N. 59 - Novembre 2012
(XC)
Castruccio Castracani
dalla battaglia di Montecatini al mancato assedio di Firenze
di Lorenzo Magnolfi
Bisogna
riconoscere
che
durante
lo
scorrere
dei
secoli,
la
città
di
Firenze
rischiò
più
di
una
volta
di
essere
distrutta
a
seguito
di
un assedio,
ma
riuscì
a
non
soccombere,
vuoi
per
l'intervento
di
qualche
fattore
esterno,
vuoi
per
le
incerte
trame
della
fortuna,
per
l'intercessione
di
qualche
divinità
pagana
o
santo
cristiano.
Prima
di
parlare
della
figura
della
quale
abbiamo
deciso
di
occuparci,
Castruccio
Castracani,
condottiero
ghibellino
dalla
grande
ambizione,
simbolo
della
nascente
forza
dei
singoli
signori,
che
nel
corso
del
XIV
sec.
si
sostituirà
a
quella
delle
istituzioni
comunitarie
nel
governo
delle
città,
possiamo
tracciare
un
breve
excursus
degli
episodi
in
cui
Firenze
fu a
un
passo
dall'essere
rasa
al
suolo.
I
venti
freddi
e
impetuosi
soffiano
sempre
da
Nord,
ed è
come
un
vento
di
tempesta
che
nel
405
d.C.
su
Firenze
calarono i
Goti,
guidati
dal
loro re Radagasio
in
persona.
Attraversate
le
alture
del
Mugello,
i
barbari
occuparono
Fiesole,
ridotta
allora
a
una
semplice
roccaforte,
e si accamparono
presso
le
mura
della
città,
cingendola
d'assedio.
La
guarnigione
romana
presente
nel
municipium
riuscì
a
resistere
a
lungo,
organizzando
addirittura
delle
sortite
fuori
dalle
porte
civiche
per
sfiancare
gli
assedianti,
già
provati
dal
caldo
estivo.
Nel
frattempo,
l'esercito
dell'imperatore
d'Occidente
Onorio,
guidato
da Stilicone,
generale
vandalo
fedele
a
Roma,
ebbe
la
possibilità
di
venire
in
soccorso
alla
città.
In
uno
scontro
che
si
svolse
tra
Fiesole
e il
torrente Mugnone,
le
orde
gotiche
furono
annientate
e lo
stesso
Radagasio,
fatto
prigioniero,
venne
decapitato
sul
posto.
Esattamente
137
anni
dopo,
nel
542
d.C.
un
nuovo
esercito
di
Goti
mise
Firenze
(a
dire
il
vero
ormai
ridotta
a
poco
più
che
una
cittadella
fortificata)
sotto
assedio.
Erano
gli
anni
oscuri
e
terribili
della
guerra
greco-gotica,
quel
lungo
e
sanguinoso
conflitto
che
vide
fronteggiarsi
attraverso
la
penisola
le
truppe
dell'imperatore
bizantino
Giustiniano
e
l'esercito
goto
del
re
Totila.
Anche
stavolta
però
la
città
resse
all'attacco
e
l'arrivo
dell'armata
imperiale,
giunta
in
soccorso
da
Ravenna,
fece
subito
smobilitare
gli
assedianti,
che
si
ritirarono
inseguiti
in
Mugello,
attestandosi
nei
pressi
di
Scarperia,
Quella
che
sembrava
una
vittoria
ormai
certa
per
i
bizantini
si
trasformò
in
una
sconfitta,
allorché
i
soldati
cominciarono
a
darsi
alla
fuga,
presi
dal
panico
per
la
falsa
notizia
della
morte
del
loro
comandante
Giovanni.
I
Goti
vinsero,
ma
la
città
fu
risparmiata,
anche
se
la
guerra
continuò
a
imperversare
ancora
a
lungo
nel
contado.
Come
non
ricordare
poi
il
momento
in
cui
Firenze,
fu
davvero
a un
passo
dall'essere
distrutta,
ovvero
dopo
la
sconfitta
nella
battaglia
di
Montaperti
nel
1260?
