna, con cui scriverà
la vita messianica del Nazareno. Lo
sguardo di questa figura concepita
dal giovine autore rivela in modo
mirabile che l'Evangelista è tutto
assorto ad ascoltare quando un alato
messaggero gl'ispira, additandogli
il cielo. Il Piermatteo, nel suo
impeto dinamico, ha avuto la visione
precisa di quando doveva compiere
col suo pennello; ha messo a nudo i
muscoli, ha disegnato scorci
ardimentosi e, nella calma austera e
grave del suo S. Marco, ha impresso
qualcosa che atterrisce e che ci
obbliga a meditare sul profondo
mistero della Divinità. Questo
lavoro del Piermatteo è ben
riuscito, come ebbe a giudicare la
commissione espressamente nominata,
onde – dato il genio che lo anima –
saprà certamente riuscire a
concepire anche le figure degli
altri tre Evangelisti» (“La
Nuova Fiaccola”, 31 maggio 1931).
Nell’agosto dello stesso anno i
bozzetti preparatori degli altri
Evangelisti sono pronti per essere
sottoposti nuovamente al giudizio di
conformità del Comitato e ancora una
volta è la stampa dell’epoca ad
aiutare nella puntuale ricostruzione
degli eventi, in qualche modo
percepiti dalla cittadina come
epocali: «Ultimato il primo
affresco di San Marco Evangelista,
si è proceduto al collaudo alla
presenza del Commissario Prefettizio
del Comune cav. Uff. dottor
Francesco Sestini, dall’architetto
comm. Luigi Giovenale di Roma, del
Presidente del Comitato rev. don
Giuseppe Venturini, del Componente
Camillo Garzarelli, dell’architetto
prof. Paride Pozzi e dell’artista
Rocco Basta. Preso in esame
l’Evangelista San Marco, eseguito ad
affresco dal Piermatteo, si è
riscontrato conforme al bozzetto e
al cartone già approvati, lodandone
la no-tevole composizione e il buon
modellato. Quanto ai colori si è
ritenuto che dal completamento degli
altri Evangelisti e dopo la
tinteggiatura e doratura degli
arconi, essi risulteranno più
intonati all’ambiente. Esaminati poi
i cartoni degli altri tre
evan-gelisti San Giovanni, San Luca
e San Matteo, la Commissione ne ha
lodato la composizione e il
modellato. Dopo approvata l’opera
già eseguita dal Piermatteo, al
medesimo è stata affidata
l’esecuzione degli altri tre
affreschi. […] La figura
dell’Evangelista già dipinta dal
Piermatteo è magistralmente
disegnata tanto nei particolari
anatomici, quanto nel difficile
effetto prospettico. Nel suo
panneggio, di fattura modernizzata,
la bella figura si stacca in una
completa armonia di vivaci
colorazioni. Il leone, i putti nei
loro ben appropriati atteggiamenti,
i motivi architettonici, lo sfondo
arioso incorniciano egregiamente la
figura del santo formando un quadro
di piena vitalità artistica. Nella
forza del disegno dei cartoni pronti
per le altre tre figure da
affrescare è facile trarre tutto il
miglior auspicio per la perfetta
riuscita delle pitture che
completeranno quest’opera veramente
degna del maggior tempio di questa
città» (“La Nuova Fiaccola”, 23
agosto 1931).
.
A. Piermatteo,
I quattro Evangelisti, affreschi
delle vele della cupola della
Cattedrale di San Tommaso Apostolo
in Ortona. In
senso orario: San Matteo (unico
superstite alla deflagrazione del
21 dicembre del 1943);
San Marco; San Luca; San Giovanni.
Il fastoso stile rinascimentale
(indicazione decorativa del
comitato, ma anche personale
suggestione derivante dalla
formazione romana dell’artista), che
s’impone alla vista dell’osservatore
in particolar modo nella possanza e
nella poderosa anatomia dei corpi –
per nulla eterei –, viene
alleggerito e riattualizzato
attraverso una certa stilizzazione
dei panneggi, che è testimone del
gusto déco dell’epoca: se Marco, di
michelangiolesca memoria –
riecheggiando nella torsione del
capo rispetto alla frontalità del
busto, nel trattamento delle ciocche
fiammeggianti della barba e
nell’attitudine (medesima postura,
ma orientamento inverso delle gambe)
il celebre Mosè –, occhieggia a El
greco per le proporzioni allungate e
la cromia che s’intuisce la più
intensa del gruppo pittorico; e se
Luca, con la sua lunga barba, il
libro e l’espressione meditabonda
sembra strizzare l’occhio a una
certa iconografia paolina, mentre
Giovanni, nella sua versione
giovanile sembra ricalcare quella
dell’episodio che lo vede
protagonista della storia con calice
e serpentello a Efeso; è nel Matteo
superstite – singolare coincidenza –
che sembra sublimarsi, persino nella
testa del Santo, tutta la classicità
e la vis del modellato antico.