I
ghibellini
senesi,
alleati
del
re
Manfredi
di
Sicilia,
figlio
naturale
di
Federico
II
di
Svevia,
fecero
strage
dei
guelfi
fiorentini,
stanchi
per
la
lunga
marcia
e
impreparati
allo
scontro:
"Lo
strazio
e ’l
grande
scempio
che
fece
l’Arbia
colorata
in
rosso",
sono
le
famose
parole
usate
da
Dante
nel
canto
X
della
Divina
Commedia
per
descrivere
la
ferocia
dello
scontro.
Indissolubilmente
legata
a
questo
fatto
d'armi
e
mirabilmente
tratteggiata
dal
poeta
nello
stesso
canto,
è la
figura
di
Farinata
degli
Uberti,
appartenente
ad
una
delle
più
antiche
e
nobili
famigli
di
Firenze
e
capo
della
fazione
ghibellina.
La
sua
voce
fu
l'unica
a
levarsi
apertamente
in
difesa
della
patria,
che
senesi
e
pisani
avrebbero
voluto
distruggere:
"Ma
fu’
io
solo,
là
dove
sofferto/fu
per
ciascun
di
tòrre
via
Fiorenza,/
colui
che
la
difesi
a
viso
aperto".
Curioso
episodio
fu
poi
quello
che
si
svolse
pochi
anni
dopo
nel
1312,
quando
le
milizie
di
Enrico
VII
(o
Arrigo),
calato
l'anno
prima
in
Italia
per
farsi
incoronare
re
d'Italia
a
Milano
e
imperatore
a
Roma,
posero
l'assedio
a
Firenze,
caposaldo
dei
guelfi
toscani
alleati
del
re
di
Napoli
Roberto
d'Angiò.
Fu
questo
a
dire
il
vero
un
assedio
alquanto
singolare,
poiché
le
truppe
imperiali
arrivate
da
sud,
forti
di
15000
fanti
e
2000
cavalieri,
si
accamparono
nella
zona
di
San
Salvi,
senza
circondare
tutta
la
città.
I
fiorentini,
che
sapevano
di
non
poter
vincere
una
battaglia
in
campo
aperto,
restarono
cauti
dentro
le
mura,
attendendo
l'arrivo
dei
rinforzi
provenienti
da
Bologna,
Lucca
e
Siena.
Tutte
le
porte
della
città,
tranne
quella
di
fronte
all'accampamento
imperiale
restarono
aperte,
permettendo
che
i
commerci
proseguissero
e i
rifornimenti
entrassero
senza
problemi.
Dopo
sei
settimane
d'assedio
Enrico
fu
costretto
a
levare
le
tende,
morendo
poco
tempo
dopo
di
febbri
malariche
nei
pressi
di
Buonconvento.
Tutt'ora
resta
ancora
una
testimonianza
di
quest'evento
nella
toponomastica.
Vi è
infatti
una
strada
chiamata
via
Campo
d'Arrigo,
a
ricordate
il
luogo
dove
l'imperatore
germanico
pose
il
suo
accampamento.
Siamo
giunti
quindi
agli
anni
in
cui
cominciò
a
distinguersi
nelle
guerre
italiane
Castruccio
Castracani,
nobile
lucchese,
abile
uomo
d'armi
e
protagonista
indiscusso
della
vita
politico-militare
della
penisola
tra
il
1315
e il
1328.
Castruccio
nasce
a
Lucca
nel
1281
dalla
nobile
famiglia
ghibellina
degli
Antelminelli,
una
delle
più
illustri
della
città.
Cacciato
nell'anno
giubilare
1300
per
il
prevalere
della
fazione
dei
Neri,
va
in
esilio
prima
a
Pisa
e
poi
parte
alla
volta
dell'Inghilterra.
Nel
paese
anglosassone
accresce
la
propria
perizia
nell'uso
delle
armi
e
ottiene
molte
vittorie
in
tornei
cavallereschi,
oltre
che
il
favore
del
re
Edoardo
I.
A
causa
di
un
delitto
d'onore
è
però
costretto
a
lasciare
l'isola
e a
fuggire
in
Francia,
dove
serve
sotto
Filippo
il
Bello
come
condottiero
di
cavalleria.
Rientrato
in
Italia
al
seguito
di
Enrico
VII,
soggiorna
a
Verona
e
Venezia,
aggregandosi
poi
nel
1314
alle
truppe
ghibelline
di
Uguccione
della
Faggiuola,
signore
di
Pisa
e
Arezzo,
allora
capo
dei
ghibellini
toscani.
Potrà
vendicarsi
dell'onta
subita
quattordici
anni
prima,
assediando
e
conquistando
Lucca,
in
quel
frangente
governata
dai
guelfi.
Nel
1315
partecipa
alla
battaglia
di
Montecatini,
la
prima
grave
sconfitta
per
i
fiorentini
nel
XIV
sec.,
guadagnandosi
il
merito
di
esser
il
principale
artefice
della
vittoria.
Sotto
la
rocca
di
Montecatini
si
fronteggiò
il
29
agosto
1315,
l'esercito
ghibellino
di
Lucca
e
Pisa
contro
quello
guelfo
di
Firenze,
alleata
con
Siena,
Prato,
Pistoja,
San
Gimignano,
Volterra
e
gli
angioini.
LO
scontro
appariva
impari,
vista
la
superiorità
numerica
delle
truppe
filopapali,
ragion
per
cui
la
vittoria
pisana
fu
ancor
più
inaspettata.
Filippo
I
d'Angiò,
figlio
del
re
di
Napoli
era
alla
testa
dei
guelfi,
mentre
i
ghibellini
erano
guidati
da
Uguccione
e
Castruccio.
La
forza
del
numero
fece
dare
per
scontata
la
vittoria
ai
fiorentini.
I
pisani
potevano
però
contare
su
1800
cavalieri
mercenari
tedeschi,
restati
al
loro
servizio
dopo
la
fine
della
campagna
di
Enrico
VII.
Gli
alemanni
erano
inoltre
motivati
a
combattere,
oltre
che
dai
soldi
di
Pisa,
anche
da
una
profonda
avversione
per
i
guelfi
e
gli
angioini.
I
terreni
paludosi
della
pianura
intorno
a
Montecatini
resero
difficoltosi
gli
spostamenti
e la
ritirata
dei
fiorentini,
favorendo
ancor
più
la
vittoria
di
Pisani
e
Lucchesi.
A
detta
di
Giovanni
Villani,
il
maggior
storico
della
Firenze
in
età
comunale,
autore
della
Nuova
Cronica,
furono
ben
poche
le
famiglie
nobili
in
città
che
non
patirono
qualche
lutto
o
non
dovettero
pagare
ingenti
riscatti
per
aver
indietro
gli
uomini
catturati
in
battaglia.
Castruccio
cadde
però
in
disgrazie
presso
Uguccione,
invidioso
della
fama
che
il
lucchese
si
era
conquistato
sul
campo.
Fatto
imprigionare
e in
attesa
di
essere
giustiziato,
il
condottiero
ebbe
dalla
sua
il
fato
e
venne
liberato
durante
una
rivolta
di
popolo
scoppiata
a
Lucca
e
Pisa
contro
il
dominio
di
Uguccione.
E
proprio
a
Castruccio
il
popolo
offrì
il
potere
nel
1316.
Dopo
aver
consolidato
la
sua
signoria
su
Lucca,
nel
1320
riprese
le
ostilità
contro
Firenze.
Federico
I
d'Asburgo
lo
nominò
nel
frattempo
vicario
imperiale
per
Lucca,
la
Lunigiana
e la
Val
di
Nievole,
incarico
che
gli
sarà
confermato
del
1324
da
Ludovico
il
Bavaro.
Eccoci
dunque
a
quel
1325,
vero
annus
horribilis
per
Firenze
e
apice
della
gloria
per
Catruccio.
In
quest'anno
infatti,
in
un
luogo
non
distante
da
quello
dove
un
decennio
prima
i
fiorentini
erano
già
stati
sconfitti,
si
svolse
la
battaglia
decisiva
tra
le
due
anime
della
lotta
politica
del
tempo.
Al
comando
delle
milizie
fiorentine
vi
era
lo
spagnolo
Ramon
de
Cardona,
ex
capitano
della
guardia
pontificia
di
Giovanni
XXII,
che
poteva
contare
sul
15000
fanti
e
2500
cavalieri.
La
conquista
di
Pistoja
da
parte
di
Castruccio
fu
l'atto
che
indusse
i
fiorentini
ad
entrare
in
guerra
contro
la
coalizione
ghibellina.
Il
Castracani
si
era
acquartierato,
in
attesa
dei
rinforzi
che
gli
dovevano
giungere
dai
Bonacolsi,
dai
Visconti
e da
Cangrande
delle
Scala,
nel
borgo
collinare
di
Montecarlo
dal
quale,
secondo
la
tradizione,
diresse
i
movimenti
delle
sue
truppe
durante
lo
scontro.
I
guelfi
invece
avevano
attuato
una
puntata
sul
borgo
di
Altopascio,
sede
di
un
importante
ospedale
ricovero
per
i
pellegrini,
gestito
dai
cavalieri
di
san
Giovanni.
La
piccola
guarnigione
che
difendeva
l'abitato
cedette
dopo
aver
resistito
per
ben
26
giorni,
permettendo
così
l'arrivo
dei
rinforzi
ghibellini.
L'insalubrità
del
clima
per
la
presenza
di
estese
paludi,
la
corruzione
e le
risse,
fiaccavano
l'esercito
guelfo,
che
arrivo
stanco
alla
giorno
della
battaglia
vera
e
propria,
svoltasi
il
25
settembre.
Ancora
una
volta
è
Giovanni
Villani
ad
informarci
che
i
ghibellini
erano
già
vincitori
dopo
la
prima
carica
di
cavalleria,
aiutati
anche
dalle
truppe
fresche
portate
da
Azzo
Visconti,
nipote
di
Galezzo.
I
fanti
fiorentini
"storditi
e
ammaliati"
furono
travolti
dalla
loro
stessa
cavalleria
che
si
dava
alla
fuga.
Come
dieci
anni
prima
le
paludi
furono
la
tomba
per
molti
soldati
di
Firenze,
uccisi
o
annegati
in
quegli
acquitrini.
Lo
stesso
Ramon
de
Cardona
tentò
di
fuggire,
ma
fu
catturato
e
portato
a
Lucca
con
altri
500
suoi
commilitoni.
Firenze
aveva
perso
sul
campo
5000
uomini
tra
morti
e
prigionieri.
Il
Villani
attribuisce
parte
della
colpa
della
disfatta
alla
superbia
e ai
peccati
dei
fiorentini,
puniti
dalla
Provvidenza
divina,
anticipando
un
tema
che
riprenderà
nel
descrivere
la
devastante
alluvione
del
1333:
"Ma
di
certo
fu
giudicio
di
Dio
per
soperchi
peccati
d'abattere
tanta
superbia
potenza,
e
così
nobile
cavalleria
e
valente
popolo".
La
battaglia,
come
ha
sottolineato
acutamente
lo
storico
Luzzati,
non
fu
tanto
uno
scontro
tra
guelfi
e
ghibellini,
ma
piuttosto
tra
un
tipo
di
signoria
personale
inedito
in
Toscana
e un
Comune
che
rappresentava
il
modello
tradizionale
dello
stato
cittadino.
Altopascio
fu
subito
riconquistato
e
con
esso
molti
altri
borghi
della
zona:
Castruccio,
nominato
dopo
la
vittoria
Duca
di
Lucca
dall'imperatore
Ludovico
IV,
ebbe
allora
la
strada
spianata
verso
Firenze,
rimasta
di
fatto
priva
di
un
esercito
in
grado
di
difenderla.
Il
29
settembre
era
a
Signa,
lasciata
in
balia
del
nemico
dai
cavalieri
fiorentini
che:
"furon
sì
vili,
che
non
ardirono
a
tagliare
il
ponte
sopra
l'Arno".
Qui
il
lucchese
stabilì
la
sede
del
suo
comando
e il
2
ottobre
si
era
già
spinto
fino
a
Peretola,
uno
dei
sobborghi
ad
Ovest
di
Firenze,
luogo
nel
quale
attualmente
sorge
l'aeroporto
Amerigo
Vespucci.
È
ancora
una
volta
il
solito
Villani
a
trasmetterci
vividamente
lo
stato
d'animo
dei
fiorentini
che
descrive
come:
"per
paura
ammaliati",
incapaci
quindi
di
reagire
di
fronte
alla
forza
del
nemico,
rinserrati
dentro
le
mura
della
loro
città
impotente,
mentre
tutt'intorno
alte
colonne
di
fumo
si
levavano
dalle
ville
del
contado
saccheggiate
e
date
alle
fiamme.
C'era
nell'aria
anche
un
costante
timore
dei
tradimenti
e si
guardavano
con
sospetto
i
parenti
dei
prigionieri
catturati
ad
Altopascio,
poiché
si
temeva
che
questi
per
liberare
i
propri
cari,
avessero
potuto
stabilire
patti
segreti
col
nemico.
Le
truppe
ghibelline
non
erano
però
sufficienti
a
cingere
d'assedio
una
città
come
Firenze,
che
non
dimentichiamolo,
allora
contava
quasi
100000
abitanti
ed
era
una
delle
più
grandi
d'Europa.
Non
ci
fu
un
attacco
diretto
alle
mura,
ma
alcuni
atti
dimostrativi
dal
forte
valore
simbolico,
volti
a
fiaccare
il
morale
degli
assediati.
Un
palio
fu
fatto
correre
a
delle
prostitute
sotto
le
mura
come
segno
di
scherno
e
una
notte
i
ghibellini
si
spinsero
indisturbati
fin
sotto
a
porta
al
Prato,
sulla
quale
attaccarono
un
proclama
dove
si
diceva
che
avrebbero
potuto
prendere
la
città
in
qualsiasi
momento.
Castruccio
nel
frattanto
iniziò
addirittura
a
battere
moneta
(detta
castruccino),
come
segno
del
suo
potere,
dedicandosi
nelle
settimane
seguenti
a
mettere
a
ferro
e
fuoco
il
contado
occidentale
di
Firenze.
Il
castello
di
Calenzano
ad
esempio,
importante
punto
di
controllo
su
una
delle
vie
che
conduceva
a
Bologna
valicando
i
passi
appenninici,
fu
preso
e
incendiato
con
una
rapida
incursione
notturna
il 4
novembre.
Viene
da
chiedersi
allora:
perché
Firenze
non
cadde
se
la
forza
di
Castruccio
era
così
temibile
e la
paura
dei
fiorentini
così
grande?
Il
condottiero
lucchese
era
certamente
consapevole
del
numero
troppo
esiguo
dei
suoi
uomini
per
tale
impresa,
aspetto
al
quale
abbiamo
già
fatto
riferimento.
A
ciò
si
aggiunse
l'invito
fatto
al
Castracani
dall'imperatore
Ludovico
che
lo
voleva
con
se a
Roma
in
occasione
della
sua
incoronazione.
Nell'Urbe
arrivò
per
il
nostro
uomo
d'arme
la
consacrazione
definitiva.
Il
neoeletto
imperatore
lo
nominò
infatti
grande
vicario
imperiale
per
l'Italia.
L'11
novembre,
giorno
di
san
Martino,
la
città
natale
di
Lucca
gli
dedicò
un
trionfo
in
cui
fu
fatto
sfilare
il
carroccio,
simbolo
dell'unità
comunale,
sottratto
ai
fiorentini
e lo
stendardo
col
giglio
capovolto
in
segni
di
sconfitta:
"si
fece
andare
innanzi
il
carro
colla
campana
che'
Fiorentini
aveano
nell'oste,
coperto
i
buoi
dell'arme
di
Firenze,
faccendo
sonare
la
campana,
e
dietro
al
carro
i
migliori
pregioni
di
Firenze,
e
messer
Ramondo
con
tronchetti
accesi
in
mano
ad
offerere
a
sa.
Martino".
Quello
dei
riscatti
pagati
dalle
famiglie
illustri
per
gli
uomini
d'armi
catturati
in
battaglia,
è un
tema
degno
d'interesse.
Le
insegne
dei
casati
avevano
un
ruolo
fondamentale
per
identificare
il
personaggio
che
si
aveva
tra
le
mani
e il
suo
lignaggio.
C'erano
inoltre
regole
precise:
se
un
fante
catturava
un
nobile,
vista
la
grande
disparità
di
grado,
non
poteva
esser
certo
lui
a
chiedere
il
riscatto
alle
famiglie
d'appartenenza.
Il
prigioniero
veniva
quindi
ceduto
al
capitano
al
quale
il
soldato
era
sottoposto,
che
provvedeva
a
venderlo
alla
cifra
più
alta
possibile,
versando
poi
al
sottoposto
una
percentuale
prestabilita.
Gli
scudi
con
gli
stemmi
gentilizi
erano
poi
un
prezioso
bottino
simbolico,
così
come
gli
stendardi.
Basti
pensare
che
gli
scudi
dei
nemici
di
alto
rango
erano
appesi
capovolti
nel
Battistero
di
San
Giovanni
a
Firenze,
come
segno
di
scherno
e di
vittoria.
Più
tardi
venne
addirittura
messo
a
punto
un
piano,
per
fortuna
mai
realizzato,
che
prevedeva
di
allagare
Firenze
bloccando
l'Arno
presso
Lastra
a
Signa.
Possiamo
dire
che
ancora
una
volta
il
caso
e la
fortuna
avevano
salvato
la
città
del
fiore.
Ludovico
il
Bavaro
concesse
a
Castruccio
come
sommo
onore
di
poter
inserire
gli
scacchi
bianco-azzurri
dei
re
di
Baviera
(ancor
oggi
simbolo
di
quella
regione),
nel
suo
stemma,
raffigurante
un
levriero
bianco
in
campo
azzurro.
Dopo
il
1325
non
vi
furono
altre
grandi
battaglie
campali
tra
le
due
parti.
Da
segnalare
solo
la
rivolta
e la
rapida
riconquista
di
Pistoja,
assediata
dall'esercito
lucchese.
Nel
1327
l'imperatore
Ludovico
e il
suo
fidato
vicario
per
l'Italia
furono
scomunicati
dal
papa
Giovanni
XXII.
In
quello
stesso
periodo
le
forze
ghibelline
stavano
approntando
una
nuova
guerra
contro
Firenze,
con
l'intenzione
stavolta
di
chiudere
la
lotta
una
volta
per
tutte.
Come
avviene
spesso
per
i
grandi
uomini
destinati
a
lasciare
un
segno
nel
corso
della
storia,
la
morte
lo
colse
a
Lucca
il 3
settembre
1328,
dovuta
forse
alla
malaria,
forse
a un
avvelenamento.
Lasciava
come
eredi
i
figli
Giovanni,
Arrigo
e
Valeriano,
oltre
al
figlio
illegittimo
Attino.
La
città
che
tanto
lo
aveva
celebrato
in
vita,
lo
pianse
grandemente
da
morto
e in
occasione
del
suo
solenne
funerale
drappi
neri
furono
posti
alle
finestre
lungo
le
strade
dove
passava
il
corteo.
Firenze
uscì
davvero
provata
da
questo
conflitto
nel
quale
aveva
speso
l'enorme
somma
complessiva
180000
fiorini.
Si
potrebbe
dire
che
queste
sconfitte
militari
siano
il
punto
d'inizio
di
quella
crisi
del
'300
che
culminerà
col
fallimento
dei
banchi
dei
Bardi
e
dei
Peruzzi
e
con
la
Peste
Nera
del
1348.
Di
fatto
Castruccio
Castracani
e
Ludovico
il
Bavaro
furono
gli
ultimi
due
esponenti
di
spicco
del
ghibellinismo,
parte
politica
che
dopo
la
loro
scomparsa
non
troverà
più
nuovi
e
illustri
campioni.